La Sindone è un lenzuolo in lino cucito a “spina di pesce” di 442
centimetri di lunghezza per 113 di larghezza conservato nella
cappella del Guarini, vicino al Duomo di Torino. Presenta,
stampata come se fosse il negativo di una fotografia, l’immagine
di un uomo con barba e capelli lunghi: in questa immagine, molti
hanno visto impresso, per qualche misterioso e divino motivo, il
volto di Gesù Cristo. Insomma, la Sindone sarebbe il sudario di
Cristo, il lenzuolo nel quale sarebbe stato avvolto dopo la
Crocifissione ed abbandonato nel sepolcro dopo l’Ascensione. Prima
di vedere quali siano i motivi che fanno a supporto di questa
“teoria”, è opportuno tracciare una breve storia di questo telo,
ripercorrendo le tappe che l’hanno o l’avrebbero portato dalla
Palestino a Torino. Non abbiamo testimonianze, nelle Scritture, di
ciò che accadde al sudario di Cristo dopo l’ascensione. Ciò è
dovuto al fatto che, in abiente giudaico, ogni indumento o oggetto
venuto a contatto con un cadavere era considerato impuro. E'
quindi plausibile che, per salvare il telo, i discepoli abbiano
nascosto la reliquia. Una ricerca che sembra avvalorare questa
ipotesi è stata condotta dal prof. Michele Salcito, secondo il
quale le macchie d'acqua più vistose, causate dall'acqua
utilizzata per spegnere l'incendio di Chambery, non
corrisponderebbero al sistema di piegatura del telo in quell'occasione,
ma ad una piegatura "grossolana" e frettolosa fatta per inserire
il lenzuolo in una giara di terracotta del I secolo. Da un Vangelo
Apocrifo, però, sappiamo che Gesù, resuscitato, consegnò la
Sindone ad un servo del sacerdote del Tempio. Nel 33 d.C., a
Gerusalemme, il lenzuolo diventa subito oggetto dell’adorazione
dei fedeli, che lo custodiscono per più di 500 anni. Nel 544,
infatti, il telo si sposta a Edessa, in Turchia meridionale, dove,
le cronache riportano, si ha la prima apparizione di un’immagine
“non fatta da mano d’uomo”: la sua esposizione è ancora parziale,
viene mostrata solo la parte frontale, quella recante l’immagine
del volto. L’identità della Sindone si confonde, qui, con quella
di un altro oggetto simile, recante l’immagine del volto di
Cristo: il Mandylion, che, vuole la leggenda, sarebbe un
fazzoletto (mandylion in greco) sul quale Gesù impresse il suo
volto. L’ipotesi che un “fazzoletto” sarebbe la Sindone è
spiegabile con l’ipotesi che il lenzuolo fosse piegato in maniera
tale da mostrare solo il volto. Da Edessa, i bizantini la portano
a Costantinopoli, dove viene esposta integralmente. Nel corso del
XIII secolo nell’arte bizantina la raffigurazione della morte di
Cristo e della sua deposizione nel sepolcro si modifica: vengono
raffigurate caratteristiche che sembrano sottintendere la
conoscenza di particolari della Sacra Sindone. Qui rimane fino al
1204, quando i crociati entrano in città e la saccheggiano. Il
soldato crociato Robert De Clari riportò, nella sua cronaca, di
aver visto “la Sindone del Signore”, “la figura di nostro
Signore”, conservata nella chiesa di Santa Maria delle Blacherme.
Cosa succeda alla Sindone tra il XIII secolo ed il XIV rimane un
mistero. Un documento del 1204, conosciuto soltanto in una copia
ottocentesca tratta da una copia antica andata dispersa durante la
II Guerra Mondiale, ci fa ipotizzare che la Sindone, nel suo lungo
peregrinare per il Mediterraneo, abbia compiuto anche tappa ad
Atene: si tratta di una lettera indirizzata di Teodoro Angelo,
parente dei deposti imperatori bizantini, a Papa Innocenzo III
all’indomani del sacco di Costantinopoli. Nella missiva, Teodoro
Angelo si scaglia contro il comportamento dei crociati,
conquistatori e razziatori senza scrupoli e senza rispetto per gli
oggetti sacri, tra cui la Sindone, che egli sapeva essere
conservata ad Atene. Il nuovo signore feudale di Atene, nel 1204,
è Ottone de La Roche, uno dei capi della crociata, che durante la
presa di Costantinopoli ebbe il quartiere dove sorgeva la chiesa
delle Blacherne, dove era custodita la Sindone. Il telo ricompare
poi nel 1353 in Francia, a Lirey, donata a Geoffrey de Cherny,
grande generale francese, dopo un successo conseguito in
battaglia. Il nuovo “padrone” della Sindone era parente, si diceva
all’epoca, di un Cavaliere Templare e proprio i Templari, vuole la
tradizione, adoravano il viso di un uomo con la barba. E’ dello
stesso periodo storico un dipinto, presente a Templecomb,
raffigurante un volto molto somigliante a quello della Sindone,
posto su un pannello di legno: sarebbe stato il coperchio, si
dice, del contenitore della Sindone. Alla sua morte, avvenuta
nella battaglia di Poitiers, il 19 settembre 1356, si scatenò una
disputa sul possesso della reliquia tra il figlio di Geoffrey de
Charny ed i canonici di Lirey ed il vescovo di Troyes, nella quale
disputa venne coinvolto anche l’antipapa avignonese Clemente VIII.
A metà del XV secolo, Marguerite de Charny ritirò la Sindone dalla
chiesa di Lirey, dove era custodita, e la portò con sé attraverso
l’Europa. Nel 1452 il lenzuolo viene ceduto a Ludovico di Savoia,
alla famiglia del quale erano stati legati sia il padre della
nobildonna, sia il suo secondo marito, Umbert de La Roche. La
famiglia Savoia stabilisce che la si conservi a Chambéry, capitale
dell’allora ducato di Savoia. A partire dal 1471, Amedeo IX detto
“il Beato”, figlio di Ludovico, decise di collocare Sindone nella
chiesa francescana di Chambery. In seguito, la Sindone venne
definitivamente riposta in un’urna d’argento in una nicchia della
sagrestia della Sainte Chapelle du Saint-Suaire. I Savoia, nel
1502, chiesero ed ottennero dal Papa il riconoscimento di una
festa liturgica apposita, per la quale fu scelto il 4 maggio. Nel
1532, precisamente il 4 dicembre, il sudario rischia di venire
distrutto da un incendio sviluppatosi all’interno della Sainte
Chapelle: saranno le suore clarisse, nel 1534, a ripararla con
toppe triangolari. L’inizio della guerra tra Francesco I e Carlo
V, nel 1536, costringe il duca di Savoia a fuggire portando con sé
la Sindone: la Sindone passa per Torino, Milano, Nizza, Vercelli,
per fare poi ritorno ufficialmente nella Sainte-Chapelle di
Chambéry il 4 giugno 1561, in seguito alla pace di
Caveau-Cambrésis, che permetteva al nuovo duca Emanuele Filiberto
di riottenere i suoi Stati. Nel 1578 i Savoia la fanno trasportare
a Torino, nuova capitale del ducato, e la fanno porre nella
cappella del Guarini, sua attuale sede. Questo, si dice, più che
altro per abbreviare il viaggio dell’arcivescovo Carlo Borromeo,
che da Milano voleva recarsi ad adorare la Sacra Sindone a piedi,
in base ad un voto fatto in occasione della peste del 1576.
Inizialmente, la Sindone fu collocata nella chiesa di San
Francesco d’Assisi; in seguito fu spostata nella cappella ducale
dedicata a San Lorenzo. Nel 1583 fu trasferita in una cappella
rotonda dell’antico palazzo ducale e, nel 1587, venne collocata in
un’edicola del duomo. II 1 giugno 1694 la Sindone fu collocata
nella cappella della Sindone nell’altare-reliquiario ideato da
Antonio Bertola. Sarà quella la sua sede fino al 1996, quando, in
occasione dei lavori di restauro della cappella, fu collocata nel
coro del duomo. Fu, questo, un fatto provvidenziale, in quanto le
permise di scampare all’incendio scoppiato tra l’11 e il 12 aprile
1997. Nel 1706 la Sindone fu spostata momentaneamente a Genova, a
causa dell’avvicinarsi dei francesi, che si accingevano ad
assediare la città.
Ancora,
tra il 1939 ed il 1946, in previsione dei fatti della Seconda
Guerra Mondiale, fu trasportata nel santuario di Montevergine,
presso Avellino.
Nel 1983, su volere testamentario di Umberto II, viene donata al
Vaticano.
A questo punto, è opportuno analizzare da vicino questo lenzuolo,
per comprendere quali siano i dettagli che lo fanno ritenere il
sudario di Cristo.
Questa
è l’immagine totale della Sindone.
Un’analisi condotta più da vicino aiuta a riconoscere particolare
importanti. Partiamo dal busto, anteriore e posteriore
Tronco dorso presentano moltissime ecchimosi escoriate di forma
tondeggiante (1):
potrebbero
essere lesioni provocate dal flagrum taxillatum., strumento
di tortura costituito da un manico corde al termine delle quali
sono fissati dei piccoli piombi a forma di manubrio affiancati a
due a due. Su entrambe le zone scapolari si possono osservare
ecchimosi a forma quadrangolare (2), provocate da un oggetto che
può essere identificato con il patibulum, l’asse
orizzontale della croce che il condannato portava su di sé sino al
luogo dell’esecuzione. Sul fianco destro del petto si nota una
grande chiazza di sangue (3) che fuoriesce da una ferita di forma
ovoidale all’altezza del quinto spazio intercostale. Le
caratteristiche di questa ferita (che presenta, sul tessuto, un
alone sieroso costellato da macchie rossastre, come avviene per il
sangue uscito da un cadavere in cui la parte sierosa si è già
separata da quella corpuscolata) mostrano che essa fu provocata
dopo la morte dell’uomo. Continuiamo con gli arti superiori.
L’immagine
delle braccia non è più visibile a causa della strinatura del
tessuto dovuta all’incendio di Chambéry. Gli arti, comunque, sono
distesi, con una leggera flessione (4) verso l’interno per la
contrazione dell’articolazione del gomito. Sono visibili lunghe
macchie di sangue (5), colato probabilmente dalle ferite presenti
sul dorso. La mano sinistra è sovrapposta alla destra: sul polso è
ben visibile una caratteristica chiazza di sangue (6), formata da
due colature divergenti, il cui angolo è riferibile alle due
diverse posizioni del condannato sulla croce: accasciata e
sollevata. Il sangue fuoriesce dal polso da una ferita di forma
ovale, riconducibile alla lesione da uno strumento da punta, come
può essere un chiodo. La ferita provocata dal chiodo, dunque, non
è collocata sul palmo, ma sul polso, esattamente in uno spazio
libero tra le ossa del carpo, chiamato “spazio di Destot"; il
chiodo, penetrando nel polso, ha anche reciso il nervo mediano. La
scelta di inchiodare le braccia in quel punto è dettata da motivi
di stabilità e fissaggio sulla croce: i tessuti del palmo della
mano non possono reggere il peso del corpo senza lacerarsi. Tale
pratica è stata anche confermata dal ritrovamento, vicino
Gerusalemme, dello scheletro di un crocifisso del I secolo.
Concludiamo la nostra analisi con gli arti inferiori, visti da
davanti e da tergo.
E’ evidentemente il volto di un uomo picchiato: si possono notare
tumefazioni, lividi, macchie di sangue (11) (famosa è la macchia a
forma di 3 rovesciato (12), la cui forma dipende dalla rughe
d’espressione della fronte); sulla fronte, sulla nuca e lungo i
capelli, disposte a raggiera intorno al capo, sono evidenti
numerose macchie di sangue ad andamento sinuoso (13), sangue
fuoriuscito da ferite da punta di piccolo diametro. Il naso è
leggermente storto (14), a causa, forse, di una frattura.
La Sindone, da sempre, lascia stupiti e perplessi tutti coloro che
vi si avvicinano. E’ davvero il volto di Cristo? O si tratta di
una delle tante mistificazioni di oggetti sacri realizzate nel
Medio Evo? I pareri divergono. E le analisi che vengono condotte
ad intervalli irregolari da studiosi o pseudo-tali non aiutano di
certo, visto che, puntualmente, emergono fatti nuovi a suffragare
l’una o l’altra ipotesi. Vediamo i fatti. Una prima “scoperta” che
pare avvallare l’autenticità del lenzuolo viene fatta, per caso,
nel maggio del 1898 da un avvocato con la passione per la
fotografia, tale Secondo Pia. Una fotografia del telo, fatta
dell’uomo durante la sua ostensione, mostrava il volto “positivo”
di un uomo e non, come logica suggerirebbe, il “negativo”. Questo
voleva dire che era la figura sul telo ad essere in “negativo”, il
che significava, ancora, un eventuale falsario medioevale aveva
volontariamente dipinto i lenzuolo in “negativo”. Cosa poco
probabile, visto che l’invenzione della camera oscura era
parecchio successiva. Questo, però, non fu sufficiente a far
desistere i sostenitori della teoria del “dipinto”. Nel 1939 il
professor Romanese, per esempio, dimostrò che un corpo trattato
con aloe e mirra è in grado di lasciare sul tessuto di lino
un’impronta simile a quella della Sindone. L’esperimento pratico
condotto dal professore, in effetti, portò a questo risultato,
tuttavia senza la perfezione di impressione che si nota sulla
Sindone. Nel 1969, ancora, Noemi Gabrielli, soprintendente delle
Gallerie ed opere d’arte medioevali in Piemonte, affermò che il
corpo di Gesù era stato disegnato da un artista su una stoffa
bagnata e poi trasferita sulla tela con una procedura assai comune
nel Medio Evo. Nello stesso periodo, lo studioso Walter McCrone
affermò che si trattava di un doppio dipinto: la prima immagine
era stata realizzata con colori ricavati dalla terra e le macchie
di sangue ricavate da spruzzi di vermiglio. Prove pratiche
iniziarono a compiersi nel 1975, quando due ricercatori della
NASA, J. Jackson e E. Jumper, utilizzando un analizzatore spaziale
denominato VP8, crearono un modello tridimensionale del corpo
avvolto nella sindone, realizzato, poi, materialmente con leggeri
strati di cartoni di vetro. Cosa simile fu fatta tre anni più
tardi dal prof. Giovanni Tamburelli, il quale, analizzando vari
punti del tessuto nei quali, a suo dire, erano contenute
informazioni che davano la distanza fra il tessuto e la pelle,
dimostrò che il lenzuolo aveva davvero avvolto un corpo umano.
Tamburelli, poi, fece di più, ricavando al computer l’immagine
tridimensionale del volto stampato sulla Sindone. Volto che ha
impressionanti somiglianze con quello descritto da tutti i
Vangeli, con tumefazioni causate dai colpi di bastone, con
profondi segni causati dai flagelli, con tracce delle tre cadute
fatte da Gesù nel tragitto fino al colle del Golgota, con gocce di
sangue rappreso. Oltre a questo, una cosa nuova: una fossetta
lasciata sull’occhio sinistro da una moneta. Questa pratica,
secondo gli esperti, era cosa comune nei primi anni dell’era
cristiana, non in seguito. Inoltre, la tradizione delle scritture
ci tramanda un Gesù morto vestito solo da una specie di pannolino:
l’uomo della Sindone, invece, è nudo. Un artista medioevale non
avrebbe mai rappresentato Cristo in maniera diversa da quella
tramandata. Dunque, l’ipotesi della falsificazione medioevale
diventava sempre più flebile. Questa ipotesi veniva demolita,
anche, da altri fatti, più propriamente anatomici ed appartenenti
ad una cultura “medica” solamente moderna. Vediamo quali sono.
Sulla fronte del volto della Sindone compare una macchia di sangue
a forma di 3, cosa che corrisponde perfettamente con l’incisione
sulla fronte causata dalla corona di spine. Le mani, inoltre, non
presentano l’immagine dei pollici (7): Baima Bollone, esperto di
fama mondiale nella medicina legale, dedicatosi per anni allo
studio della Sindone, spiega che, durante la crocifissione, i
chiodi vanno ad incidere un tendine adibito proprio al movimento
del pollice, che rimane, così, bloccato all’interno della mano.
Nel 1981, il già citato Baima Bollone esaminò alcuni frammenti di
fili estratti dal telo. Ciò che scoprì fu molti interessante: sui
frammenti c’erano tracce di sangue, del gruppo AB. Oltre a questo,
l’”esame autoptico” condotto da Bollone stabilì che il viso era
asimmetrico, tumefatto da numerose percosse, che un occhio era
gonfio e le labbra erano gonfie a causa di un colpo. Insomma,
l’immagine stampata sulla Sindone rappresentava senza dubbio un
uomo morto per crocifissione mediante chiodi, pratica di morte
presente soprattutto nell’Impero Romano (altri popoli preferivano
l’impalamento o la crocifissione mediante anelli a bloccare le
braccia).
Recentemente, il botanico Max Frei ha avviato una nuova ricerca,
basata su un metodo diverso: la botanica, appunto. Alcune fibre di
tessuto, notò l’uomo, sembravano contenere granuli o spore di
polline. La loro analisi rivelò che si trattava di polline di
faggio e tasso tipici dell’Europa settentrionale e centrale.
Questo provava che la sindone era stata esposta (all’aperto) in
Francia ed in Italia. Altri pollini erano, invece, di altre
piante, tipiche della Turchia meridionale, di una particolare
verità dell’Assueta che cresce solo in Palestina, del Paganum
Hamala, tipico del deserto tra il Mar Morto e Gerico, e di altri
sei arbusti endemici di quella zona. Insomma, il telo era stato
nelle terre del Vangelo. Nel 1988 la Chiesa autorizzò tre
laboratori (in Arizona, ad Oxford ed a Zurigo) a compiere analisi
al Carbonio 14 sulla Sindone. Il Carbonio 14 è una sostanza che
viene assorbita da tutti gli esseri viventi (piante ed animali)
che respirano, fin quando questi sono in vita, e che si deposita
sulle ossa; è una sostanza che decade ad intervalli regolari di
tempo, dunque, con alcuni semplici calcoli, è possibile risalire
al periodo in cui l’animale o la pianta ha cessato di assorbire
carbonio, in cui, cioè, è morta. L’analisi di alcuni piccoli
frammenti del tessuto della Sindone rivelò che il sudario di Gesù
era ben più recente dei 2000 anni che le si attribuivano,
risalendo ad un periodo compreso tra il 1260 ed il 1390. E’
probabile, però, che il frammento di tessuto utilizzato per
l’analisi sia quello utilizzato dalle clarisse per il restauro in
seguito all’incendio del ‘500.
Recentemente, l’interesse degli studiosi si è concentrato
sull’immagine della moneta stampata in corrispondenza di un
occhio, di cui abbiamo già parlato. L’analisi della moneta ha
rivelato che si tratta di una moneta presente in Palestina tra il
29 ed il 30 d.C., come il profilo di una coppa e le lettere TIB,
iniziali di Tiberius, Tiberio, l’imperatore sotto quale Cristo
morì, testimoniano. La verità riguardo alla Sindone, è probabile,
non la sapremo mai. Ma in fondo, è davvero la verità che ci
interessa scoprire? O è forse meglio lasciare la risposta a certi
quesiti solamente alla nostra anima ed alla nostra fede? Ognuno,
in base alla propria personalità, cerchi la risposta come meglio
crede.
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