A
cinquecento anni dalla loro testimonianza. Un episodio unico nella
storia della Chiesa. Mentre la Rivoluzione insidia il corpo della
Cristianità, un'intera città affronta il martirio per non
rinnegare la fede. L'indifferenza e i contrasti tra i principi e i
re cristiani favoriscono l'avanzata turca. La risposta eroica di
una popolazione vissuta per secoli nutrendosi di civiltà e di
cultura cristiane. L'attualità della lezione di Otranto
Nel 1980 ricorre l'anniversario di
due eventi di non lieve importanza nella storia della Chiesa e
della Cristianità: il quindicesimo centenario della nascita di san
Benedetto, patrono d'Europa, e il quinto centenario dell'eroica
resistenza opposta da Otranto ai turchi e del martirio dei suoi
abitanti. Sono due episodi che sembrano tracciare storicamente i
confini di quel lungo periodo correntemente definito Medioevo,
quasi a indicare il termine iniziale e quello finale di un'epoca
che «è stata la realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi
e ai luoghi, dell'unico vero ordine tra gli uomini, ossia della
civiltà cristiana» (1).
La connessione che si può
agevolmente stabilire tra le due date non appare forzata: infatti,
l'organizzazione e la struttura date all'Europa dall'opera di san
Benedetto, che hanno permeato di sé lo sviluppo della seguente
civiltà cristiana, sopravvivono e trovano mirabile espressione
nella estrema testimonianza di fede offerta dagli otrantini mille
anni dopo la nascita del fondatore di Montecassino, quasi a
suggellare, con un gesto significativo un'epoca che tramontava.
Però, per meglio comprendere il martirio di Otranto è opportuno
inquadrarlo nel tempo in cui è avvenuto e nella tradizione e nella
civiltà che lo precedono, la cui conoscenza appare utile a
spiegare il motivo per cui l'intera popolazione di una città ricca
e fiorente preferisce la morte piuttosto che rinnegare la propria
fede.
Quali sono, dunque, gli eventi che
precedono l'episodio considerato? Come si giunge a esso? E'
indispensabile esporre, sia pure sinteticamente, gli avvenimenti
degli anni a esso antecedenti, per inquadrare come merita ciò che
accadrà sul colle della Minerva, a poche centinaia di metri da
Otranto, la mattina del 14 agosto 1480.
Indice
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Il tramonto del Medioevo |
Gli anni che seguono la metà del
secolo XV, come già quelli immediatamente precedenti, non sono
anni felici per la Cristianità, che appare dilaniata da lotte e
rivalità intestine, da scontri tra fazioni, da incrinature
all'interno della stessa Curia pontificia, in definitiva, da una
crisi che, prima ancora di essere politica, è di valori che si
vanno spegnendo.
La civiltà cristiana, maturata per
lunghi secoli, aveva trovato il suo apogeo nel Duecento, in quegli
anni durante i quali «giammai forse la Sposa di Cristo aveva
regnato con un impero così assoluto sul pensiero e sul cuore dei
popoli» (2). Leone XIII ha descritto con toni magistrali i
caratteri del periodo: «Fu già tempo che la filosofia del
Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana
influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle
leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli
ordini e ragioni dello Stato; quando la Religione di Gesù Cristo
posta solidamente in quell'onorevole grado, che le conveniva,
traeva su fiorente all'ombra del favore dei Prìncipi e della
dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il
Sacerdozio e l'Impero, stretti avventurosamente tra loro per
amichevole reciprocanza di servigi. Ordinata in tal guisa la
società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei
quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti
storici, die niuno artifizio dei nemici potrà falsare od oscurare»
(3).
La Cristianità, dunque, non era
«soltanto l'appartenenza alla religione cristiana», né «soltanto
il territorio occupato dai battezzati», ma era «la comunità,
vivente, organicamente costituita, di tutti coloro che, dividendo
le stesse certezze spirituali, vogliono che tutta la società umana
si ordini secondo la loro fede» (4).
Varie furono le cause che
determinarono il venir meno dell'unità spirituale di questo mondo:
il progressivo affermarsi della monarchia sulla nobiltà, preludio
di quella tendenza che sfocerà nell'assolutismo; il sorgere delle
nazioni e, quindi, la perdita di prestigio del simbolo dell'unità
politica rappresentato dall'imperatore; le divisioni all'interno
della stessa gerarchia ecclesiastica e la decadenza del clero (5).
Ma, al fondo di tutto ciò, vi è un elemento comune, che fa da filo
conduttore delle vicende di quei decenni, un elemento che ha le
radici all'interno dell'animo umano, e della cui presenza sono
chiari segni rivelatori la comparsa delle prime eresie
«protestanti» (Wiclef, Huss) e soprattutto la diffusione nelle
corti e nei circoli accademici del pensiero sedicente umanista:
l'insinuarsi, progressivo ma costante, dei primi germi
rivoluzionari.
«I cuori si distaccano a poco a poco dall'amore al sacrificio,
dalla vera devozione alla Croce e dalle aspirazioni alla santità e
alla vita eterna. [...] Questo clima morale, penetrando nelle
sfere intellettuali, produsse chiare manifestazioni di orgoglio,
come per esempio il gusto per le dispute pompose e vuote, per i
ragionamenti sofistici e inconsistenti, per le esibizioni fatue di
erudizione, e adulò vecchie tendenze filosofiche, delle quali la
Scolastica aveva trionfato, e che ormai, essendosi rilassato
l'antico zelo per l'integrità della fede, rinascevano sotto nuove
forme» (6).
Leon Battista Alberti, e altri
insieme a lui, arriveranno a proclamare «il divorzio della società
civile dalla società religiosa» (7); tra i principi e i nobili lo
spirito pagano di quello che viene definito Rinascimento
sostituisce quello cristiano: al concetto religioso del
«meritare», che informava di sé la vita dell'uomo medievale, si
sostituisce quello pagano del «godere» (8).
La Guerra dei Cent'anni e lo
Scisma d'occidente contribuiscono, poi, alla rovina dell'unità
politica e spirituale costruita nel Medioevo. La prevalenza
dell'elemento mondano non lascia immune neanche la Curia
pontificia: «la vita spirituale, che doveva informare ogni
attività ecclesiastica, veniva meno negli uomini e negli istituti.
I pontefici sono sovrani temporali abilissimi, protettori della
scienza e dell'arte, splendidi anche nelle manifestazioni
esteriori del culto, maestri nell'arte della politica e della
guerra, ma non sempre alcuni di essi furono buoni pastori delle
anime e personalmente santi, come il loro nome e la loro dignità
dovevano pretendere» (9). |
Il legame con la civiltà cristiana permane nella
gente umile |
Tuttavia,
se i valori del Medioevo sono traditi e disprezzati nelle corti,
nella gente semplice, pur avvertendosi il mutato clima e la
pesantezza e la gravità della nuova situazione (10), permane la
fedeltà a quegli stessi valori, che si esprime, sul piano
religioso, con manifestazioni di grande pietà e devozione, e sul
piano sociale con la sopravvivenza di un fervido spirito di
crociata, restio a scomparire.
Nel 1450 viene celebrato a Roma
l'Anno Santo: in contrapposizione ai disordini dell'assemblea di
Basilea, all'orgoglio dei docenti universitari e all'avarizia dei
politicanti [...], il popolo cristiano mostrò in occasione di
quell'Anno Santo 1450 lo spettacolo di uno straordinario
rinnovamento di fede e di pietà» (11). Ma già prima si era
sviluppata nella gente umile, in misura sempre maggiore, la
pratica delle processioni e soprattutto del culto di Gesù-Ostia; i
pellegrinaggi si erano moltiplicati e i grandi santi che
illuminano quegli anni sono, al tempo stesso, causa ed espressione
di questa rinnovata religiosità popolare: san Vincenzo Ferreri e
san Bernardino da Siena incantano le folle con la loro
predicazione, i francescani e i domenicani percorrono senza sosta
le strade d'Europa, santa Caterina da Siena scuote i principi e il
Papa, san Francesco di Paola ammonisce l'Occidente a non
abbandonare la difesa della fede, il beato Alain de la Roche
predica e diffonde il santo Rosario, santa Giovanna d'Arco
testimonia eroicamente lo spirito di un'epoca.
«Uno dei segni più espressivi
della sopravvivenza dell'idea di Cristianità negli spiriti è
fornito dalla permanenza del desiderio della Crociata. Nei bei
giorni in cui la Cristianità era ancora in pieno vigore, la
Crociata era stata la manifestazione politica più evidente della
sua grandezza: i battezzati, lanciandosi alla riconquista del
Santo Sepolcro, avevano preso coscienza dell'unità profonda che
esisteva tra loro, al di là delle loro vane contese di peccatori,
e ne avevano fornito la prova». In quel periodo, «per "alzare il
gonfalone della Santa Croce" [...] si videro più volte arrivare ad
Avignone vere folle, sul tipo delle prime bande di Pietro
l'Eremita, che supplicavano il Papa di mettersi a capo della santa
avventura» (12). |
Il pericolo turco
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Ma il pericolo maggiore per
l'Europa proviene da Oriente; alla fine del secolo XIII dal
mosaico degli emirati islamici era emersa, e si era imposta, la
tribù turca degli Ottomani, raccolta da Osman (Othman), la quale,
nei primi anni del secolo XIV, inizia quell'espansione nell'Asia
Minore che la porterà in breve tempo a elevarsi al rango di
temibile potenza.
Nel 1451 sale sul trono il giovane
sultano Maometto II, «di soli ventun anni, esile e pallido, dal
naso curvo e dalla barba nera» (13), il cui principale assillo è
la conquista di Bisanzio; l'impresa sarà portata a termine il 29
maggio 1453, dopo un furioso assedio condotto da un esercito di
260 mila turchi contro poco più di cinquemila difensori
asserragliati nella capitale dell'impero, assedio nel quale perde
la vita combattendo sugli spalti l'ultimo imperatore d'oriente,
Costantino XI Dragoses.
«In tutta la Cristianità, la
caduta di Costantinopoli produsse un'immensa emozione. Sfuggito
per miracolo alla catastrofe, il cardinale legato Isidoro [...]
tornò a Roma e raccontò i fatti orribili di cui era stato
testimone. I suoi presagi circa l'avvenire del mondo cristiano
erano neri: i Turchi, che niente più ormai poteva fermare,
avrebbero continuato la loro avanzata verso l'Ovest: domani
sarebbero comparsi in Italia» (14). Le responsabilità dei
principi e dei sovrani occidentali per la caduta di Costantinopoli
erano notevoli; già Urbano V (1362-1370), di fronte al pericolo
turco, quasi un secolo prima aveva chiamato la Cristianità alla
crociata, ma inutilmente, e altrettanto vani furono gli appelli e
le richieste di aiuto fatte dai vari imperatori di Bisanzio (15).
Ad analogo risultato furono destinati, dopo la caduta di
Costantinopoli, gli sforzi di Callisto III (1455-1458), il quale «vide
la sua vocazione quasi esclusivamente nel salvare il mondo
cristiano e la civiltà occidentale dall'inondazione dell'Islam»,
ma «il fuoco di quel nobile entusiasmo che una volta aveva
armato tutto l'occidente per la liberazione del S.Sepolcro, sembrò
spento negli stati d'Europa divisi da intestine discordie»
(16).
Il suo successore, Pio II, convoca
a Mantova, nel 1459, un congresso al quale invita tutti gli Stati
cristiani e nel discorso inaugurale delinea lucidamente le loro
colpe di fronte all'avanzata turca (17), ma benché sia decisa la
guerra, questa non segue, tra l'inerzia generale, per
l'opposizione di Venezia e per l'indifferenza della Francia e
della Germania. A tale cecità e indolenza per le sorti della
Cristianità contribuisce, e non poco, il diffondersi del
paganesimo rinascimentale, e, mentre il signore di Rimini,
Sigismondo Malatesta, trasforma la chiesa gotica riminese di San
Francesco in un tempio pagano, adornandolo con le statue degli dei
dell'Olimpo e con simboli certamente poco cristiani,
l'individualismo e l'egoismo sfrenati, risultati ovvii della
diffusione del «pensiero moderno», trasformano l'Italia in un
terreno di scontro tra principi, duchi e fazioni. Ciò mentre i
musulmani continuano a conquistare terre cristiane, occupando nel
1470 anche l'isola di Negroponte, che apparteneva a Venezia; una
nuova alleanza contro i Turchi, proposta da Paolo II (1464-1471),
viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, i quali pensano
a tutt'altro, intenti come sono ad approfittare della situazione
critica in cui versa la Serenissima, per ingrandirsi a sue spese.
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La discordia tra i principi cristiani
favorisce il nemico
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Nel 1471 sale al soglio di Pietro
il cardinale Francesco della Rovere, che prende il nome di Sisto
IV; il suo pontificato, certamente uno dei più agitati della
storia della Chiesa, fu segnato dall'omicidio del duca di Milano,
Galeazzo Sforza, e dai rapporti sempre più tesi con i Medici di
Firenze, che culminano in un'alleanza in funzione antiromana
stipulata nel 1474 tra Milano, Venezia e Firenze, e nella
sanguinosa Congiura dei Pazzi: nel 1478 l'arcivescovo di Pisa,
Francesco Salviati, il nipote di Sisto IV Girolamo Riario e altri
congiurati attentano alla vita di Lorenzo de' Medici, il quale
però rimane soltanto ferito. Ma l'episodio, per il favore
dimostrato dal Pontefice, verso i congiurati, provoca una vera e
propria guerra tra gli Stati italiani, guerra che vede schierate
da un lato le forze papali, insieme a quelle di Ferrante
d'Aragona, re di Napoli, dall'altro Firenze, aiutata da Milano,
Venezia e dalla Francia.
Osserva von Pastor che «una delle
arti politiche delle dinastie orientali fu in ogni tempo quella di
trarre profitto dai dissensi intimi delle potenze occidentali. Mai
forse sotto questo aspetto le cose furono in condizione più
favorevole per la potenza del sultano come nell'ultimo terzo del
secolo XV: mezza Europa era infestata da guerre e dall'anno 1478
anche Roma, che fino a quel tempo era stata sempre la prima a
propugnare la causa della Cristianità, trovavasi coinvolta in una
deplorevole lotta, in forza della quale Sisto IV per qualche tempo
ebbe troppo a trascurare la sollecitudine universale per i bisogni
della Cristianità» (18).
In questi frangenti accadde
qualcosa di molto grave: «Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito
Ferrante di non prestarsi al gioco ed alle aspirazioni degli
stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si
accordasse con i Turchi e li spingesse ad assalire le sponde
adriatiche del Regno di Napoli, ai fine di turbare i disegni di
Ferdinando e del figlio. [...] La Serenissima, firmata da poco la
pace con i Turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella
speranza di riversare sulla Puglia l'onda musulmana che da un
momento all'altro poteva abbattersi sulla Dalmazia, ove sventolava
il vessillo di S. Marco. Lo stesso storico di Venezia il Navagero
non respinge l'accusa, anzi narra candidamente i fatti [...]. E
gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure [...] a
sollecitare Maometto II ad invadere le terre del re di Napoli,
ricordandogli i vari torti ricevuti da questi. Ma il Sultano non
aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento
buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio
Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo. Ora,
invece, firmata la pace con Venezia, anzi da questa incoraggiato,
poteva senz'altro realizzare l'impresa» (19).
Nel giugno 1480 Maometto II toglie
l'assedio a Rodi, difesa strenuamente dai suoi cavalieri, e punta
decisamente la sua flotta verso l'Adriatico, senza più timore di
ostacoli. La mattina di venerdì 29 luglio 1480 dagli spalti delle
mura di Otranto si scorge all'orizzonte, sempre più visibile, la
terribile armata della Mezzaluna, forte di 90 galee, 15 maone, 48
galeotte, con 18 mila soldati a bordo (20). |
Otranto, città di fede e di
cultura cristiana |
La città più orientale d'Italia,
posta su una baia incantevole di fronte a un mare limpido e
azzurro, ha un passato antichissimo e ricco di storia, che è
necessario conoscere, perché contribuisce anch'esso a chiarire i
motivi che spinsero, cinque secoli fa, la popolazione idruntina
alla eroica resistenza contro gli infedeli. Se infatti, da un
lato, questa è il risultato di secoli di fede vissuti da tutta la
Cristianità durante il Medioevo, d'altro lato è frutto anche del
patrimonio profondamente cristiano accumulato per oltre un
millennio da Otranto, con peculiarità sue proprie.
Posta su una zona abitata forse
già dal Paleolitico, certamente a partire dal Neolitico (21),
Otranto fu popolata dai messapi, stirpe antichissima precedente i
greci, e poi conquistata dapprima dagli stessi greci, entrando a
far parte della Magna Grecia, e poi dai romani. Divenuta ben
presto municipio romano, la città, per l'importanza crescente del
suo porto, assunse il ruolo di ponte tra l'Oriente e l'Occidente,
ruolo che sarà ancor più valorizzato dopo la cristianizzazione
dell'impero.
Otranto fu una delle prime città,
in Puglia, a convertirsi al cristianesimo; ciò è confermato anche
da sant'Atanasio, il quale probabilmente vi passò, diretto a Roma,
verso la metà del secolo IV. La città salentina meritò il
soprannome di «Bisanzio delle Puglie» sia per la sua fedeltà
all'impero d'oriente (fedeltà difesa strenuamente anche contro le
scorrerie dei saraceni, i quali, a partire dal secolo IX
infestarono per lunghi anni le coste dell'Italia meridionale), sia
per la cultura che in essa si sviluppò, dietro l'impulso,
soprattutto, dei religiosi presenti nella zona.
I primi gruppi di monaci nacquero a Otranto subendo forse
l'influenza di sant'Atanasio, e seguendo i canoni del monachesimo
orientale, di san Basilio in particolare: vivevano, cercando di
realizzare il loro ideale di ascesi, in grotte scavate nella
pietra, chiamate «laure». Ben presto, però, compresero
l'importanza che aveva la conservazione e la trasmissione del
sapere e già alla fine del secolo X crearono una scuola in
Otranto; se la cultura greca è sopravvissuta nella zona, giungendo
fin quasi ai nostri giorni (22), lo si deve soprattutto alla
presenza, a partire dal secolo XI, a poche centinaia di metri
dalla città, del Monastero di San Nicola in Casole: i suoi codici
sono conservati attualmente nelle principali biblioteche europee e
i suoi monaci divennero in breve veri e propri benefattori della
cultura del tempo, consultati spesso come interpreti o come
esperti da Pontefici e cardinali. Presso il monastero funzionava
una fornitissima biblioteca, i cui volumi, raccolti e catalogati
dai monaci, potevano essere prestati a chi li richiedesse;
chiunque poi volesse erudirsi nel greco o nel latino, poteva
rimanere nell'abbazia, e in tal caso aveva a sua disposizione, e
senza alcuna spesa, vitto, alloggio e un maestro: una vera e
propria «casa dello studente»!
La cultura e la fede coltivate e
conservate nell'abbazia di Casole non rimanevano, comunque,
patrimonio di un circolo ristretto, ma venivano ampiamente
diffuse, e i primi a trarne beneficio dovevano essere, con tutta
evidenza, gli stessi idruntini, la cui vita, serena, vissuta
nell'obbedienza alla natura e al Creatore, al Papa e
all'imperatore, trascorreva non dissimile da quella di un
qualsiasi altro borgo medievale (23), permeata, forse più
incisivamente, dei valori e della cultura cristiani. Valori e
cultura che trovarono significativa espressione in due capolavori
dell'arte cristiana: la cattedrale di Otranto e, all'interno della
stessa, il grandioso mosaico pavimentale: per la prima, costruita
dal 1080 al 1088 in stile romanico-bizantino con elementi
paleo-cristiani, così come per il secondo (24), vale senz'altro
quanto è stato scritto: «E' accaduto talvolta nella storia [...]
che una società umana si esprimesse tutta intera in monumenti
perfetti e privilegiati, che sapesse contenere in certe opere
affidate alle generazioni future tutto ciò che portava in sé di
vigore creativo, di spiritualità profonda, di possibilità tecniche
e di genio. Simili fiori -in cui si esprime un'epoca- non
sbocciano e non maturano che quando la linfa è pura e abbondante
[...]. Opere simili non nascono per caso [...] attraverso di esse
si lascia comprendere tutta la civiltà che le ha create» (25).
Ogni pietra della cattedrale parla
di fede, perché la Chiesa fu realizzata nel breve tempo di otto
anni grazie agli sforzi, materiali e finanziari, di tutti i fedeli
idruntini; non credo di forzare la storia immaginando l'intera
popolazione, vescovo in testa, intenta a contribuire, ciascuno
secondo le proprie funzioni e capacità, alla edificazione del
tempio di Dio, nel quale e intorno al quale doveva ruotare la vita
cittadina, le cui campane avrebbero scandito, con l'angelus, le
ore di lavoro e di riposo, con il suono a stormo avrebbero
annunciato i giorni di festa, chiamato al soccorso in caso di
allarme, convocato il popolo in assemblea generale, accompagnato,
infine, con il rintocco funebre, il fedele all'ultima dimora.
E possiamo pensare alla festa che
dovette esservi nel 1088, il giorno dell'inaugurazione, quando
tutto il popolo si trovò riunito in cattedrale, o, qualche anno
più tardi, nel 1095, quando, proprio dalla cattedrale, il vescovo
impartì la benedizione ai 12 mila crociati che da Otranto, al
comando di Boemondo, partivano per liberare dagli infedeli il
santo Sepolcro; dovette essere una vera gioia per gli idruntini,
che accolsero festosi i cavalieri con la Croce, se è vero che «per
gli umili, per la povera gente, la Crociata fu un fatto mistico,
la manifestazione di uno slancio spirituale dal fondo più nobile
delle anime, l'espressione eroica di una fede che si soddisfaceva
solo nel sacrificio, una risposta all'appello di Dio» (26).
Identica festa, espressione di autentica «letizia», fu celebrata
anche quando, poco più di un secolo dopo, nel 1219, il poverello
di Assisi, di ritorno dalla Palestina, sbarcò a Otranto, dove già
da quattro anni esisteva un convento di Frati Minori: san
Francesco fu accolto con grandi onori dall'arcivescovo del tempo,
Tancredi degli Annibaldi, che lo volle suo ospite (27).
Le campane della cattedrale
dovettero, invece, suonare i rintocchi funebri l'11 settembre
1227, giorno in cui, in seguito a malaria, chiuse la sua giovane
esistenza terrena il langravio di Turingia, «cavaliere senza
macchia e crociato senza scopi terreni», sposo di santa Elisabetta
d'Ungheria, pianto dagli otrantini come loro concittadino, tanto
che a Elisabetta. in segno di gratitudine, donò il manto reale
[del marito] alla Città» (28).
Questa stessa città, la mattina
del 29 luglio 1480 è posta in stato d'assedio, tra l'inerzia dei
principi e dei re cristiani, dall'armata turca di Maometto II.
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La profezia di san Francesco di
Paola e l'assedio di Otranto |
Qualche mese prima, dall'eremo di
Paternò dove viveva con i suoi confratelli, un grande santo del
tempo, Francesco di Paola, aveva preannunciato una grave sciagura.
«I musulmani -aveva detto- avrebbero assalito Otranto e,
distruggendo dalle fondamenta, ne avrebbero massacrati i
cittadini. Scrisse al Re Ferdinando, predicendo l'imminente
uragano, ma non fu creduto» (29). Egli allora, volgendo il
viso verso la parte meridionale della Puglia, esclamava piangendo:
«Ah infelice città, di quanti cadaveri ti veggo piena! quanto
sangue cristiano s'ha da spargere sopra di te» (30). Il santo,
tuttavia, non cessò di sollecitare il re all'impresa contro i
turchi, tanto che Ferrante, accusando Francesco di disfattismo,
gli impose il silenzio per mezzo di alcuni soldati; il santo
apostrofò questi dicendo loro: «Tornate al vostro Re e ditegli
che ormai è tempo di calmare lo sdegno del Signore con pronto
ravvedimento; che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo; che
si valesse del tempo concessogli per evitare il castigo. L'armata
dei Turchi minaccia l'Italia ma più da vicino il suo regno:
ritirasse le soldatesche dalla Toscana, non curasse l'altrui
mentre trattavasi di difendere il proprio» (31). Ma purtroppo
non fu ascoltato.
L'orda musulmana, comandata dal
pascià Agomaht (39), in realtà aveva intenzione di approdare a
Brindisi, il cui porto era più ampio e più comodo; da Brindisi
poi, secondo i piani di Maometto II, avrebbe dovuto risalire
l'Italia fino a Roma, sede del Papato, principale e naturale
nemico dell'Islam: il sultano, dopo avere espugnato Bisanzio
ventisette anni prima, sognava di coronare la sua opera
trasformando san Pietro in una stalla per i suoi cavalli (33).
Tuttavia, un forte vento contrario costringe la flotta, partita da
Valona, a toccare terra 50 miglia più a Sud, e a sbarcare a
qualche chilometro da Otranto, vicino a Roca; i capitani del
presidio di Otranto, appresa la notizia, inviano subito una
coraggiosa missiva al re, chiedendo un suo sollecito aiuto (34):
in città vi era, infatti, solo una guarnigione di 400 uomini, ben
poco per contrastare migliaia di turchi. «Il Re Ferdinando,
conosciuta che ebbe la cosa, si diede subito da fare per riunire
un esercito da mandare in aiuto; purtroppo però, anche se i
soccorsi fossero stati già pronti, non sarebbero giunti in tempo
nel luogo della lotta» (35).
Intanto i turchi, del tutto
indisturbati, cingono d'assedio il castello, nel quale si erano
rifugiati tutti gli abitanti del borgo; il pascià, dopo aver
assestato il campo, invia a Otranto un interprete, proponendo una
resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno alla Mezzaluna,
uomini e donne saranno lasciati liberi e potranno rimanere senza
alcun danno in città, ovvero andare dove ritengano più opportuno.
La risposta al legato musulmano
viene data da uno dei maggiorenti della città, il vecchio Ladislao
De Marco: «Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le
armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini»
(36). I capitani, inoltre, «ordinarono al messaggero di non
tornare una seconda volta e minacciarono la morte a quei cittadini
che avessero fatto parola di resa. Quando arrivò un secondo
messaggero che riferiva le stesse proposte, lo trafissero con le
frecce» (37); poi, «per levare ogni sospetto, pigliarono le
chiavi della città, cioè delle porte di essa e quelle presente
tutto il popolo che le vedesse di sopra d'una torre le buttarono
in mare» (38).
La maggior parte dei soldati della guarnigione idruntina, intanto,
vinta dalla paura, durante la notte si cala con le funi dalle mura
della città e se la dà a gambe: a difendere Otranto rimangono solo
i suoi abitanti. |
Il martirio degli Ottocento
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L'assedio che segue è martellante:
le bombarde turche rovesciano per giorni sulla città centinaia di
grosse palle di pietra. «che quando dette palle sparavano, era
tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero
abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva
che allora cascassero» (39). Dopo quindici giorni, all'alba
del 12 agosto, i musulmani concentrarono il loro fuoco contro uno
dei punti più deboli delle mura: non fanno fatica ad aprire una
breccia e, da lì, irrompono in città. A contrastarli accorre il
capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è
preponderante: cadono tutti eroicamente con la sciabola in pugno.
Nulla può arrestare più l'avanzata dell'orda: «era tanta la
calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà
e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare
per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere.
[...] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada
combattendo, talché le strade erano tutte piene d'homini morti
così de' Turchi come de' Cristiani et il sangue scorreva per le
strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la
città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si
ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non
sopra li corpi d'homini morti» (40).
Per
le strade di Otranto gli infedeli massacrano chiunque capiti loro
a tiro, senza distinzione; uomini, donne e bambini cercano rifugio
nella cattedrale, la cui porta è difesa strenuamente come ultimo
baluardo, ma presto è vinta anche quest'estrema valorosa
resistenza: dopo aver abbattuto la porta della chiesa, gli
invasori dilagano nel tempio.
«Durante la notte precedente
quello sventurato giorno, l'arcivescovo Stefano [...] aveva
confortato tutto il popolo col divino sacramento dell'Eucarestia
per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto»
(41). I turchi, «raggiunto l'arcivescovo che sedeva sul suo trono
vestito con abiti pontificali e con in mano la croce, lo
interrogarono chi fosse; ed egli intrepidamente rispose: Sono il
rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore del
gregge di Cristo. E dicendogli uno di loro: "Smetti di nominare
Cristo, Maometto è quello che ora regna, non Cristo", egli
rispose indirizzandosi a tutti: "O miseri ed infelici, perché
vi ingannate invano? Poiché Maometto, vostro legislatore, per la
sua empietà soffre nell'inferno con Lucifero e gli altri demoni le
meritate pene eterne; ed anche voi, se non vi convertite a Cristo
e non ubbidite ai suoi comandamenti, sarete nello stesso modo
cruciati con lui, in eterno."
«Aveva appena terminato di proferire queste parole quando uno
di loro, impugnata la scimitarra, con un sol colpo gli recise la
testa; e, così decollato sulla propria sedia, divenne martire di
Cristo nell'anno del Signore 1480, l'11 di agosto» (49).
Il 13 agosto, compiuto il
saccheggio, il pascià chiede che gli sia presentata la lista di
tutti gli abitanti fatti schiavi, escludendo le donne e i ragazzi
al di sotto dei 15 anni: «In numero di circa ottocento furono
presentati al Pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete,
nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui
impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a' nostri
santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo
sicuri della buona grazia d'Acmet, il quale accordava loro vita,
sostanze e tutti quei beni che godevano nella patria; in contrario
sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n'ebbe uno di
nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d'età provetto, ma
pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: "Credere
tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire
mille volte per lui" (43). E voltatosi ai Cristiani disse
queste parole: "Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per
defensione della Patria e per salvar la vita e per li Signori
nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l'anime
nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce
conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella
Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la
corona del martirio". A queste parole incominciarono a gridare
tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille
volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar
Cristo» (44).
A queste parole Agomaht,
infuriato, condanna tutti a morte. La mattina seguente «quei prodi
campioni della santa fede con la fune al collo e con le mani
legate dietro le spalle, furono menati al vicino colle della
Minerva. Con l'umile portamento, con l'aria divota e serena e col
frequente invocare i nomi di Gesù e di Maria, facevano di sé
spettacolo glorioso a Dio e gradito agli Angeli. Tutto quel tratto
di strada, che corre dalla porta antica di mare fino al colle,
risonò di sante preci, colle quali quelle anime grandi imploravano
la grazia di consumare il sacrifizio delle loro vite» (45). Si
confortavano l'un altro a «pigliar pazientemente il martirio e
questo faceva il padre al figlio, e il figlio al padre, il
fratello al fratello, l'amico all'amico, il compagno al compagno,
con molto fervore e con molta allegrezza» (46).
«Girava intorno ai cristiani un
turco importuno con alla mano una tabella vergata in carattere
arabo. L'apostata interprete la presentava a ciascuno e ne faceva
la spiegazione, dicendo: Chi vuol credere a questa avrà salva la
vita; altrimenti sarà ucciso. Ratificarono tutti la professione di
fede e la generosa risposta data innanzi: onde il tiranno comandò
che si venisse alla decapitazione, e, prima che agli altri, fosse
reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché
non rifiniva di far da apostolo co' suoi. Anzi in questi ultimi
momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a'
commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori;
che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a
riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto
si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de' carnefici, restò
immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente
ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl'infedeli,
se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che
vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò
avventurosamente del miracolo, e, protestandosi ad alta voce
cristiano, fu condannato alla pena del palo» (47).
L'orrendo massacro lascia il colle
della Minerva rosso di sangue, coperto quasi interamente dai corpi
degli Ottecento: è il 14 agosto, vigilia dell'Assunzione di Maria
SS.. |
La riconquista di Otranto |
La notizia della caduta di Otranto
produce un «vero sbalordimento» nelle terre cristiane. «In Roma
-narra Sigismondo de' Conti- la costernazione non sarebbe stata
maggiore se i nemici avessero già posto il campo sotto le mura
della città. L'ansia e il terrore avevano invaso talmente tutti
gli animi, che ormai anche il papa pensava alla fuga». Il
«Cardinal legato Giuliano [...] ricevette il mandato di approntare
in Avignone tutto il necessario poiché Sisto aveva risoluto di
rifugiarsi in Francia, qualora lo stato delle cose in Italia
avesse ancora a peggiorare» (48). La resistenza di Otranto ottiene
però subito un importante risultato politico e strategico; infatti
«la resistenza, opposta dai cittadini di Otranto per tredici
giorni, aveva permesso all'esercito del Re di Napoli di
avvicinarsi a quei luoghi. E Agomaht, che aveva sperato di
piombare improvvisamente su Brindisi e Lecce, comprese che il suo
disegno era stato frustrato da un pugno di eroi» (49). Non si
esagera perciò affermando che la salvezza dell'Italia meridionale,
e forse quella di Roma stessa, fu garantita proprio da Otranto,
anche se a un prezzo tanto elevato.
La costernazione di Ferrante
d'Aragona è davvero grande: egli, riunito il consiglio di guerra,
richiama subito in patria il figlio Alfonso, duca di Calabria, il
quale, con il grosso delle truppe, combatteva in Toscana contro i
Medici, e lo invia in Puglia, affidandogli il preciso compito di
riprendere Otranto; Sisto IV, dal canto suo, si prodiga per
organizzare una spedizione che coinvolga tutte le potenze europee
al fine di liberare l'Adriatico dagli infedeli: ancora una volta,
con esiti scarsamente positivi.
Due eventi contribuiscono a far
ritornare Otranto in mano ai cristiani: il richiamo in patria di
Agomaht, e la morte di Maometto II, comunicata con qualche mese di
ritardo ai turchi che occupano la città, e che vale ad accelerare
la loro resa, avvenuta il 10 settembre 1481. L'Aragonese fa il suo
ingresso in Otranto il 13 dello stesso mese. |
I prodigi |
Il martirio degli Ottocento fu
seguito da numerosi prodigi, che si sono poi ripetuti nei secoli:
non potendo, per ovvii motivi, riportare tutti quelli che
conosciamo, ricordo solo i più famosi; anzitutto, durante il
martirio, il già raccontato miracolo di Primaldo, rimasto in
piedi, nonostante gli fosse stata tagliata la testa, fin quando
non cadde l'ultimo idruntino.
Racconta
poi il Galatino che, dopo la riconquista di Otranto da parte del
duca Alfonso, sul colle della Minerva furono trovati dai cristiani
i corpi di essi, talmente illesi ed integri (come io vidi), che
neppure un capello era in essi diminuito; e così freschi, da
sembrare che da un'ora appena fossero stati uccisi. Ond'è che un
cane riconobbe il suo padrone giacente tra quelli e cominciò a
scodinzolargli vicino; e, ciò che è più mirabile, furono trovati
tutti con gli occhi rivolti al cielo; nessuno di essi accennava
tristezza di sorta; anzi mostravano un così lieto ed ilare volto,
che sembrava ridessero» (9). Ma, prima ancora, avvenuto da poco il
martirio, di notte fu spesso osservata, sul colle della Minerva,
la presenza costante di luci e di bagliori: «Si sa da tutti
-riferisce il canonico Francesco Perez- per pubblica voce e fama,
della quale ci è restata la tradizione, che, dopo il loro glorioso
martirio, su quei santi corpi si vedevano faci lucidissime; e per
la prima volta, quando furono portati in chiesa, essendo comparso
di notte per tutta la chiesa uno splendore molto grande, tutti
dalla città concorsero, supposto che la chiesa si era incendiata.
Nell'anno poi 1739 a' 14 agosto, terminata la loro festa a tre di
notte, si fecero vedere processionalmente andare nel luogo, ove
patirono il martirio. Qual visione fu veduta da infinità di
popolo, concorso per la loro festività» (59).
Otranto fu per ben due volte,
grazie ai beati Martiri, liberata da una nuova invasione turca,
«nel 1537, imperando Solimano, e nel 1644, regnando Ibraimo. L'una
e l'altra volta comparvero sulle mura e per la spiaggia numerose
schiere d'armati, alla vista de' quali quelli, sbigottiti, subito
s'allontanarono. [...] Nell'anno 1741 la processione divota che si
fece per la città con le loro reliquie, pose termine ad una
epidemia: e così il loro potente patrocinio liberò la [...] città
dall'orribile terremoto che rovinò Nardò, Ostuni, Brindisi,
Francavilla, Foggia e altre minori terre» (52). |
La lezione di Otranto |
Nella bimillenaria storia della
Chiesa non sono mai mancate testimonianze eroiche di vera fede:
dalla nascita delle prime comunità cristiane fino ai nostri
giorni, schiere di martiri in tutto il mondo hanno sacrificato la
loro vita per amore di Cristo, e nessun'epoca può lamentarne
l'assenza. Eppure in nessun tempo, forse, si è verificato un
episodio di martirio di così vaste proporzioni come quello offerto
da Otranto cinque secoli fa: è successo sempre che il singolo, o
un gruppo ristretto di fedeli abbiano affrontato con coraggio
l'estrema prova, ma si è trattato di poche individualità, o di
grandi figure, mai, come è accaduto a Otranto, di un'intera città.
Quel 14 agosto 1480 nessuno degli
otrantini accolse le allettanti proposte del pascià: la loro
risposta fu ferma, unanime, concorde; gli unici a scegliere la via
della fuga erano stati, qualche giorno prima, i soldati della
guarnigione di re Ferrante, che non erano della città; è
indicativo, poi, il fatto che nessuna individualità emerge durante
il martirio al di fuori del vecchio Primaldo: degli altri non si
conosce neanche il nome, quasi a conferma che è una popolazione
che affronta la prova, non pochi eroi. Diventa a questo punto
lecito cercare una spiegazione plausibile di un episodio così
singolare nella storia della Chiesa.
Gli ultimi anni del secolo XV,
come già ricordato, sono quelli che segnano il tramonto di
un'epoca: un'epoca che aveva visto il sorgere delle cattedrali e
il susseguirsi delle Crociate; Carlo Magno imperatore e Ildebrando
Pontefice; l'epoca che aveva espresso san Tommaso e Dante
Alighieri; l'epoca delle corporazioni e di san Francesco;
tramonta, come si è visto, per il tradimento e per le cadute dei
principi e dei re, per i germi di paganesimo già presenti nei
circoli degli studiosi e dei filosofi, tramonta perché non si sa
affrontare con la dovuta fermezza il demone rivoluzionario che
avanza, mascherandosi di falso umanesimo e proclamante il libero
esame.
Tramonta la civiltà cristiana, e
gli umili, i fedeli, ne hanno sentore, ma non assecondano il vento
del pensiero moderno, legati profondamente a quei valori che
avevano fatto grande l'età che sta scomparendo; cedere, allentando
i sacri vincoli della propria fede, sarebbe come cancellare la
ragione della propria esistenza, equivarrebbe a rifiutare l'aria
che si è respirata finora. Questo spirito, in quel momento
presente in tutti gli autentici fedeli della Cristianità, si fonde
a Otranto con la tradizione ricchissima e peculiare della città,
terra da sempre devota e punto di riferimento della vera cultura,
e incide profondamente sul carattere degli otrantini, i quali
hanno trascorso i giorni e l'esistenza respirando un'aria pregna
di religiosita e di sincero amore per Cristo.
Certo, sarebbe stato facile per
essi dare ascolto al prete rinnegato inviato da Agomaht: avrebbero
avuto salva la vita, la moglie, i figli, e avrebbero continuato a
godere dei loro beni senza alcun danno. Ma che vita sarebbe stata
quella seguente al rinnegamento, senza la linfa vitale della fede?
E sarebbe poi continuata come prima l'esistenza cittadina, densa
di feste, di serenità, di gioia, senza quel Cristo che è la fonte
della letizia e della gioia?
No, mille volte meglio morire
sotto la spada del turco, non essendo pensabile una vita che non
abbia come costante punto di riferimento Dio, il suo amore e la
sua legge. Non atto eroico, perciò, il martirio degli otrantini,
ma comportamento normale: di fronte a chi vuol far sì che si neghi
la ragione stessa della vita, meglio «nostra morte corporale», che
poi porta alla vita eterna.
Cinque secoli sono trascorsi dal martirio di Otranto, e in cinque
secoli la Rivoluzione, allora ai primi passi, ha fatto, purtroppo,
molta strada; eppure, a distanza di tanti anni, la lezione di
Otranto rimane valida e più che mai attuale: Cristo non si
rinnega, a nessuno costo. «Gesù disse ai suoi seguaci prima di
salire al cielo: "Voi mi renderete testimonianza, cominciando da
Gerusalemme fino ai confini del mondo". Stefano e Giacomo gli
resero testimonianza a Gerusalemme; Pietro e Paolo, Lorenzo,
Agnese e Cecilia a Roma; Lucia a Siracusa; Agata a Catania;
Tommaso a Calamina; Matteo in Etiopia; e milioni dì uomini e
donne, giovani e ragazze, sacerdoti e laici in tutto il mondo
resero testimonianza a Gesù con il loro martirio. Anche Otranto
ebbe la sua ora di passione: si è resa immortale per la costanza
dei suoi 800 figli che preferirono la morte per Cristo, anziché
vivere nella vergogna di aver tradito Gesù, l'incanto di nostra
vita.
Cristiano [...] preparati anche tu
a concludere così: Renderò anch'io testimonianza a Gesù con la
vita di ogni giorno, e, se sarà necessario, con il sacrificio
della mia esistenza a somiglianza dei beati Martiri"» (53).
Si degni la Regina dei Martiri di
infondere negli uomini del nostro tempo la stessa fede e lo stesso
cristiano ardore degli Ottocento di Otranto; ella sola può
ottenerci questa grazia: che, sotto la sua protezione, dopo aver
combattuto per il suo Nome dolcissimo, possiamo giungere al
trionfo promesso del Regno del suo Cuore Immacolato, così come,
novant'anni dopo il martirio di Otranto, il 7 ottobre 1571 giunse,
atteso dalla Cristianità, il trionfo di Lepanto, dopo il quale la
si è invocata, e con maggior fede, col nome di Regina delle
Vittorie.
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NOTE
(1) Plinio CORREA DE OLIVEIRA,
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione,3 ed.it. accresciuta,Cristianità,
Piacenza 1977,p.94
(2) Enrico DE LASSUS, Il problema dell'ora presente, trad. it.,
(3) LEONE XIII, Enciclica
"Immortale Dei", dell'1.11.1885, in ASS, vol. XVIII, p. 169.
(4) Henri DANIEL-ROPS, Storia della
Chiesa del Cristo, trad. it., vol. IV: La Chiesa del Rinascimento
e della Riforma, tomo I, Marietti, Torino 1957, p. 60.
(5) Il cardinale Enca Silvio
Piccolomini, futuro Papa Pio II, affermava, verso la meta del
secolo XV, che "La Cristianità non ha più capo; né il Papa né
l'Imperatore sono più rispettati e obbediti; li trattano come miti
[...]. Ogni Stato vuole il suo principe, ogni principe difende i
suoi interessi. Qual voce potrebbe essere tanto potente da riunire
sotto una sola bandiera tante forze antagoniste?" (H. DANIEL-ROPS,
op. cit., p. 65).
(6) Plinio CORREA DE
OLIVEIRA, Op. Cit., p. 72.
(7) E. DELASSUS, Op.
cit., p. 61.
(8) "Lorenzo Valla affermava nel
suo trattato De voluptate, che il piacere è il vero bene, e che ci
sono altri beni che il piacere".
(9) Agostino SABA, Storia della
Chiesa, vol. III, tomo I, Unione Tipografico-Editrice Torinese,
Torino 1943, p. 226.
(10) H. DANIEL-ROPS, Op. cit., p.
118.
(11) Regine PERNOUD, Il Processo di
Giovanna d'Arco, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1973, p. 28.
(12) H. DANIEL-ROPS, Op. cit., pp.
74-75.
(13) Grazio GIANFREDA, Otranto
nella Storia, Ed. Salentina, Galatina 1976, p. 242. Mons. Grazio
Gianfreda, attualmente parroco della cattedrale di Otranto, oltre
ad essere uno dei più autorevoli storici di Otranto, ha dedicato
pregevoli pagine all'episodio degli Ottocento Martiri.
(14) H. DANIEL-ROPS, Op. cit., p.
97.
(15) «Un solo principe prese la
croce, Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, che, partito da
Venezia nel giugno 1366, riuscì a compiere, in agosto, un felice
colpo di mano su Gallipoli, riprendendo ai Turchi la chiave dei
Dardanelli, andò a scorazzare per il Mar Nero, si batté ancora
parecchie volte contro i Mussulmani, e alla fine tornò a casa,
dopo aver adempiuto al suo voto, sentendo che la sua bravata non
poteva certo bastare ad arrestare l'invasione ottomana». (DANIEL-ROPS,
Op. cit., p. 85).
(16) Ludovico PASTOR, Storia dei
Papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., vol. 11, Desclée, Roma
1911, p. 3.
(17) Riporto alcuni brani
significativi del discorso di Pio II: "[...] Non i nostri padri,
ma noi abbiamo lasciato prendere dai Turchi Costantinopoli, la
capitale dell'Orienfe, e mentre indolenti ce ne stiamo nelle
nostre case, le armi di questi barbari penetrano fino al Danubio e
alla Sava [...] Tutto questo è accaduto sotto i nostri occhi, ma
noi dormiamo profondamente. Eppure no, noi possiamo combattere fra
noi, soli i Turchi lasciamo che spadroneggino liberamente. Per
tenui motivi i cristiani prendono le armi e combattono sanguinose
battaglie; contro i Turchi invece, che oltraggiano il nostro Dio,
atterrano le nostre chiese e cercano sradicare il nome cristiano,
nessuno vuol levare la mano" (L. PASTOR, Op. cit., p. 60).
(18) L. PASTOR, Op. cit., p. 530.
(19) G. GIANFREDA, Op. cit., pp.
250-251; il particolare è confermato, tra gli altri, anche da
GIANNONE, nella sua Storia civile del Regno di Napoli, libro VIII,
Milano 1823, pp. 322-323. "In quell'occasione la Serenissima [...]
non solo non oppose alcuna resistenza all'avanzata del Turco nel
mare Adriatico, ma giunse al punto di offrire a quei soldati
vettovagliamenti, al solo patto che se li fossero andati a
prendere» (G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, Ed. Salentina,
Galatina 1975, p. 19).
(20) Cfr. G. GIANFREDA, op. cit.,
p. 25.
(21) Ne sono conferma i reperti
scoperti da qualche anno nelle vicine Grotte di Porto Badisco e
Romanelli. Cfr. in proposito G. GIANFREDA, Otranto nella Storia,
cit., pp. 16 ss.
(22) Il rito greco permarrà nel
Salento fino al secolo XVI: ancora oggi in molti paesi della
provincia di Lecce si parla il greco: mons. G. Gianfreda,
testimonia che, nella zona, "fino al 1940 [...] alcune vecchiette
sapevano confessarsi solo in greco; e, durante la settimana santa,
si cantava in greco tutta la passione del Signore" (G. GIANFREDA,
Il monachesimo italo-greco in Otranto, Ed. Salentina, Galatina
1977, p. 73).
(23) Per avere un quadro esauriente
della "vita vissuta" nei borghi durante il Medioevo, cfr. R.
PERNOUD, Luce del Medioevo, trad. it., Volpe, Roma 1978,
specialmente le pp. 211-251.
(24) Una chiara presentazione della
cattedrale e del mosaico di Otranto si può leggere nelle seguenti
opere di mons. G. GIANFREDA, tutte edite dall'Ed. Salentina di
Galatina: Mosaico di Otranto, 1974; Suggestioni e analogie tra il
mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la
Divina Commedia, 1974; Basilica e Cattedrale di Otranto:
architettura e mosaico, 1978.
(23) H. DANIEL-ROPS, Storia della
Chiesa del Cristo, trad. it., vol. III: La Chiesa delle Cattedrali
e delle Crociate, Marietti, Torino, 1954, p. 107.
(26) G..GIANFREDA, Otranto nella
Storia, cit., p. 163.
(27) Ibid., p. 192.
(28) Ibid., p. 198.
(29) Ibid., Gli 800 Martiri di
Otranto, cit., p. 20.
(30) Saverio DE MARCO, Compendiosa
istoria degli Ottocento Martiri Otrantini, Tipografia Cooperativa,
Lecce 1905, p. 17.
(31) G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto, Ed. Salentina,
Galatina 1975, p. 21.
(32) Questi viene descritto come un "homo di statura picciola, di
color bruno, nasuto, con poca barba, mezzo spano, brutto di volto,
d'animo crudelissimo e molto avaro, povero e vile, fatto Bassà da
Maumeth per beffeggiamento, perché avanti era stato staffiero"
(Giovanni Michele LAGGETTO, Historia della guerra di Otranto del
1480, trascritta da un antico manoscritto e pubblicata dal Can.
Luigi Muscari, Tip. Messapica, Maglie 1924, p. 26).
(33) Per i particolari dell'assedio
e del martirio mi riferisco a varie cronache del tempo, e
principalmente a G. M. LAGGETTO. "A Giovan Michele Laggetto gli
eroismi degli Otrantini furono narrati da suo padre, che fu
testimone oculare e non ucciso perché contava 16 anni. Condotto
schiavo a Valona, dopo tre mesi ritornò in patria e raccontò i
fatti di Otranto al figlio che nel 1537 stese una Storia della
presa di Otranto nel 1480 e della sua liberazione". La notizia
bio-bibliografica è contenuta in G. GIANFREDA, Otranto nella
Storia, cit., p. 9, nota I.
(34) Riporto alcuni brani della
lettera, che rivelano quale fosse il carattere degli abitanti
della città: "Serenissima e catolica Maestà [...] se la M.V. non
fa subito quella provvisione che s'usi in breve tempo et è
possibile a farsi, portamo gran pericolo di perderci et essere
pigliati. Noi dal canto nostro non mancaremo di pensarci a quanto
che sarà possibile a fare il debito nostro; ma il manco sarebbe a
perder noi la vita nostra e dei nostri figli: ma quel che più
importa sarà il diservizio di Dio e di M. V. che ne potrà nascere.
La supplichiamo pertanto per amor di Dio che ne voglia soccorrere
presto contro questo cane nostro Nemico [...]" (S. M. LAGGETTO,
op. cit., p. 27).
(35) G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri
di Otranto, op. cit., p. 26.
(36) Antonio ANTONACI, Otranto, Ed.
Salentina, Galatina 1976, p. 286.
(37) Antonio DE FERRARIS GALATEO,
La Iapigia, Messapica Ed., Galatina 1975, p. 55; si tratta della
traduzione italiana del De Situ Japigiae, la cui prima edizione fu
pubblicata a Basilea nel 1558. L'autore era parente dell'allora
arcivescovo di Otranto. (38) G. M. LAGGETTO, op. cit., p. 29.
(39) Ibid., p. 30; ancora oggi a
Otranto si conservano le grosse palle di pietra viva sparate dai
Turchi.
(40) Ibid., p. 34.
(41) A. DE FERRARIS
GALATEO, op.cit., p. 56.
(42) Pietro COLONNA, detto il
GALATINO (1460-1540), nei Commentaria in Apocalypsin, manoscritto
conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Lat. 5567,
foll. 147-48), in A. ANTONACI, op. cit., pp. 306-307. Di fronte ai
delitti che si perpetrano in quel sacro luogo, annota il cronista:
«gli occhi abbondano talmente in lagrime che s'offusca il vedere e
bagnano la carta che vi si può scrivere; le dita mi diventano
stecche sulla penna che non la ponno muovere» (G. M. LAGGETTO, op.
cit., p. 36).
(43) S. DE MARCO, op.
cit., pp. 11-12.
(44) G. M. LAGGETTO, op. cit., pp.
37-38.
(45) S. DE MARCO, op.
cit., p. 13.
(46) G. M. LAGGETTO, op. cit., p.
38.
(47) S. DE MARCO, op. cit., pp.
13-14; il prodigio della conversione e del martirio del turco è
testimoniata, nel processo di beatificazione degli Ottocento
otrantini celebrato per la prima volta nel 1539, da quattro testi
oculari; riporto quanto affermò in tale occasione uno dei quattro
(le deposizioni degli altri tre sono pressoché identiche),
Francesco Cerra, di 72 anni: "[...] Antonio Primaldo fu il primo
trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei
nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il carnefice,
stupefatto del miracolo, confessò la fede Cattolica essere vera, e
insisteva di farsi Cristiano, e questa fu la causa, perché per
comando del Bassà fu dato alla morte del palo" (G. M. LAGGETTO,
op. cit., p. 41).
(49) Ettore ROTA, Rivista Historia,
n. 76, marzo 1954, in G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri di Otranto,
cit., p. 36.
(50) P. COLONNA, cit. in A.
ANTONACI, cit., pp. 307-308.
(51) Testimonianza resa al processo
di beatificazione del 1771, cit. in S. DE MARCO, op. cit., p. 25.
(52) Ibid., p. 28-29.
(53) G. GIANFREDA, Gli 800 Martiri
di Otranto, cit., p. 5.
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tratto da Cristianità, 8 (1980) maggio, n. 61,
p. 14-19.
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