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il brigante Venneri

 

Storie di briganti salentini:

 

QUINTINO VENNERI

 

detto Macchiorru

 

da Antonio Pizzurro

 

 

 
 

 

premessa:

Briganti in Terra d'Otranto

di Anita Chemin Palma

 

 

 

Reclutati prevalentemente nella "classe infima", i briganti godevano della solidarietà dei contadini per i rifornimenti, i rifugi, le informazioni e, soprattutto per il silenzio.

Assalivano cittadine e villaggi, depredavano case e negozi di esponenti liberali (o ritenuti tali); autorità locali, guardie nazionali e qualche prete erano sospettati di connivenza con loro.

La brigante Michelina De CesarePer tutto il primo periodo seguente il compimento dell'unità, fino all'inizio del '62, per Terra d'Otranto non si può parlare di vero e proprio brigantaggio. Nulla di simile alle grandi bande ben organizzate che operavano stabilmente nel resto del Mezzogiorno continentale; piuttosto, forme di brigantaggio sporadico ed endemico, ad opera di piccoli gruppi, fatto di furti e vandalismi, oppure brigantaggio di importazione, incursioni di bande della vicina Basilicata, epicentro, a quell'epoca, del fenomeno.

Frequenti, invece le "reazioni" nei paesi, le sommosse contadine provocate da reali motivi di malcontento, e alle quali, con una certa facilità, veniva sovrapposto un intento politico filoborbonico. Dimostrazioni per la divisione dei demani si erano avute già nell'estate del '60 a Ginosa e a Palagiano. Dopo l'unità, più attiva si fece l'attività clericale e borbonica per imprimere un senso antiunitario alle sommosse: a Sava, Surbo, Poggiardo, Andrano, Taviano, in date diverse tra la fine del '60 e il '61, disordini furono provocati da alcuni legittimisti nel tentativo di estendere la rivolta ai paesi circostanti e di far insorgere i contadini. Agli incidenti che scoppiarono in quel periodo non dovevano essere estranei i settori più reazionari del clero, in particolare dell'Episcopato, dal momento che l'Arcivescovo di Otranto, i Vescovi di Ugento, di Gallipoli e di Nardò, e l'intrigante Vescovo di Oria Margarita furono sottoposti a misure poliziesche e giudiziarie di vario genere per sospette connivenze con i borbonici e, poi, con i briganti.
E' solo nel '62 che numerose bande iniziarono l'attività nel Tarantino e in Terra d'Otranto.
Reclutati prevalentemente nella "classe infima", secondo una definizione del sotto-prefetto di Taranto, Bozzi, i briganti godevano della solidarietà dei contadini per i rifornimenti, i rifugi, le informazioni, ma, soprattutto, per il silenzio, al punto che il comandante del presidio militare in Terra d'Otranto, Marchetti, dichiarò alla commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio di non aver mai ottenuto informazioni, neppure dietro pagamento, e di aver sempre incontrato i briganti per puro caso.

Nell'agosto del '62 vi fu un raduno nel bosco di Pianella di tutte le maggiori bande che operavano nella zona, le quali si coordinarono stabilmente agli ordini del capobanda Romano.briganti
Ex sergente borbonico, il Romano fu il più autorevole tra i briganti salentini di quel periodo.

Nel luglio del '61 era stato a capo di un tentativo di occupazione di Gioia del Colle, ferocemente represso dalle forze governative, e dopo un periodo di vita in montagna e di attività minore, il 26 luglio del '62 aveva invaso Alberobello, razziando le armi della Guardia Nazionale. Dopo il raduno di Pianella, la banda Romano poté contare su circa 300 uomini, in gran parte provenienti dalle file dell'esercito borbonico, e altrettante cavalcature. Vigeva al suo interno una disciplina abbastanza rigida, e la sua struttura fu, almeno agli inizi, modellata su schemi militari, con una divisione in compagnie agli ordini del Romano e dei suoi luogotenenti: Cosimo Mazzeo, detto il Pizzichicchio, Giuseppe Laveneziana, l'Abbate, Antonio Lo Caso, detto il Capraro, Riccardo Colasuono detto Ciucciariello, Francesco Monaco e Giuseppe Valente detto Nenna-Nenna, un ex sottufficiale garibaldino renitente alla leva.

Tutti costoro avevano alle spalle una attività brigantesca: il Laveneziana si distinse nel taglieggiare la zona tra Ostuni, San Pietro Vernotico e ad ovest Oria; il Capraro in quell'anno sequestrò il liberale Giuseppe Bardoscia di Torricella, con la richiesta di un riscatto di ventimila lire.
Fu molto importante, tuttavia, nel far fare un salto di qualità al brigantaggio salentino, la capacità di coordinamento di ordini e di azione che il Romano portò nell'attività delle bande locali, anche se per un periodo di tempo abbastanza breve. Le compagnie operavano separatamente o riunite ai comandi di uno o più capi. Estesero la loro azione in tutta la zona delle Murgee del tavoliere di Lecce e giunsero a minacciare Brindisi per tentare di liberare i detenuti nel bagno penale.

Tra il settembre e il dicembre del '62, pare agli ordini del Valente e del Laveneziana, la banda ebbe al suo attivo "83 reati fra omicidi, rapine, grassazioni, estorsioni, sequestri di persona, incendi, furti di bestiame, resistenza e tentati omicidi alla forza pubblica". Il 23 ottobre la banda attaccò la Guardia Nazionale di Cellino San Marco e di San Pietro Vernotico: "tre militi vennero uccisi perché portanti Il pizzo all'italiana; nove sfregiati, secondo il costume brigantesco, con l'asportazione di un lembo dell'orecchio, per essere così pecore segnate". In novembre la banda Romano attaccò Erchie, ed invase Grottaglie e Carovigno. A Grottaglie, il 17 novembre '62, l'invasione ebbe luogo agli ordini del Pizzichicchio: è probabile un preciso accordo tra i briganti e i legittimisti del paese, che erano in maggioranza nel Comune, dal momento che più di una razzia indiscriminata l'azione sembrò una vendetta contro alcuni esponenti liberali. Il sorteggio delle reclute che si sarebbe dovuto svolgere di lì a due giorni, con l'insoddisfazione che l'obbligo di leva suscitava nella gente del Mezzogiorno, dava oltretutto ai briganti molte probabilità di una buona accoglienza da parte del paese. Come fu, infatti. Al grido di "Viva Francesco II, abbasso i liberali, viva i piccinni nostri", i briganti entrarono in Grottaglie, accolti da molti popolani guidati da alcuni reazionari del paese, e senza alcuna resistenza da parte della Guardia Nazionale. Dopo il solito rito iniziale di abbattimento dello stemma sabaudo, razzia dei fucili e liberazione dei detenuti, i briganti passarono alla "vendetta" contro i liberali. Il brigante Napolitano esibito come trofeo dal bersagliere che lo ha uccisoIl "Cittadino Leccese" del, 22 novembre riferisce di case e negozi di esponenti liberali depredati e incendiati. L'azione, conclusasi a 1 alba, ebbe come seguito alcuni arresti, tra cui quello del Sindaco, e al processo ben 264 furono gli imputati, per partecipazione diretta favoreggiamento e ricettazione. Dove però è interessante la cronaca del "Cittadino" è nella parte finale, in cui quasi per inciso afferma che " ... Il funzionante sindaco ... con altri consiglieri comunali, Guardie Nazionali e alcuni preti aveva voce di intesa con i briganti ... ", il che spiegherebbe non solo l'accoglienza del paese, ma anche il dileguarsi della Guardia Nazionale.

Sequenza simile ebbe, cinque giorni dopo, l'invasione di Carovigno. I Consigli Comunali e le Guardie Nazionali di Carovigno e Grottaglie furono poi, probabilmente in seguito alle connivenze riscontrate con la banda Romano, tra i molti che furono sciolti nel quadro della epurazione delle Municipalità e delle Guardie Nazionali dagli elementi filoborbonici disposta dal governo Farini-Minghetti nel '63: 18 Consigli e ben 21 Guardie Nazionali nella sola Terra d'Otranto, secondo quanto riportato da "L'opinione" del 10 maggio '63.
L'11 dicembre '63, un reparto di fanteria attaccò di sorpresa e sconfisse duramente la banda Romano alla masseria Monaci, presso Noci. Il sergente Romano fu costretto di conseguenza a frazionare i suoi.

Al sopravvenire dei rigori invernali del '62-63, il punto caldo del brigantaggio era la zona tra il Fortore e Terra d'Otranto. La zona pugliese era infestata non solo dalle bande autoctone, ma anche dagli sconfinamenti delle formidabili bande a cavallo lucane.
Dopo la sconfitta, il Romano aveva ripiegato nelle Murge di Vallata, nel bosco della Corte. Qui, il 5 gennaio '63, la banda fu sorpresa dalla cavalleria e dalla Guardia Nazionale: il capo e una ventina di briganti caddero sotto le sciabole dell'esercito, e furono trovati dei documenti piuttosto importanti.

Con la fine del Romano, il brigantaggio in Terra d'Otranto subì un duro colpo e le bande locali non riuscirono più a coordinare la loro azione. Il Capraro si rifugiò nel territorio di Ginosa; sulla sua testa fu posta una taglia di L. 4000; catturato il 30 gennaio del '63, venne fucilato il giorno dopo a Castellaneta.fucilazione del brigante Petruziello

Al Valente fu fatale la visita ad una donna di Lecce: riconosciuto da un "vetturale" del suo paese, Carovigno, fu arrestato nel dicembre del '63 e scontò i lavori forzati a vita.
Maggiore resistenza ebbe la banda del Pizzichicchio, una grossa ed agguerrita banda a cavallo. Suo rifugio, il comune di Carosino, e suo teatro d'azione le Murge Tarantine.

La banda fu sorpresa da Carabinieri ed Esercito nell'estate del '63 nei pressi di Carovigno, e subì grossissime perdite tra morti ed arrestati. Il Pizzichicchio, però riuscì a sfuggire; fece altre azioni in tono minore, fino ai primi giorni del '64, quando fu catturato a Martina Franca. Anche per lui la condanna dopo il processo celebrato quello stesso anno fu la fucilazione.
Più o meno nello stesso periodo altre piccole bande operavano nel salentino. La più attiva fu quella di Quintilio Venneri di Alliste, sbandato e renitente alla leva, catturato ai primi di gennaio del '64 con i suoi compagni in una masseria.

Il bosco di Arneo fu rifugio di gruppi di banditi della zona circostante e anche di briganti provenienti dal vicino circondario di Taranto. Ippazio Gianfrda, soprannominato il Pecoraro, capeggiò dal '61 alla fine del '63 una banda nel Capo di Leuca. Dopo l'arresto dei compagni del Romano, il tarantino si poteva considerare sbarazzato dal brigantaggio autoctono.

Continuavano le incursioni delle bande lucane, della Basilicata meridionale ed occidentale, le quali, anzi, premute dall'intensificata azione dell'Esercito tra le Murge e il Vulture, nell'inverno '63 / '64 si spinsero sempre più spesso verso Terra d'Otranto. Nel gennaio del '64 briganti lucani tentarono senza riuscirvi di occupare Palagianello. Di lì a pochi giorni le grosse bande a cavallo di Egidione e di Angelo Masini, provenienti dalla Basilicata, combatterono a lungo nella zona di Castellaneta contro l'Esercito. Fu l'attività di queste bande, probabilmente, che determinò l'inclusione del tarantino, nel febbraio del '64, tra le zone in "stato di brigantaggio" previste dalla legislazione speciale. Dal '63, tuttavia, Terra d'Otranto ebbe essenzialmente un brigantaggio "minore", anche se duraturo e logorante, i cui protagonisti furono malfattori comuni più che briganti veri e propri, raggruppati in numerose bande di dimensioni assai ridotte, a cui proveniva linfa costante dalle masse affamate e disoccupate dei contadini più poveri.

 

 

 

QUINTINO VENNERI detto Macchiorru

 

 

tratto da:   "Alliste. Frammenti di storia locale di Antonio Pizzurro

Taviano, Grafo 7 Editrice, 1988   http://www.alliste.eu/AllistePDF/Alliste-Brigantaggio.pdf

Quintino Ippazio Venneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836 da Leonardo e da Raffaela Manni e la sua: condotta morale, e politica... fu lodevole fino al 1859, epoca in cui prese parte alla leva di quell'anno, e partì come recluta, ritornando in paese nel 1860, come sbandato del disfatto esercito borbonico, dalla qual epoca sino al sette aprile 1861 anche la sua condotta morale e politica appariva buona. Però prese parte nella reazione, e stette in carcere pressoché un'anno1. Ritornato non si fece vedere in paese, che pochi giorni, e poscia disparve... si assentò dal paese il mese di Ottobre del caduto anno  1862 2.

Datosi alla macchia, Quintino Venneri organizzò una banda di briganti, che raggiunse la maggiore consistenza numerica nell'assalto notturno alla guardia nazionale di Racale, quando si contarono ventiquattro briganti. Il nucleo della banda, oltre che dal Venneri, era formato da Vincenzo Barbaro di Villapicciotti (Alezio) detto Pipirussu, da Borsonofrio Cantoro di Melissano, Ippazio Ferrari di Casarano e Ippazio Gianfreda di Alezio detto Pecoraru o Panararu. Venneri compì diverse azioni delittuose 3, la più grave delle quali fu senz'altro quella perpetrata nei confronti di don Marino Manco di Melissano: motivi politici4 e rancori personali5 lo avevano indotto a progettare la rapina, che ebbe un tragico epilogo con l'uccisione del Manco.

Verso l'una di notte del 25 giugno 1863 la banda del Venneri, formata da undici briganti, si recò a Melissano e, divisasi in due gruppi, si aggirò un po' per le vie del paese. Alle due i briganti bussarono a casa di don Marino, dicendo di dover consegnare un plico urgente da parte del Sottogovernatore di Gallipoli. Il sacerdote, insospettitosi per l'ora insolita, non voleva aprire, ma vi fu costretto perché i briganti minacciavano di sfondare la porta, che stavano tempestando di colpi col calcio dei fucili.

Appena entrati chiesero al sacerdote mille ducati e, non avendoli ottenuti, incominciarono a «riprender il Manco che tutto dava ai Carabinieri e nulla ad essi» 6. Passarono quindi a rovistare la casa e s'impadronirono di 170 monete da dodici carlini, di due fucili «alla fulminante», di due orologi «d'argento a cilindro uno, alla guerrigliera l'altro», di tredici camicie, di dieci fazzoletti da donna, di tre rotoli di polvere da sparo e di alcune forchette e cucchiai di ferro stagnato. Non contenti, costrinsero la perpetua e lo stesso don Marino a procurarsi altre duecento piastre, andandole a chiedere in casa di diversi conoscenti.

Dopo che il bandito di «bassa statura, piuttosto pieno nella persona, senza barba, vestito alla contadina, con due pistole alla cintola»7, cioè il Venneri, ebbe controllato il denaro, i banditi si recarono in piazza. Qui distrussero gli stemmi dei Savoia, che sormontavano la porta del corpo delle guardie e quella dell'ufficio delle gabelle, e poi si allontanarono da Melissano8. Il giorno successivo don Marino Manco denunciò l'accaduto alla Giustizia Mandamentale di Casarano, dichiarando d'aver riconosciuto tra i malfattori il compaesano Borsonofrio Cantoro.

Le prime indagini risultarono infruttuose e solo dopò un mese, nella notte tra il 23 e 24 luglio, una compagnia della guardia nazionale riuscì a rintracciare nel territorio di Racale la banda del Venneri che, dopo uno scontro a fuoco, si diede alla fuga. Il delegato mandamentale di P. S. di Ruffano e Ugento, che guidava la colonna mobile, il mattino seguente si recò ad Alliste e perquisì l'abitazione dei familiari del Venneri, sequestrando una borsa contenente quaranta monete da dodici carlini di nuovo conio e due di vecchio.

Di fronte alle risposte evasive di Giuseppe, fratello di Quintino, circa la provenienza del denaro, il delegato decise di arrestarlo e di rinchiuderlo nel carcere di Ugento, sospettando che quel denaro fosse una parte della somma rubata al Manco 9. Durante l'interrogatorio svoltosi il 27 luglio, Giuseppe giustificò la presenza del denaro affermando che era il frutto della vendita dell'orzo, dell'avena e della paglia, oltre che del lavoro che aveva prestato nella messe. Sostenne che non conosceva l'ammontare preciso della somma contenuta nella borsa in quanto era la madre che, dopo la morte del marito Leonardo, custodiva e amministrava non solo i suoi soldi ma anche quelli degli altri fratelli. Giuseppe fornì pure il nome di diversi allistini, che potevano testimoniare in suo favore. Questi concordemente sostennero di ignorare la provenienza del denaro, ma dissero di non meravigliarsi affatto di una tal somma, dal momento che Giuseppe poteva averne anche una maggiore «per essere un industrioso». Neanche le persone che avevano prestato i soldi a don Marino riconobbero come proprie le monete sequestrate in casa del Venneri e solo il sacerdote dichiarò di riconoscerne alcune 10.

Per quanto mancassero delle prove ben precise e le testimonianze gli fossero state favorevoli, Giuseppe non ottenne la libertà e anzi dal carcere di Ugento fu trasferito in quello di Lecce. Nello stesso giorno in cui Giuseppe veniva interrogato nel carcere di Ugento, la madre si recò nella masseria di Vitantonio Micaletto, dove Quintino Venneri stava pranzando insieme a Barbaro, Cantora, Gianfreda e a Giuseppe Piccinno di Supersano, detto Mangiafarina. Non appena apprese dalla madre che il fratello era stato arrestato:

il Quintino rivolto ai compagni loro disse, - Se siamo coglioni facciamoci uccidere, se non lo siamo, corriamo in Alliste a sollevarlo e affrontiamo la forza - e i compagni - Andiamo - si levarono tutti e imbrandendo i fucili uscirono da quella capanna 11.

Mutò però subito parere e, anziché correre ad Alliste per sollevarvi la popolazione contro la forza pubblica, si recò a Melissano. Cosimo Venneri, che insieme ad altri due si trovava sull'aia della masseria, nel vederli armati e infuriati chiese dove stessero andando e Quintino rispose: «A saziarci di sangue»12. Altri testimoni videro sette uomini armati camminare svelti e minacciosi ed alle due e un quarto di pomeriggio udirono l'esplosione di due colpi d'arma da fuoco. Otto giorni dopo fu lo stesso Quintino a riferire a Marino Cantora che:

L’Ippazio Ferrari essere stato il primo a sparare colpendo nel petto don Marino, ed egli nel veder che non era morto gli assettò un'altro colpo di fucile in faccia, per effetto del quale cadde a terra freddato 13.

«Fu quindi spogliato e sgozzato con la punta della baionetta» sostiene lo Scozzi14, ma a quest'oltraggioso particolare non si fa alcun cenno nel referto dell'autopsia del cadavere 15. Poche ore dopo l'assassinio, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, Venneri assalì il carcere di Ugento per liberare il fratello Giuseppe ma, dopo uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine, i briganti furono costretti a ritirarsi16.

il brigante VenneriIl 29 luglio la banda del Venneri incendiò una casa di proprietà di Raffaele Parlati di Taviano, come reazione alla mancata estorsione tentata quattro giorni prima ai danni di suo figlio Giovanni. Il 25 luglio alle cinque di pomeriggio Quintino e altri sette briganti, armati di fucili pistole e pugnali, erano infatti penetrati nel «casino» di Giovanni Parlati, minacciando di ucciderlo se non avesse consegnato cento piastre. Avendo constatato che Parlati non possedeva la somma richiesta, se ne andarono dicendo che gli avrebbero incendiato la casa. E così fecero17. Il 13 agosto i briganti, armati di sciabole e fucili, minacciarono «di vita» Alessandro Cimino di Racale18. Meno di un mese dopo, il 9 settembre, Vincenzo Barbaro e Ippazio Ferrari compirono una rapina a mano armata ai danni dei fratelli Filippo e Giuseppe De Luca, rubando diversi oggetti per un valore complessivo di 924,90 lire19.

Alla rapina non prese parte il Venneri che, in quello stesso giorno, ebbe uno scontro a fuoco con soldati e carabinieri, mentre si trovava in compagnia di Borsonofrio Cantora, Ippazio Ferrari e Ippazio Gianfreda. Sul far di quella sera un drappello di soldati della 13a compagnia del 6° reggimento di fanteria, partito da Casarano alla ricerca dei briganti, si divise in due plotoni, uno dei quali si diresse ad Alliste e l'altro verso la campagna tra Racale e Melissano. Giunto quest'ultimo nei pressi della vigna di Alessandro Brigante:

in un subito una scarica di moschettoni... partiva da dietro una pariete da quattro briganti, i quali nel vedersi corrisposti si davano a precipitosa fuga. Inseguiti e raggiunti in un oliveto si ricominciò il fuoco da ambo le parti, ed in questo conflitto il soldato Gatto Stefano veniva ferito da una palla di archibugio20.

Il 29 settembre i briganti tentarono una grassazione a mano armata nella masseria Coloni di Ugento, rivolgendo minacce di morte alle persone che vi lavoravano21. Una nuova grassazione il Venneri, insieme a Ferrari, Gianfreda ed altri, la compì il 20 ottobre nel territorio di Scorrano22. Il 4 dicembre la guardia doganale Giovanni Truppi venne assalita da otto briganti lungo la strada Taviano-Melissano mentre ritornava da Gallipoli, dove aveva riscosso la quindicina per altre due guardie doganali. I briganti, armati di fucili pistole e pugnali, sbucarono all'improvviso da dietro una casa diroccata e gli portarono via le 59,60 lire della quindicina, due paia di mutande e quattro paia di calze 23.

Uno scontro a fuoco, l'ultimo prima della cattura, avvenne il 20 dicembre presso Casaranello tra la banda del Venneri e la guardia nazionale di Supersano24. Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1864 la guardia nazionale di Nociglia ed i carabinieri di Poggiardo, dopo aver circondato la masseria di Agostino Gnoni, irruppero all'improvviso nella stalla ove dormivano i briganti:

i quattro masnadieri... nel vedersi sorpresi dalla forza pubblica si levarono dai loro siti, opposero accanita resistenza alla forza pubblica per procurarsi uno scampo. Essi però erano stati colti all’improvvista e mancò loro il tempo di prendere e di usare le armi, sicché tirarono colpi e morsi per svincolarsi dalle mani di quei prodi che gli avevano afferrati 25.

Il solo Ferrari riuscì a fuggire (e fors'anche il Coi), ma Quintino Venneri fu arrestato e con lui anche Angelo Ferrara, detto Mustazza, e Pantaleo Tremolizzo di Villapicciotti. I briganti furono dapprima condotti nel carcere di Poggiardo e poi al S. Francesco di Lecce. Qui vi era ancora rinchiuso il fratello di Quintino, cioè Giuseppe, le cui condizioni di salute non erano affatto buone, anzi peggioravano sempre di più, tanto che fu necessario ricoverarlo nell'ospedale del carcere. Considerate le precarie condizioni di salute del Venneri, la sera del 26 gennaio il giudice istruttore del Tribunale Circondariale di Lecce si recò nel carcere per interrogarlo. Alle sue domande Giuseppe rispose di non conoscere il motivo per cui era detenuto ed affermò di non aver subito alcun maltrattamento: «Non sono stato offeso da alcuno, e né ho a dolermi di chicchessia». Ad ulteriori domande del giudice egli «non ha risposto cos'alcuna, atteso lo stato grave in cui trovasi»: due giorni dopo Giuseppe spirò nel carcere26.

Questi fu certamente una vittima del clima di repressione di quel tempo e forse la sua unica e vera colpa fu quella di esser fratello di Quintino Venneri. Fu tenuto infatti in carcere senza che ci fossero delle prove contro di lui e nonostante che tutti i testimoni lo avessero scagionato. La stessa Giunta Municipale di Alliste, in un attestato inviato al Tribunale di Lecce, aveva espresso su di lui il seguente giudizio: «Per quanto all'altro fratello Giuseppe Venneri la Giunta medesima attesta, che la di lui condotta politica, e morale è stata sempre buona»27.

Dopo alcuni mesi vennero arrestati, nel corso di una rapina ad Alezio, Vincenzo Barbaro, Antonio Sansò di Villapicciotti, detto Ghetta, ed Ippazio Ferrari. Durante il conflitto a fuoco il Barbaro ferì quattro militi della guardia nazionale, ma venne a sua volta gravemente ferito28.

Trascorse appena un mese ed il 20 settembre Venneri, insieme a Sansò, evase dal carcere di Lecce e riprese la sua attività di brigante compiendo numerose estorsioni29. L'azione militarmente e politicamente più significativa si svolse nella notte tra il 25 e 26 settembre 1865 30. Dopo aver arruolato ad Alliste, Racale e Felline diversi soldati sbandati, ai quali aveva promesso la paga di quattro carlini al giorno e la divisione del bottino saccheggiato nelle case dei liberali, decise di assalire il corpo della guardia nazionale di Racale per rifornirsi di armi.

Alla testa di ventiquattro briganti e travestito da guardia nazionale, Quintino Venneri bussò al corpo della guardia nazionale di Racale dicendo di dover consegnare due detenuti. Aperta la porta, i briganti fecero irruzione nella caserma, sequestrando i militi presenti e cinque fucili. Costrinsero quindi uno dei militi ad accompagnarli in casa di Cartemì, dal quale si fecero consegnare il fucile col pretesto che lo voleva il capitano. Presero in ostaggio anche Cartemì e si recarono in casa di altri militi, facendosi consegnare i fucili sempre con lo stesso stratagemma. Dopo essersi così impadroniti delle armi delle guardie di Racale, i briganti si diressero ad Alliste, ma prima di giungervi fu loro intimato il «chi va là?» da una pattuglia di carabinieri; ne seguì un conflitto a fuoco ed i briganti riuscirono a dileguarsi col favore delle tenebre. Sul terreno lasciarono un berretto da milite, una camicia con le iniziali Q.V. (Quintino Venneri) ed otto dei dodici fucili che, in quella stessa notte e prima ancora dell'assalto al posto delle guardie di Racale, avevano sequestrato in casa del Sindaco di Alliste. I carabinieri, che sospettavano di connivenza il Maggio, da tempo lo tenevano sotto controllo e, avendo ricevuto delle vaghe notizie sul piano dei briganti, quella notte si erano «appiattiti» vicino alla casa del Sindaco ed avevano potuto osservare indisturbati lo svolgersi dei fatti. Secondo il rapporto dei carabinieri «le armi furono bonariamente consegnate» dal Maggio, il quale sosteneva invece «essergli stato fatto con violenza». Il Sottoprefetto accettò la versione dei carabinieri e, ottenuta l'autorizzazione del Prefetto, arrestò il Sindaco insieme ad altri allistini e sciolse la guardia nazionale di Alliste. Gli avvenimenti del 26 settembre vennero considerati dal Sottoprefetto:

uno dei... conati della reazione, la quale nel mio circondario fatta audace dalla mitezza del Governo, vuoi metter ostacoli alla marcia delle cose patrie 31.

Alliste era considerata dall'«opinione pubblica dei paesi circonvicini... come il centro della reazione» che, secondo il Sottoprefetto, aveva proprio in Leopoldo Maggio il capo politico e in Quintino Venneri quello militare. I fautori della reazione erano presenti anche nei paesi vicini ed i maggiori esponenti ne erano Villani a Ruffano, Gigli a Ugento, Basurto e Vitale a Racale 32.

Alla protezione di parte della borghesia, bisogna aggiungere quella accordata da alcuni esponenti del clero. Sia Venneri che Barbaro ricevettero più volte l'ospitalità del parroco di Gemini, che in chiesa tuonava contro gli scomunicati, cioè contro i liberali, in sintonia col comportamento del clero della diocesi di Ugento, che in un rapporto di polizia veniva definita «covo di preti e di frati reazionari»33.

1 briganti godevano inoltre dell'istintiva simpatia del ceto popolare, agli occhi del quale apparivano spesso sotto la luce dei giustizieri34. Né questa deve esser considerata una ricostruzione artatamente romanticheggiante, perché uno dei capi d'accusa rivolto a Quintino Venneri fu proprio quello d'aver organizzato una:

banda armata ad oggetto di portare la devastazione, la distruzione ed il saccheggio in più comuni contro una classe di persone 35.

L'imputazione principale rivolta a Venneri, sin dal processo del 17 gennaio 1864, era però di natura prettamente politica e cioè di insurrezione e lotta armata contro lo Stato. L'accusa era infatti di:

Banda armata diretta a perpetrare la strage ed il saccheggio per cambiare, e distruggere la forma del governo, ed invitare i regnicoli ad armarsi contro i poteri dello Stato36.

La latitanza del Venneri durò meno di due anni37; venne infatti ucciso il 24 luglio 1866 in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine. Il suo cadavere, posto su di un carro, fu fatto sfilare per le vie del paese e poi esposto in piazza come macabro monito per gli abitanti38. Queste ultime notizie le ho desunte dalla tradizione orale ma non compaiono negli atti del processo, dove laconicamente il pubblico ministero presso la Corte d'Appello di Trani il 6 settembre 1866 chiese che «la Corte, sezione degli appelli correzionali, dichiari estinta l'azione penale per la morte del Venneri» 39.

Note:

Per un iniziale approfondimento della questione del brigantaggio, oltre ai testi già citati, cfr. E.  M. CAPECELATRO - A. CARLO,  Contro la «Questione Meridionale», Roma, Samonà e Savelli, 1972; M. R. CUTRUFELLI, L'Unità d'Italia, guerra contadina e nascita del sottosviluppo nel Sud, Verona, Bertani, 1974; A. DE JACO, // brigantaggio meridionale,  Roma,  Ed.   Riuniti,   1969;  A.   LUCARELLI,  // brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia dopo la seconda restaurazione borbonica (1815-1818) e il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860, Milano, Longanesi,  1982; F.  MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Milano, Feltrinelli, 1976; T. PEDIO, Brigantaggio e questione meridionale, Bari, Ed. Levante, 1982.
  1. Qui conobbe, divenendone amante, Maria Boccardi di Matino, che si trovava in carcere per aver preso parte ai fatti del 7 aprile; cfr. D. DE ROSSI, Sette segrete cit, p. 163.
  2. A.S.L.,  Corte di Assise di Lecce,  Processi Politici,  proc.   331   (contro  Quintino Venneri), pac. 69, b. XXXIII, «Estratto di nascita di Quintino Venneri» (f. 6) e «Attestato della Giunta Municipale di Alliste, 18 settembre 1863» (ff. 9-10).
  3. A.S.L., Carte di Polizia, fase. XXIX, a. 1861 e fase. IV, a. 1862, intestati a Quintino Venneri; A.S.L., Fascicoli della Sottoprefettura di Gallipoli, a.  1861.
  4. «Opinione comune era, invece, che il sacerdote don Marino Manco avesse tendenze favorevoli al nuovo regime»; cfr. Q.  SCOZZI,  Un paese del Sud   - Melissano, E. T., Matino, 1981, p. 72. «11 movente politico del furto e dell'assassinio venne confermato anche dall'interrogatorio di Borsonofrio Cantoro: 7/ motivo per cui si volle rubare al mio paesano don Marino Manco, e poi ancora ucciderlo - affermava il brigante - fu appunto perché era un nemico: non prendemmo denaro dall'arciprete e da don Vincenzo Manco appunto per detta ragione'»; cfr. F. SCOZZI, op. cit., p. 45 s.
  5. Ippazio De Virgilio, nella deposizione durante il processo per l'omicidio di don Marino, affermò d'aver incontrato in campagna Borsonofrio Cantoro che, comunicandogli di aver appena partecipato all'assassinio del sacerdote, gli disse: «Ce l'avevo da tempo perché prima di  andare soldato io amoreggiavo con  una giovane di  Melissano e don Marino vedendomi ricevuto in quella casa mi discacciò»; cfr. Q. SCOZZI, op. cit., p. 84.
  6. A.S.L., Corte di Assise di Lecce, Processi Politici, proc. 331, pac. 68, b. Il, f.  1 r.. «Riassunto del procedimento n.  1689».
  7. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, f. 4 t.
  8. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, ff.  1  t
  9. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, ff.  1 t e 5 r.
    1. proc. 331, pac. 68, t>. li, ».  l  t. e 3 r.
    2. proc. 331, pac. 68, b. II, ff.  1 t., 2 r. e 5 r
  10. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. Vili; S. PANAREO, «Reazione e brigantaggio nel Salento dopo il 1860», Rinascenza Salentina, IX, 1943, p.  179.
  11. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. li, f. 7 r.
  12. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, f. 7 t.
  13. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, f. 8 r. Lo stesso Ferrari confermò questa versione dei fatti: «Io sono stato il boja - ho tirato il primo colpo - Quintino il secondo»; cfr. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, f. 8 r. L'assassinio non avvenne in un podere del Manco, come asserisce Panareo («Reazione e brigantaggio» cit., p.  179), ma in casa dello stesso sacerdote: «alle ore quattordici, ed un quarto del dì 27 Luglio 1863 undici briganti avevano aggressi la casa di D. Marino Manco, e con due colpi di pistola lo avevano reso esanime»; A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. II, f. 5 t.
  14. Q. SCOZZI, op. cit., p. 82.

  15. A.S.L., op. cit, proc. 331, pac. 68, b. II, ff. 5 t. - 7 r.

  16. D. DE ROSSI, Sette segrete cit., p.  165.

  17. A.S.L., op. cit, proc. 331, pac. 68, b. X.

  18. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. XIII.

  19. A.S.L., op. cit, proc. 331, pac. 68, b. XVIII.

  20. A.S.L., op. cìt., proc. 331, pac. 69, b. XX, ff. 1 r. - 2 t, «Riassunto del procedimento n. 2535».

  21. A.S.L., op. eri., proc. 331, pac. 69, bb. XXIII, XXIV e XXV.

  22. A.S.L., op. eri., proc. 331, pac. 68, b. XVIII, «Atto di morte di Giuseppe Venneri» (f. 10). In quest'atto si dice erroneamente che Giuseppe morì a ventun anni, quando in realtà ne aveva ventitré per esser nato il 20.3.1841; cfr. A.S.L., op. eri., proc. 331, pac. 69, b. XXXIII, «Estratto di nascita di Giuseppe Venneri» (f. 7).

  23. A.S.L., op. eri., proc. 331, pac. 69, b. XXVIII.

  24. A.S.L., op. eri., proc. 331, pac. 69, b. XXIX.

  25. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 69, fase. XXXVI, f. 36 t., «Fascicolo conclusivo di tutto il processo relativo alla banda di Quintino Venneri».  Si tratta della masseria Le Carceri, appartenente al principe di Tricase e gestita da Agostino Gnoni; S. PANAREO, «Reazione e brigantaggio» cit., p. 180.

  26. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 68, b. IX.

  27. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 69, b. XXXIII, f. 9 r.

  28. Vincenzo Barbaro  non  venne  però  mortalmente  ferito come  afferma  De  Rossi, secondo il quale «il Barbaro... ferito e arrestato, mori dopo qualche giorno nelle carceri di Gallipoli il 24 agosto 1864». L'errore risale al Panareo, il cui testo è stato ricopiato quasi integralmente e acriticamente dal De Rossi, che ha poi evitato di citarlo tra le sue fonti; cfr. D. DE ROSSI, Sette segrete cit., p. 165; S. PANAREO, «Reazione e brigantaggio» cit, p.  180. Barbaro rimase invece a lungo nel carcere, perché NI luglio 1866 fu condannato a 20 anni di lavori forzati. Con la stessa sentenza Ippazio Gianfreda venne condannato ai lavori forzati a vita, Vito Mordano a 20 anni di lavori forzati, Giuseppe Piccinno e Vincenzo Leo rispettivamente a 10 e 3 anni di reclusione; cfr. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 69, fase. XXXVI, f. 376 r.

  29. A.S.L., op. cit., proc. 331, pac. 69, fase. XXXVI, f. 54 r.; vi è contenuto il certificato con cui il capoguardiano del carcere di Lecce comunicava alla Corte di Assise di Lecce che il 20 settembre 1864 erano evasi Ippazio Ferrari, Antonio Sansò e Quintino Venneri. Sullo stesso argomento cfr. anche A.S.L., op. cit., proc. 568, a. 1864, «Evasione dal carcere, grassazione, mancato omicidio e porto d'arme insidiosa nei giorni 20 settembre, 13 ottobre 1864».

  30. A.S.L., op. cit., proc. 764 h, fase.  151, «Rapporto del Sottoprefetto, 27 settembre 1865», ff. 3 r. - 6 t.

  31. 72.  A.S.L., op. cit., proc. 764 h, fase. 151, f. 5 r. Gli allistini arrestati insieme al sindaco Maggio erano Ippazio Esposito, Luigi Garofano, Quintino Pizzileo, Giuseppe Sicuro e Vito Venneri, fratello di Quintino.

  32. A.S.L., op. cit., proc. 764 h, fase. 151, ff. 4 t. e 5 t.

  33. S. ZECCA, Ugento, Cavallino di Lecce, Capone ed., 1980, p. 133.

  34. A.S.L., op. cit.,  b.  99,  proc.  499, a.   1866, «Connivenza col  brigantaggio mercé somministrazione di viveri e ricovero al brigante Quintino Venneri  a carico di  Paola Preite di Gemini e di Giuseppe Antonio Ciullo di Taurisano»; A.S.L., op. cit., b.  Ili, proc. 559, a. 1866, «Reato di sciente e volontaria somministrazione di ricovero e cibo al brigante Quintino Venneri, direttore di associazione di malfattori, nel corso del  1866»; A.S.L., op. cit., b.  133, proc. 665, «Connivenza col brigantaggio mercé somministrazione di viveri e ricovero (13 luglio 1866) nella masseria Fabrizio in agro di Ugento».

  35. A.S.L., op. cit., proc. 764, fase.  151.

  36. A.S.L., op. cit, proc. 331, pac. 69, b. XXVIII.

  37. Durante la latitanza continuarono le azioni delittuose del Venneri, quali diverse rapine a mano armata, l'assalto al carcere di Ugento e l'assassinio di un carabiniere; cfr. A.S.L., op. cit., proc. 764, a. 1865, voi. 3 e 4, «Omicidio volontario mancato a colpo di arma lunga da fuoco (schioppo) ad oggetto di  facilitare la fuga dei briganti compagni carcerati, avvenuta in Ugento la notte del 10.10.1865, in persona del Luogotenente della Guardia Nazionale sig. Vito Pezzulla di Ugento»; A.S.L., op. cit., proc. 764, a. 1865, voi. 5  e 6, «Estorsione di denaro in diverse volte in L.   146,85  avvenuta nel territorio di Acquarica e Presicce nei giorni  17 e 31  marzo, 7 e 8  maggio, notte del  18 e del  19 giugno, e  18 luglio  1865»; A.S.L., op. cit, proc. 601, a.  1866, «Omicidio volontario a colpo d'arma da fuoco (schioppo) in persona di Giovambattista Barberis, carabiniere reale a Presicce, commesso da Quintino Venneri fu Leonardo».

  38. Testimonianza resa all'Autore da Rocco Venneri. Secondo questi il prozio sarebbe stato ucciso dai carabinieri di Ruifano mentre usciva dalla casa dell'amata, sita in località Santa Cerimanna; a tradirlo sarebbe stato un barbiere del paese, dal quale poco prima il Venneri si era recato per farsi la barba e i capelli.

  39. A.S.L., op. cit, proc. 331, pac. 69, b. XXXVI, f. 383 r. È pertanto errata la notizia, riferita da Panareo e logicamente dal  De Rossi,  secondo la quale Venneri «morì nel carcere di Lecce, dove era rinchiuso il fratello Giuseppe»; cfr. D. DE ROSSI, Sette segrete cit., p.  166; S. PANAREO, «Reazione e brigantaggio» cit., p.  180. Quintino infatti non solo non morì in carcere, ma se per assurdo ciò si fosse verificato, al momento della sua morte non avrebbe potuto esserci il fratello Giuseppe che, come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, era morto il 28 gennaio 1864.

 

 

 Uccisione del prete Don Marino

di Stefano Cortese

Don Marino Manco era un prete coinvolto nella politica filo-sabauda contro i moti filo-Borbonici, che allora nell'intero meridione pullulavano a causa delle mancate promesse (anzi con l'aumento delle tasse, legge elettorale a suffragio ristretto...). Verso l'una di notte del 25 giugno 1863 la banda capeggiata da Quintino Venneri di Alliste e da Barsanofrio Cantoro di Melissano, entrata nel paese si divise in due gruppi. Alle due i briganti bussarono a casa di don Marino, dicendo di dover consegnare un plico urgente da parte del Sottogovernatore di Gallipoli. Il sacerdote, insospettitosi per l'insolita ora, non voleva aprire, ma vi fu costretto perchè i briganti minacciavano di sfondare la porta. Appena entrati chiesero al sacerdote mille ducati e, non avendoli ottenuti, incominciarono a "riprender il Manco che tutto dava ai Carabinieri e nulla ad essi". Passarono quindi a rovistare la casa e s'impadronirono di 170 monete da dodici carlini, di due fucili "alla fulminante", di due orologi "d'argento a cilindro uno, alla guerrigliera l'altro", di tredici camicie, di dieci fazzoletti da donna, di tre rotoli di polvere da sparo e di alcune forchette e cucchiai di ferro stagnato. Non contenti, costrinsero la perpetua e lo stesso don Marino a procurarsi altre duecento piastre, andandole a chiedere a casa di diversi conoscenti. Dopo che ebbero controllato il denaro, i banditi si recarono in piazza. Qui distrussero gli stemmi dei Savoia, che sormontavano la porta del corpo delle guardie e quelle delle gabelle, e poi si allontanarono da Melissano. Il giorno successivo don Marino Manco denunciò l'accaduto alla Giustizia Mandamentale di Casarano, dichiarando d'aver riconosciuto tra i malfattori il compaesano Barsanofrio Cantoro. Le prime indagini risultarono infruttuose e solo dopo un mese, nella notte tra il 23 e 24 luglio, una compagnia della guardia nazionale riuscì a rintracciare nel territorio di racale la banda del Venneri che, dopo uno scontro a fuoco, si diede alla fuga. Il delegato mandamentale di P.S. di Ruffano e Ugento, che guidava la colonna mobile, il mattino seguente si recò ad Alliste e perquisì l'abitazione dei familiari del Venneri, sequestrando una borsa contenente quaranta monete da dodici carlini di nuovo conio e due di vecchio. Il delegato arrestò il fratello del Venneri, Giuseppe, sospettando che quel denaro fosse la somma rubata al Manco. Nell'interrogatorio del 27 luglio nessuno andò contro il parere di Giuseppe Venneri che sosteneva che era il frutto della vendita dell'orzo, dell'avena e della paglia; neanche le persone che avevano prestato i soldi a don Marino riconobbero come proprie le monete sequestrate in casa del Venneri e solo il sacerdote dichiarò di riconoscerne alcune. Nonostante ciò Giuseppe fu trasferito dal carcere di Ugento a quello di Lecce e il fratello proclamava vendetta: la banda uscì dalla capanna con il proposito della rivolta ad Alliste contro la forza pubblica, ma si recarono a Melissano. Alcuni testimoni videro sette uomini camminare svelti e minacciosi ed alle due e un quarto di pomeriggio udirono l'esplosione di due colpi d'arma da fuoco. Otto giorni dopo fu lo stesso Quintino Venneri a riferire a Marino Cantoro: "l'Ippazio Ferrari essere stato il primo a sparare colpendo nel petto don Marino, ed egli nel veder che non era morto gli assettò un'altro colpo di fucile in faccia, per effetto del quale cadde a terra freddato. Fu quindi spogliato e sgozzato con la punta della baionetta" sostiene lo Scozzi, ma a quest'oltraggioso particolare non si fa alcun cenno nel referto dell'autopsia del cadavere.

tratto da: http://www.geocities.com/adesold/melissano/Donmarino1.htm

 

Cattura e morte di Quintino Venneri

(secondo i documenti d'archivio dell'Arma dei Carabinieri)

 

La piaga del brigantaggio non era stata ancora estirpata nel 1865, ma stava cambiando i propri connotati: non era più un fenomeno politico (espressione del malcontento delle popolazioni meridionali verso l'unità d'Italia) ma stava diventando un fenomeno sociale, alimentato dalla miseria e dalle condizioni di vita molto arretrate di certe regioni.

Il capobanda Quintino Venneri aveva la sua base nella zona di Gallipoli, un fiorente porto arroccato su una lunga penisola non lontano dalla città pugliese di Lecce. Il bandito scorrazzava nel Salento tra uliveti e ricche masserie esibendo un moderno e lucente fucile, preda di guerra strappata al carabiniere Giovanni Barberis, ucciso in un agguato. Per lui era come il kalashnikov nelle mani di un guerrigliero afghano, anche se non gli avrebbe portato fortuna.

L'Arma, tenace nella sua lotta ai criminali, aveva assegnato a due sottufficiali, il brigadiere Elia Venturini e il vicebrigadiere Santo Taddeucci, la missione di prendere il brigante vivo o morto. I due avevano avviato un lavoro paziente per raccogliere tutte le informazioni necessarie.

Giorno dopo giorno avevano scrupolosamente messo insieme le tessere per comporre un'invisibile ragnatela di fatti, date, persone. Il lavoro di un anno. Venneri aveva scelto come santuario una zona boscosa e piena di anfratti nei monti di Supersano. Fu messo insieme un nucleo di nove carabinieri ed alcune guardie nazionali in gamba e ci si mise in moto per sferrare l'attacco decisivo. Quasi tutte le marce di avvicinamento all'obiettivo avvenivano di notte per evitare qualunque contatto con possibili informatori del brigante.

Alla fine i soldati si trovarono di fronte a un labirinto di grotte. Non c'era altro da fare che ispezionarle una per una. Insospettito dai movimenti, Venneri si rese conto di quel che stava accadendo e sbucò all'improvviso da una grotta per buttarsi nella boscaglia.

"In nome della legge, arrenditi!", un colpo di fucile ed il sibilo di una pallottola furono la risposta del bandito. Il brigadiere Taddeucci replicò immediatamente al fuoco, tirando d'istinto: Venneri fu colpito a morte, al primo colpo. Nelle sue mani ancora stretto il fucile di cui andava tanto fiero. Nella grotta le forze dell'ordine scoprirono un arsenale di quattordici fucili e molte casse di munizioni.

Poi, il triste giro dei paesi vicini, perché tutti potessero vedere il cadavere e sapere che alla giustizia non si sfugge. Il brigadiere Taddeucci fu decorato con medaglia d'argento.

tratto da: http://www.carabinieri.it/arma/ieri/storia/Fascicolo_07_pag02di03.html

 

LA CATTURA DI QUINTINO VENNERI

di R. Rizzelli "Pagine di Storia Galatinese" 1912

 

"La cattura, anzi, l'uccisione di Quintino Veneri, avvenne in modo tragico ed emozionante. La stazione dei carabinieri Ruffano, nel colmo della notte del 23 marzo 1863, fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, un chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. L'ora tarda non permise ai militi della benemerita arma di avvisare il comandante della Guardia Nazionale di stanza alla masseria Grande dei signori De Marco di Maglie, e postasi in armi in soli otto carabinieri, al comando di un brigadiere, corse a Cirimanna. Il drappello dei valorosi giunse sul posto in sul far del giorno e nell'accerchiare la chiesetta non potette fare a meno di non prevenire il capo banda Veneri il quale, non potendo evadere, si pose in sugli attenti per difendersi. La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all'orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell'orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito: l'Arma benemerita aveva liberato la contrada del capo banda ma aveva rimesso la pelle di un suo valoroso soldato.

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l'arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie - la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l'adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio".

 

 

Presunti componenti o fiancheggiatori della banda del "Macchiorru"

 

 

  • Venneri Quintino Ippazio

  • Barbaro Vincenzo  di Villapicciotti (Alezio) detto Pipirussu,

  • Cantoro Borsonofrio  di Melissano,

  • Ferrari Ippazio di Casarano

  • Gianfreda Ippazio di Alezio detto Pecoraru o Panararu.

  • Micaletto Vitantonio, dove Quintino Venneri stava pranzando insieme a

  • Piccinno Giuseppe di Supersano, detto Mangiafarina.

  • Coi Salvatore

  • Ferrara Angelo detto Mustazza,

  • Tremolizzo Pantaleo di Villapicciotti.

  • Sansò Antonio di Villapicciotti, detto Ghetta

  • Mordano Vito 

  • Leo Vincenzo

  • Maggio Leopoldo, Sindaco di Alliste

  • Esposito Ippazio di Alliste

  • Garofano Luigi di Alliste

  • Pizzileo Quintino di Alliste

  • Sicuro Giuseppe di Alliste

  • Venneri Vito , fratello di Quintino, di Alliste

  • Villani di Ruffano

  • Gigli (?) di Ugento,

  • Basurto (?) di Racale

  • Vitale (?) di Racale

  • Preite Paola di Gemini

  • Ciullo Giuseppe Antonio di Taurisano

 

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Ultimo aggiornamento:

 29 ottobre 2006