Delle
amicizie pericolose di molti esponenti siciliani di Forza Italia.
E della strana politica che opera curiose selezioni: non emargina
i personaggi anche solo “inopportuni”, ma anzi li promuove. Con
gran rabbia delle “toghe rosse”
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Quando,
lunedi 3 agosto 1998, fu arrestato Giovanni Mauro, presidente
della Provincia di Ragusa ed esponente di Forza Italia, Enrico La
Loggia, capogruppo di Forza Italia al Senato, subito dichiarato:
Attenti a un nuovo caso Musotto. La persecuzione giudiziaria
(nemmeno più l’errore giudiziario) e diventata ormai spiegazione
esaustiva e giustificazione preventiva di ogni atto della
magistratura nei confronti di ogni esponente di Forza Italia, dal
suo leader all’ultimo degli aderenti.
Un atteggiamento che ha fatto scuola: tanto che dopo l’arresto di
Francesco Schiavone detto Sandokan, boss dei Casalesi, il piu
ricercato tra i nuovi capi della Camorra campana, la moglie
rilascio ai giornali risentite dichiarazioni secondo cui il marito
era vittima di una persecuzione dei comunisti. La signora Sandokan,
evidentemente, ha imparato la lezione mediatica e,
democraticamente, ha applicato a se lo schema gia ampiamente
utilizzato in tanti casi da autorevoli esponenti della politica. |
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Giovanni
Mauro, a Ragusa, era stato arrestato con l’accusa di aver
riscosso tangenti, in una provincia ad alta densità mafiosa. Il
Musotto subito ricordato da La Loggia e, naturalmente, Francesco
Musotto, grande avvocato palermitano, presidente della Provincia
di Palermo, prestigioso esponente di Forza Italia, clamorosamente
arrestato nel novembre 1995, processato per concorso esterno in
associazione mafiosa e poi assolto in primo grado, nell’aprile
1998. Assolto: dunque innocente. E se innocente e Musotto, non può
esserlo anche Mauro?
Nel giugno 1998 i magistrati palermitani avevano chiesto l’arresto
di un altro esponente di Forza Italia, Gaspare Giudice, deputato
in Parlamento, eletto nel 1996 nel collegio di Bagheria con il 54
per cento dei voti. Appena ricevuta la notizia, Silvio Berlusconi
aveva regalato ai cronisti una dichiarazione dalla sintassi
faticosa: Essendo Giudice vicecoordinatore di Forza Italia in
Sicilia e avendo avuto quindi rapporti con l’onorevole Micciché,
non si puo neppure immaginare alcun alone di dubbio intorno a lui,
perché altrimenti non avrebbe potuto avere quell’incarico.
Giudice, comunque, fu salvato dal voto della Camera, che a
sorpresa (contro lo stesso parere gia espresso dalla Giunta per le
autorizzazioni a procedere) non concesse l’autorizzazione alla
custodia cautelare in carcere.
Dopo l’arresto di Mauro, Cristina Matranga, esponente anomala di
Forza Italia in Sicilia (anomala in quanto poco propensa a unire
la sua voce al coro dei compagni di partito sempre all’attacco dei
magistrati della Procura di Palermo), chiese pubblicamente a Forza
Italia un’operazione di igiene politica. Il clima di quelle
settimane sembrerebbe giustificare la richiesta: all’arresto di
Giovanni Mauro, alle violente polemiche seguite al voto della
Camera su Giudice, si sommavano da una parte il coinvolgimenti in
storie di mafia di esponenti minori del partito, dall’altra
l’emergere di nuove accuse di contiguità con Cosa nostra rivolte a
Marcello Dell’Utri, che di Forza Italia puo essere considerato il
padre.
Eppure a Matranga rispose,
autorevolmente, Gianfranco Micciché, coordinatore siciliano del
partito (e dunque diretto superiore di Giudice): Faccia i nomi. Un
tuffo nel passato più buio: chiunque abbia conservato un po’ di
memoria, ricorderà che questa era la formula magica, ripetuta
ossessivamente (Fuori i nomi! Fuori i nomi!), con cui negli anni
Ottanta era zittito chi osava anche soltanto porre il problema dei
pur evidenti rapporti tra mafia e politica.
Faccia i nomi: questa volta i nomi erano gia su tutti i giornali;
eppure ormai non serve nemmeno più aggiungere la seconda formula
magica tanto di moda negli anni Ottanta (Fuori le prove!). Perché
lo schema interpretativo dei fatti, imposto con la forza dei media
e della ripetizione all’infinito, e quello della persecuzione
politica per via giudiziaria: quindi anche le prove sono ormai
impotenti. Inutili. Più fatti significa soltanto più persecuzione.
Nel momento stesso in cui si portano più elementi d’accusa, si
dimostra una più pervicace volontà persecutoria. |
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I fatti, in verità, non
mancano. Il 1 settembre era stato arrestato a Reggio Calabria, con
l’accusa di concorso in omicidi di ‘Ndrangheta, Giuseppe Aquila,
esponente di Forza Italia ed ex vicepresidente della Provincia di
Reggio. E a Roma un parlamentare di Forza Italia era entrato in
un’indagine su un traffico di droga. Senza che alcun particolare
filtrasse dalle maglie del segreto istruttorio, i magistrati
avevano messo sotto osservazione gli incauti rapporti tra un
onorevole azzurro e un esponente albanese: i due si sarebbero
incontrati a Roma e avrebbero discusso di politica internazionale,
a partire dal conflitto in Kosovo tra serbi e indipendentisti
albanesi.
Niente di male, se non fosse per il piccolo particolare che
l’albanese in questione era in strettissimi rapporti con un
compatriota impegnato in grande stile nel narcotraffico. Ormai gli
albanesi sono attivi nel commercio di stupefacenti non piu solo
come gregari, ma anche come protagonisti, e stanno avviando
contatti per stringere quei rapporti politici che, sperano, in
prospettiva potranno proteggere, consolidare e far crescere i loro
affari. |
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Il
caso Musotto, ora che la polemica e svaporata, fornisce molti
elementi di riflessione su come Forza Italia gestisca i rapporti
tra politica e legalità. La vicenda ebbe il suo avvio l’8 novembre
1995, quando fu arrestato a Palermo Francesco Musotto,
esponente di Forza Italia proveniente dalle file del Psi,
presidente della Provincia eletto con ben 320 mila voti, massone,
avvocato di boss di primo piano in Cosa nostra (Raffaele Ganci,
mafioso della famiglia della Noce, quella che sta nel cuore di
Riina; i fratelli Graviano, organizzatori delle stragi del 1993;
Salvatore Sbeglia, fornitore del telecomando utilizzato per la
strage di Capaci; gli uomini del clan Farinella).
Quattro giorni dopo l’arresto, il 12 novembre, Forza Italia
organizzo davanti al palazzo di giustizia di Palermo una
manifestazione di protesta contro i magistrati della Procura. In
prima fila il coordinatore regionale del partito Gianfranco
Micciché e il presidente dei senatori Enrico La Loggia.
Il giorno dopo fu la volta degli avvocati: una cinquantina di
legali palermitani in toga, guidati dal presidente della Camera
penale Nino Mormino, manifestarono davanti al palazzo di giustizia
contro Giancarlo Caselli e i suoi sostituti.
Musotto, insieme al fratello Cesare, era accusato di aver fornito
assistenza ai latitanti di Cosa nostra, di aver passato loro
notizie riservate sui provvedimenti giudiziari, di aver dato
ospitalità, nel giugno 1993, nella villa di famiglia a Pollina,
nei pressi di Cefalu, al piu sanguinario dei killer corleonesi,
Leoluca Bagarella.
A un uomo d’onore che, dopo alcune pubbliche dichiarazioni
antimafia di Musotto, metteva in dubbio la sua fedelta ai
corleonesi, Bagarella rispondeva: Che ci vuoi fare? Non vedi che
lo attaccano tutti? Iddu cerca di difennisi. L’importanti e ca
iddu sia dda (Quello cerca di difendersi. L’importante e che
stia li).
Il processo di primo grado si concluse il 4 aprile 1998, con una
assoluzione dall’accusa di concorso esterno in associazione
mafiosa. La sentenza sostiene che Bagarella fu effettivamente
ospite di casa Musotto e condanna il fratello Cesare. Ma ritiene
che l’accusa non abbia presentato elementi sufficienti a
dimostrare che di quell’ospitalita fosse a conoscenza anche
Francesco, che dunque fu assolto.
Con il vecchio codice, sarebbe stata un’assoluzione per
insufficienza di prove. Ma a Forza Italia e sufficiente per
scatenare una nuova raffica di attacchi contro Caselli e la sua
Procura.
Subito dopo l’assoluzione, Musotto, interpellato dai giornali,
dichiaro che non aveva intenzione di tornare alla politica. Ma fu
Silvio Berlusconi in persona, il 17 aprile 1998, al primo
congresso di Forza Italia, a chiamare sul palco Musotto,
presentato come una vittima della persecuzione dei giudici e
salutato come un eroe dalla platea. Tra gli applausi scroscianti
una vera ovazione il leader di Forza Italia lo ricandidò a
presidente della Provincia. Alleanza Nazionale, pur con qualche
isolato mugugno interno, accettò di sostenerlo. E il 25 maggio
1998 Francesco Musotto fu trionfalmente rieletto al primo turno. |
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Una politica sana, una sana
amministrazione avrebbero in ogni paese civile respinto un
personaggio che, anche penalmente innocente, aveva dimostrato di
non essere sufficientemente lontano dagli ambienti di Cosa nostra.
In quale regione d’Italia si sopporterebbe, se non altro per
motivi d’opportunità, un presidente con un fratello in galera per
mafia? Chi mai avrebbe il coraggio di candidare alla presidenza
della regione il fratello di un personaggio condannato per aver
ospitato nella villa di famiglia Leoluca Bagarella?
Non tutti i fatti hanno rilevanza penale, certo, ma la politica
dovrebbe avere sufficiente autonomia di giudizio per soppesare
anche gli elementi che non entrerebbero mai in un’aula di
tribunale. Un’assoluzione processuale dovrebbe comunque essere
condizione necessaria, ma non sufficiente, per entrare nei ranghi
della politica. Invece la sentenza, ormai non accettata quando e
di colpevolezza, se e d’assoluzione viene sbandierata come un
merito, diventa di per se una garanzia di correttezza, perla da
inserire in curriculum, senza alcuna memoria per i fatti che
stanno dietro la sentenza. Questo sì è giustizialismo: ossia
schiacciamento della politica sulle vicende giudiziarie. |
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Il
caso di Gaspare Giudice è, se possibile, ancora più
istruttivo. In questa vicenda, gli elementi che l’accusa aveva
raccolto a carico dell’esponente di Forza Italia erano tali da far
escludere alla giunta parlamentare per le autorizzazioni a
procedere che ci fosse fumus persecutionis nei confronti del
parlamentare. Perfino il supergarantista Filippo Mancuso, in
giunta, non aveva avuto nulla da eccepire contro la richiesta dei
magistrati.
Secondo l’accusa, Giudice era al diretto servizio della cosca
mafiosa di Caccamo, i cui uomini si vantavano di averlo fatto
eleggere e gli telefonavano fin dentro il palazzo di Montecitorio
per ricordargli la sua dipendenza e per ordinargli che cosa doveva
fare: Gasparino, guarda che siamo stati noialtri a metterti li,
gli ripetevano.
Eppure la Camera dei deputati il 16 luglio 1998 (il giorno dopo la
terza condanna penale ricevuta da Silvio Berlusconi) boccio (303
voti a 210, con 13 astenuti) la richiesta d’arresto. Ancor più
grave, i deputati sottraggono al giudice elementi di prova:
impediscono (287 voti a 239, con 3 astenuti) l’utilizzo
processuale dei tabulati Telecom, quelli da cui vengono
documentati i rapporti e la dipendenza di Giudice dagli uomini
delle cosche.
Attorno a Giudice si muovevano personaggi come Nino Mandara,
imprenditore, fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate,
membro del direttivo provinciale del partito, grande elettore di
Giudice. Il figlio di Mandara, Nicola, nel 1995 era finito in
carcere con l’accusa di essere un killer di Cosa nostra. In
manette era finito anche un altro sostenitore di Forza Italia,
Roberto Campesi, titolare di un negozio di caramelle, che si era
fatto consegnare 160 milioni dai figli di un imprenditore
arrestato per mafia con la promessa di avviare una campagna
televisiva di delegittimazione dei magistrati, sostenuta da
Vittorio Sgarbi. |
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Quante storie di ordinaria politica
in terra di mafia. Quanti personaggi, per lo piu provenienti da Dc
e Psi, pervengono a nuova vita sotto le bandiere di Forza Italia e
si muovono disinvoltamente sul crinale tra istituzioni e
criminalità. Giuseppe Cilluffo, per esempio, era presidente
del consiglio circoscrizionale del quartiere Brancaccio, a
Palermo. Alla nascita di Forza Italia, aveva promosso la
fondazione di un club del movimento. Nel 1994 fu arrestato per
concorso esterno in associazione mafiosa, con l’accusa di essere
uomo a disposizione dei fratelli Graviano (imputati per le stragi
del 1993 e per l’omicidio di padre Puglisi).
Al processo di primo grado fu
condannato per favoreggiamento.
Anche Franco Tusa, imprenditore palermitano nel settore
dell’abbigliamento ed ex vicesindaco socialdemocratico di
Monreale, nel 1994 si era scoperto una incontenibile passione
politica per Forza Italia, tanto da fondare un club a Monreale. I
suoi rapporti - con personaggi del calibro di Giuseppe Mandalari,
il commercialista di Riina - avevano spinto Miccichè a chiudere il
club e troncare ogni collaborazione.
Con un arresto (nel luglio 1994) e una condanna per concorso
esterno all’associazione mafiosa denominata Cosa nostra, era
finita la brevissima avventura politica di Gianni Ienna, noto
costruttore palermitano. Il suo hotel San Paolo Palace domina il
quartiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano. Proprio San
Paolo era stato chiamato il club di Forza Italia fondato da Ienna
e ospitato nei saloni dell’hotel. Mai riconosciuto dal movimento,
dichiarerà poi Miccichè.
Certo e che, in quei saloni, il 5 febbraio 1994 Forza Italia
organizzo la presentazione ufficiale dei candidati siciliani alle
elezioni. A Ienna, considerato un manager di Cosa nostra, un
grande riciclatore del tesoro mafioso, dopo l’arresto sono stati
confiscati beni per 400 miliardi. Il costruttore aveva iniziato a
raccontare qualcosa dei segreti di cui e depositario, degli affari
delle cosche in Sicilia ma anche al Nord; poi pero ha ritrattato e
si e chiuso di nuovo nel suo pesante silenzio. |
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Più
complessa la storia di Ilario Floresta, imprenditore
siciliano nel settore della telefonia, anch’egli sceso in campo
nel 1994, sotto le bandiere di Forza Italia. Le aziende di sua
proprietà o del suo giro (la Fintel di Palermo, la Itel di San
Gregorio di Catania, la Siet di Bari, la Giesse di Mirandola in
provincia di Modena...) hanno anche ottenuto nel corso degli anni
ricchi subappalti dalle imprese telefoniche di Stato.
Quando Floresta si buttò nell’avventura politica, Forza Italia lo
candido alla Camera nel collegio di Giarre, dove fu eletto con
oltre 33 mila preferenze. Una dote di voti che gli servì ad
arrivare fino alla poltrona di sottosegretario al Bilancio nel
governo Berlusconi.
Ma gli investigatori della Dia (la Direzione investigativa
antimafia), analizzando i tabulati telefonici dei cellulari usati
dagli uomini d’onore entrati in azione per uccidere Giovanni
Falcone, avevano scoperto che Gioacchino La Barbera, uno dei
componenti il commando che esegui strage di Capaci, nei giorni
precedenti e seguenti la strage aveva comunicato anche con
cellulari intestati alla Fintel.
Su Floresta erano scattate le
indagini. Con chi parlava La Barbera? E soprattutto, quali erano i
contenuti delle conversazioni? Una risposta fu fornita da La
Barbera stesso, che dopo essere stato arrestato aveva scelto di
diventare collaboratore processuale: erano telefonate di lavoro,
spiego La Barbera ai magistrati palermitani, perché la sua azienda
di movimento terra e trasporti (la Impedil Scavi) lavorava per la
Fintel di Palermo.
Ma dunque un’azienda di Floresta, o comunque considerata dagli
investigatori nel suo giro d’affari, dava subappalti all’impresa
di un uomo d’onore di alta caratura come Gioacchino La Barbera.
Nessun rilievo penale, naturalmente. Floresta, del resto, ha
sempre sostenuto non solo di non conoscere La Barbera, ma anche di
non avere più il controllo diretto della Fintel dal 1987.
Chiusa questa partita palermitana, per Floresta si apri un nuovo
capitolo: la procura distrettuale antimafia di Catania avvio
un’indagine su di lui in seguito alle dichiarazioni di un mafioso
diventato collaboratore processuale, Giuseppe Scavo, il quale ha
affermato di aver visto Floresta negli uffici dell’autoparco di
Sebastiano Sciuto, uomo d’onore calabrese del clan Ercolano, poi
arrestato in seguito all’operazione Orsa Maggiore. Le affermazioni
di Scavo sono rimaste pero senza conferme e riscontri, cosi la
procura ha chiesto l’archiviazione del caso. |
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Non
ha ancora una lettura univoca neppure la vicenda che ha per
protagonista Antonio D’Alì, 46 anni, senatore eletto a
Trapani nelle liste di Forza Italia. Nel 1994 raccolse 52 mila
voti. Alle ultime elezioni, ripresentato da Forza Italia, ha
superato se stesso, aggiudicandosi 5 mila voti in più e con ciò
conquistando la maggioranza assoluta dei suffragi nel suo
collegio: 51,4 per cento. Ha ottenuto un incarico parlamentare di
un certo rilievo, vicepresidente della commissione Finanze, e per
un breve periodo e stato il responsabile economico di Forza
Italia.
La famiglia D’Ali Stati e una delle più potenti, facoltose e
riverite del Trapanese. Le immense tenute agricole, le saline tra
Trapani e Marsala, le molte proprietà e (fino al 1991) la quota di
controllo della Banca Sicula costituivano l’impero governato con
autorità da Antonio D’Ali senior, classe 1919, che fu direttamente
amministratore delegato della banca di Namiglia fino al 1983, anno
in cui fu coinvolto nello scandalo P2 (il suo nome era nelle liste
di Gelli) e preferì passare la mano al nipote Antonio junior,
quello che dal ‘94 siede in Senato.
La Banca Sicula era uno dei più importanti istituti di credito
siciliani per numero di sportelli e per mezzi amministrati.
All’inizio degli anni Novanta la banca trapanese, gia corteggiata
anche dall’Ambroveneto di Giovanni Bazoli, fu acquistata e
incorporata dalla Banca Commerciale Italiana, alla ricerca di un
partner per superare la sua storica debolezza in Sicilia. In
seguito all’operazione, Giacomo D’Ali, professore associato di
Fisica, figlio di Antonio senior e cugino di Antonio junior il
senatore, e entrato a far parte del consiglio d’amministrazione
della Banca Commerciale.
Dava lavoro a tanti, la famiglia D’Ali. Come Campieri ha avuto
membri delle famiglie mafiose dei Minore e dei Messina Denaro.
Francesco Messina Denaro, il vecchio capomafia di Trapani, fu per
una vita fattore dei D’Ali, prima di passare la mano - come boss e
come fattore - al figlio Matteo Messina Denaro, classe 1962, oggi
considerato il più fedele alleato dei Corleonesi, uno dei capi più
potenti (e ricercati) della nuova mafia siciliana, protagonista
della strategia corleonese delle stragi.
A riprova dei rapporti tra la famiglia D’Ali e il boss, il
vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia Nichi
Vendola nel 1998 esibì i documenti che provano il pagamento a
Matteo Messina Denaro, ufficialmente agricoltore, di 4 milioni
ricevuti nel 1991 dall’Inps come indennità di disoccupazione. A
pagargli i contributi era Pietro D’Ali, fratello di Antonio il
senatore e di un Giacomo D’Ali che, negli anni Settanta, era stato
attivista di un gruppo neofascista siciliano (A proposito: ancora
tutti da approfondire sono i rapporti intercorsi in Italia tra
mafia, eversione nera e apparati dello Stato). |
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Francesco Geraci, gioielliere di
Castelvetrano, gran fornitore di preziosi alla famiglia di
Toto Riina, ha raccontato di compravendite di terreni in cui
i D’Ali e i Messina Denaro avevano ruoli non facilmente
distinguibili. Fatto sta che l’immensa tenuta di Contrada
Zangara, a Castelvetrano, un tempo dei D’Ali, e passata ai
Messina Denaro (ma non risulta che sia stato pagato un
prezzo) e oggi e stata confiscata come proprietà di Toto
Riina, di cui Matteo Messina Denaro e risultato prestanome.
Complicati e poco trasparenti, questi passaggi di proprietà:
i D’Ali sono vittime di estorsione o complici dei Messina
Denaro? E se sono vittime, perché non hanno mai denunciato
l’estorsiomne?
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Anche
la Banca Sicula, prima di rigenerarsi dietro le rispettabilissime
insegne della Banca Commerciale Italiana, era stata oggetto di un
allarmato rapporto di un commissario di polizia, Calogero Germana,
che poi, trasferito a Mazara, aveva subito un attentato da parte
di Leoluca Bagarella in persona. Il rapporto ipotizzava che
l’istituto di credito fosse uno strumento di riciclaggio di Cosa
nostra. E sottolineava il fatto che come presidente del collegio
dei sindaci della banca fosse stato chiamato Giuseppe Provenzano,
il futuro deputato di Forza Italia e presidente della Regione
Sicilia, gia commercialista della famiglia Provenzano (l’altra,
quella dell’attuale numero uno di Cosa nostra).
L’acquisto della Banca Sicula da parte della Commerciale, come
altre operazioni simili realizzate con altri piccoli istituti di
credito del Sud, fu seguito con favore dalla Banca d’Italia, che
voleva favorire, più in generale, un’uscita indolore da situazioni
a rischio, oltre che d’infiltrazioni mafiose, anche di bancarotta
(per gestioni discutibili del credito, molto probabilmente dovute
anche alle pressioni criminali).
Prima dell’incorporazione, la Banca Sicula aveva realizzato un
aumento di capitale di 30 miliardi. Da dove erano arrivati? Chi
aveva finanziato la ricapitalizzazione? Le domande, riproposte nel
1998 da Vendola in un rapporto inviato alla Vigilanza della Banca
d’Italia, sembrano destinate a rimanere senza risposta, mentre i
fantasmi del passato sono sepolti per sempre sotto le autorevoli
insegne della Banca Commerciale. |
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Giuseppe
Provenzano, intanto, si e prudentemente dimesso da presidente
della Regione. Per lotte interne a Forza Italia, piu che per le
interminabili polemiche sui suoi rapporti con Provenzano (quell’altro).
Docente di tecnica bancaria all’università di Palermo, Giuseppe
Provenzano e un professore stimato e un professionista di
successo, tanto da aver ricevuto dalla Banca d’Italia l’incarico
di commissario straordinario della Banca Don Bosco di San Cataldo,
un piccolo istituto di credito siciliano usato da Cosa nostra per
riciclare denaro: l’intero consiglio d’amministrazione era finito
in carcere. Ma nel 1984 le parti si invertirono, fu Provenzano a
essere accusato di contiguità con la mafia: Giovanni Falcone lo
fece incarcerare come consulente finanziario della famiglia
Provenzano.
Ma non si trovarono le prove che la sua fosse una complicità
cosciente. Le accuse caddero e col tempo fu dimenticata anche la
macchia di aver avuto tra i suoi clienti una presenza
imbarazzante: la moglie di Bernardo Provenzano.
Di rapporti
con uomini della criminalità organizzata si e parlato anche a
proposito di due collaboratori di Berlusconi, Romano Comincioli e
Massimo Maria Berruti. Il primo, compagno di scuola e poi manager
e prestanome di Berlusconi, era in contatto con Gaspare Gambino,
imprenditore siciliano vicino a Pippo Calo, il cosiddetto cassiere
romano di Cosa nostra. Attraverso Comincioli, la Fininvest
realizzo affari con il faccendiere sardo Flavio Carboni. Cambiali
con girata di Comincioli passarono a uomini della Banda della
Magliana per poi finire nelle mani di Pippo Calo. |
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Berruti, ex
ufficiale della Guardia di finanza gia processato per corruzione
ancora prima di Mani pulite e poi prontamente arruolato nella
squadra Fininvest, e diventato avvocato del gruppo, per il quale
ha trattato, fra l’altro, l’acquisto del calciatore Gigi Lentini
(poi oggetto di un processo). Nel gennaio 19i94 Berlusconi gli
affido l’organizzazione della campagna elettorale di Forza Italia
a Sciacca e nella provincia d’Agrigento. Con buoni risultati, tra
i quali il coinvolgimento di Salvatore Bono (cognato del boss
dell’Agrigentino Salvatore Di Gangi) e di Salvatore Monteleone,
arrestato nel 1993 per concorso in associazione a delinquere di
stampo mafioso e appena uscito dal carcere diventato referente di
Forza Italia a Montevago. Per i suoi servizi, Berruti e stato
premiato con un posto in Parlamento.
Con il Berruti avvocato e poi politico, convive il Berruti uomo
d’affari: in Sicilia possedeva una società, la Xacplast, che un
rapporto dei carabinieri indicava come partecipata da uomini
d’onore delle famiglie mafiose di Sciacca.
Che
conclusioni (provvisorie) trarre, dalle storie di ordinaria
compromissione fin qui ricordate? L’interpretazione corrente
dentro Forza Italia e che le innumerevoli indagini contro
esponenti di quel partito siano, semplicemente, frutto di una
persecuzione: lotta politica per via giudiziaria; procuratori
della Repubblica e loro sostituti braccio armato della sinistra.
Le molte inchieste che prendono di mira personaggi interni o
vicini a Forza Italia sono spiegate con una pervicace volontà di
indebolire, fino a liquidare, una forza politica vissuta come
avversaria. Le motivazioni di tale avversità? La diversa
collocazione politica (a sinistra) di tanti magistrati,
specialmente d’accusa (apostrofati dunque toghe rosse o, con un
salto di livello, appartenenti a un circuito di Procure rosse); ma
i meno rozzi tra i sostenitori di Forza Italia tentano spiegazioni
che vorrebbero essere piu sofisticate, sostenendo che molti
magistrati si sentirebbero investiti di una sorta di missione
morale che li obbliga a scendere in guerra - una guerra mortale -
come esponenti del Bene contro il Male.
Nello scontro, psicologico prima che giudiziario, tra la Legge e
il Crimine, il sacro fuoco manicheo che li anima li induce a
individuare un Nemico da sconfiggere (Cosa nostra, ma anche Forza
Italia, per teorema nuovo referente della criminalità
organizzata). |
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Questa interpretazione e, a sua
volta, un teorema. Assume che i magistrati non badino tanto,
laicamente, ai fatti, alle prove, alle evidenze processuali,
quanto alla spinta religiosa (non a caso sono spesso apostrofati
come cattocomunisti) che li indurrebbe a condannare prima dei
fatti, ad avere certezze prima delle prove.
I più spregiudicati tra i nemici delle Procure, comunque, si sono
gia spinti oltre quest’orizzonte: elevando un vero e proprio
elogio dei mascalzoni. Da Giuliano Ferrara (Mi sono simpatiche le
carogne, sono più umane dei feroci moralisti) a Ruggero Guarini
(Adoro quel furfante dell’avvocato Previti). Fino a Sergio Romano,
citato dal Foglio, che riprende la settecentesca Favola delle api
di Bernard de Mandeville, in cui una città sregolata, corrotta e
criminale produce, alla faccia dei moralisti, ricchezza e
sviluppo.
Sulle singole vicende, le risposte sono piu puntuali. I piu
compromessi tra i personaggi qui ricordati (Mandara, Campesi,
Cilluffo, Tusa fra i minori; Mandalari, Ienna, tra i maggiori) non
sono difesi, anzi esponenti di rilievo del movimento berlusconiano
in Sicilia tendono da una parte a minimizzare il loro ruolo in
Forza Italia, dall’altra a sottolineare che il partito ha subito
la loro presenza, addirittura emarginandoli (Miccichè non volle
riconoscere i club fondati da Ienna e da Tusa; e impedì a
Mandalari di prendere la parola, il 16 marzo 1994, alla festa per
il successo elettorale di Forza Italia). |
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La difesa, stretta e totale, scatta
invece a proposito di personaggi come Musotto, Floresta, D’Ali,
Provenzano. Non vi sono evidenze penali nei loro confronti (o
almeno non sono ancora state accettate da un tribunale): dunque
sono da considerare - con un criterio pan-penale, giustizialista -
vittime di un attacco, di una persecuzione.
La sconvenienza politica di determinati comportamenti non e
rilevata, non e sentita l’inopportunità di fare politica avendo
avuto (o mantenendo) determinate relazioni o contiguità o
compromessi. Cosi si perpetua un costume della politica italiana
che e uno dei punti di forza della criminalità organizzata: la
tolleranza nei confronti di un’area grigia che nella politica e
negli affari può diventare, via via, inerte, contigua, complice.
Senza punti di riferimento fuori dalle organizzazioni criminali,
nella politica, negli affari, nella società civile - dunque senza
concorso esterno - le organizzazioni criminali sono semplici bande
di fuorilegge. Con quei punti di riferimento diventano
organizzazioni mafiose. |
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Anomale e isolate, invece,
apparivano le valutazioni di Cristina Matranga, che continuava a
difendere l’operato di Caselli e dei magistrati siciliani.
Matranga - fiera di essere stata eletta, con le sue dichiarazioni
pro-magistrati, in un collegio palermitano che comprende quartieri
a forte presenza mafiosa come l’Uditore, la Noce, la Zisa -
confermava di aver chiesto al suo partito un’operazione di igiene
politica: «Dobbiamo aprire un approfondito dibattito interno, non
pubblico, sulla nostra organizzazione. Non possiamo permetterci di
attaccare in maniera cosi violenta i magistrati che sono in
trincea contro la mafia. Sicuramente abbiamo commesso degli
errori: vi sono infiltrazioni dentro Forza Italia (come anche
dentro gli altri partiti: ma io sono di Forza Italia, e devo
considerare il mio partito)».
Matranga dichiarò, nel 1998: «Ora non mi sento piu isolata: prima
dell’estate ho incontrato Berlusconi e gli ho detto che mi pareva
di essere un pesce fuor d’acqua per gli argomenti che sostenevo.
Berlusconi mi ha risposto: “Li condivido e ti sono accanto”».
Ma evidentemente la sua lotta antimafia, alla fine, non è piaciuta
al partito: Silvio Berlusconi l'ha estromessa dalle liste
elettorali per le politiche del 2001, quelle liste in cui avevano
trovato posto invece Marcello Dell'Utri e Cesare Previti... |
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Anche
a Catania due esponenti di Forza Italia, l’avvocato Antonio
Fiumefreddo e l’eurodeputato Umberto Scapagnini, hanno lanciato
pressanti appelli alla pulizia interna al partito. Fiumefreddo,
avvocato ed ex responsabile provinciale di Forza Italia per gli
enti locali, invio anche alcune lettere a Micciché, denunciando
nomi, situazioni e fatti specifici, e chiedendogli un intervento
urgente contro le infiltrazioni mafiose nel partito2.
Le lettere a Micciché e tutto il materiale raccolto da Fiumefreddo
sono finiti anche a Palermo, sul tavolo di un magistrato della
procura. Isolato nel partito e rimasto senza alcuna risposta da
Micciché, Fiumefreddo nel maggio 1996 decise di dare e dimissioni
da Forza Italia. |
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Nella geografia politico-criminale
italiana, comunque, non c’e solo la Sicilia. Al di la dello
stretto, Amedeo Matacena junior, figlio del patriarca di Reggio
Calabria, il padrone dei traghetti Caronte che fanno la spola tra
Calabria e Sicilia, parlamentare di Forza Italia e condannato in
primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa:
riconosciuto colpevole, in buona sostanza, per essere diventato
negli ultimi anni il nuovo politico di riferimento della
‘Ndrangheta calabrese.
Dal suo seggio alla Camera, Matacena non aveva perso occasione per
scagliarsi contro il colonialismo giudiziario dei magistrati di
Reggio (in testa a tutti, il procuratore aggiunto Salvatore Boemi)
che per fare carriera hanno preso a perseguitare una schiera di
calabresi per bene.
Sul campo, Matacena e stato sostenuto da Giuseppe Aquila, ex
barista sui traghetti di famiglia, poi fulminato dalla passione
politica, sceso in campo con Forza Italia e dal 1997
vicepresidente della Provincia di Reggio Calabria. Il 1 settembre
1998 Aquila e stato arrestato, con l’accusa di concorso in
omicidio: nel 1991, nel corso della guerra di mafia a Reggio,
avrebbe sostenuto le famiglie di uno dei due fronti in lotta a
colpi di kalashnikov.
Escluso dalle liste elettorali delle politiche 2001, Matacena non
ha mancato di far arrivare a Berlusconi e Dell'Utri pesanti
avvertimenti. Chissà come andrà a finire... |
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Più d’una amministrazione locale
gestita da Forza Italia e dai suoi alleati è risultata a rischio
d’inquinamento mafioso. A Castel Volturno, per esempio, in
provincia di Caserta, terra di conquista del clan dei Casalesi di
Sandokan Schiavone, il 1 agosto 1998 piombo sul municipio il
fulmine di un decreto prefettizio che sospese sindaco e Consiglio
comunale per sospette infiltrazioni camorristiche. Primo cittadino
di Castel Volturno era Antonio Scalzone, di Forza Italia. Un paio
di settimane prima del decreto, una bomba incendiaria era piovuta
come un minaccioso avvertimento sulla saracinesca del negozio di
alimentari gestito dallau sorella del sindaco.
A inizio 1999 sono 18 i Comuni commissariati per inquinamento
mafioso (dieci in Campania, tre in Sicilia, cinque in Calabria).
Nella maggioranza dei casi, al momento dello scioglimento erano
retti da liste di destra o da liste civiche locali. |
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Ma le relazioni pericolose degli
uomini di Forza Italia non sono un’esclusiva della Sicilia o del
Sud. A Milano, il coordinatore provinciale dei club di Forza
Italia ha dovuto ammettere di essere amico di uno dei più temibili
boss della ‘Ndrangheta calabrese al Nord. Donato Giordano,
politico di lungo corso, e stato per anni il socialista più votato
alle elezioni amministrative di Bresso, paesone al confine nord di
Milano. Più volte assessore, vicesindaco di Bresso dal 1991 al
1994, dopo l’implosione del partito di Craxi si era trasferito
armi e bagagli nelle schiere di Berlusconi, che gli aveva affidato
l’incarico di responsabile della segreteria regionale di Forza
Italia e poi del coordinamento provinciale. Eletto consigliere
regionale nell’aprile 1995, il presidente della Regione Lombardia
Roberto Formigoni lo aveva chiamato a diventare assessore agli
Affari generali nella sua giunta.
Giordano nei primi anni Novanta ha dovuto spiegare al magistrato
antimafia Armando Spataro come mai fosse socio di un’azienda, la
Pie, di cui era socio anche Michele Lombardi, braccio destro del
boss della ‘Ndrangheta Pepe Flachi, anch’egli amico del futuro
assessore regionale. Ma si, si e difeso Giordano, Flachi io l’ho
conosciuto vent’anni fa in un bar di Affori e non sapevo che fosse
un delinquente. La mafia intacca la macchina amministrativa? Ma
via, non scherziamo... |
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tratto da:
http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/berlusconi/forzamafia.html |
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