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LA DONNA E IL FEMMINISMO

  

"Per molto tempo le donne sono state lasciate nell'ombra della storia. Poi hanno cominciato a uscirne, grazie anche allo sviluppo dell'antropologia, all' attenzione dedicata al tema della famiglia, all' affermarsi della storia delle "mentalità", che punta sul quotidiano, il privato, l'individuale. Soprattutto, è stato il movimento delle donne a portarle sul proscenio della storia, ponendo alcuni interrogativi sul loro passato e il loro futuro. E le donne hanno avviato, dentro e fuori l'università, la ricerca sulle loro antenate, per comprendere le radici del dominio subito e il significato dei rapporto tra i sessi attraverso il tempo e lo spazio".

 

 

 

      Indice

 

LA GRANDE GUERRA :

ETA' DELLA DONNA O TRIONFO DELLA DIFFERENZA SESSUALE?

 L’idea che la Grande Guerra abbia profondamente trasformato il rapporto tra i sessi, ed emancipato le donne in misura tanto maggiore dei precedenti anni di lotte, è assai diffusa durante e dopo il conflitto.

Cessato il clamore delle armi, si sono scritte decine di migliaia di opere nel tentativo di capire questo gigantesco evento che, a costo di tante sofferenze e di milioni di morti, ha segnato il passaggio dal XIX al XX secolo, dell’Europa e del mondo. Ma, nella maggior parte di questi scritti, le donne passano quasi senza lasciare traccia, se si escludono alcuni episodi nelle retrovie. Più recente, e più attenta ai fremiti che percorrono il territorio fuori dalla zona di combattimento, la storia sociale, che ha aperto tanti nuovi sentieri, non poteva ignorare la presenza delle donne, soprattutto delle lavoratrici nell’industria di guerra. Ma 1’impulso maggiore è venuto principalmente dagli interrogativi sollevati dal movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta. Cosa fanno, cosa diventano le donne dei paesi belligeranti? La guerra coinvolge in maniera diversa i due sessi? Questo trauma di lunga durata per gli uomini ha significato per le donne soltanto lutto, sofferenza e ansia materna? Questi erano interrogativi da cui emergeva una problematica sul ruolo svolto dalla guerra nel lungo percorso verso l’emancipazione femminile. Le prime risposte al problema sembrarono del tutto positive, quantomeno in riferimento alla condizione delle donne britanniche.

E infatti possibile immaginare una simile sovversione dell'ordine delle cose? Dimostrare che la guerra non è solamente qualcosa che riguarda gli uomini, significa scoprire le donne impegnate in responsabilità e mestieri nuovi , capifamiglia, fabbricanti di munizioni, guidatrici di tram o anche ausiliarie dell' esercito, significa vederle acquisire mobilità e fiducia in se stesse.

Gli storici degli anni Ottanta invece, contestano la tesi della guerra emancipatrice e evidenziano, con una rilettura critica delle fonti, il carattere provvisorio e superficiale dei mutamenti. La guerra: una parentesi prima di un ritorno alla normalità, un teatro di ombre in cui le donne solo apparentemente hanno assunto ruoli primari. Il 1914 avrebbe potuto essere l’anno delle donne, fu semplicemente l’anno della guerra che mette tutto al suo posto! Anzi, al contrario, la guerra avrebbe bloccato il movimento di emancipazione che andava prendendo forma in tutta Europa agli inizi del XX secolo, e che era rappresentato da una New Woman indipendente economicamente e sessualmente, restituendo così sicurezza all’identità maschile in crisi alla vigilia del conflitto,e rimettendo le donne al loro posto di madri prolifiche, di donne di casa.

 

La mascolinizzazione delle donne

Nel 1912, in un manuale di sessuologia, un rinomato medico tedesco attribuisce all’emancipazione femminile la causa di una loro "mascolinizzazione, implicante una degenerazione della fecondità e una perversione della sessualità. Vestite della tuta di operaio, le abbiamo viste nelle officine preparare le granate, fondere l'acciaio per i cannoni, fabbricare esplosivi. E in questa atmosfera di morte, tra questi duri lavori da uomo, così pesanti per le loro fragili braccia, esse hanno saputo restare donne e conservare intatta la propria grazia.

In generale, però, la stampa e la letteratura danno maggior spazio alle attività tradizionali della donna in tempo di guerra, con le figure dell'infermiera, della dama di beneficenza, o della madrina di guerra, che non ai mestieri maschili al femminile.

Ma la mobilitazione femminile non è della stessa natura di quella maschile. Una donna che lavora, è un uomo in più mandato al fronte. Secondo la testimonianza di Teresa Noce, le famiglie proletarie dell'ambiente politicizzato di Torino si accaniscono contro le operaie della Fiat.

The women’s age

Gli anni della guerra hanno costituito per le donne un' esperienza positiva, e persino un "happy time". Con sfumature diverse, molte fonti ci rimandano questa immagine. Indubbiamente la Grande Guerra è per gli uomini un lungo trauma, massacro di massa, caricatura mortificante dell’immagine della guerra virile e trionfale, negazione di tutti i valori della cultura occidentale. Immobili, sprofondati nel fango e nel sangue delle trincee, condannati ad aspettare il momento mortale dell’assalto o il tiro dei cannoni nemici, vittime talvolta di malattie femminili come l’isteria, i combattenti avvertono il senso di una regressione allo stato selvaggio e vivono la guerra come un’impotenza pubblica e privata. Quando essi correvano all' assalto del nemico, le donne aspettavano, religiosamente. Ora che, in loro assenza, esse accedono allo spazio e alle responsabilità pubbliche per far girare la macchina della guerra, hanno paura di essere spossessati o traditi. Simbolo di vita e di libertà, la donna, sua compagna e madre dei suoi figli, è per il soldato "l’immagine rovesciata della guerra", l’arcangelo che permette di pensare al futuro oltre l’orrore e il disordine presente, l'amata di cui egli continuamente parla ai propri camerati, l’oggetto dei suoi sogni. Ma può anche essere colei che dà "l’incubo dell’abbandono" e alimenta un continuo sospetto di infedeltà, colei che non si riesce a riconoscere durante i brevi congedi, perché, lontano dal fronte, la vita continua. Talvolta l'incomprensione porta a dolorose rotture. Mentre lo scrittore Roland Dorgeles arrancava in mezzo ai cadaveri, la sua amante ballava sino allo sfinimento...

Un’esperienza di libertà

È incontestabile che la guerra abbia costituito per le donne un’esperienza senza precedenti di libertà e responsabilità: in primo luogo, attraverso la valorizzazione del lavoro femminile a servizio della patria e l’aprirsi di nuove possibilità professionali, nelle quali hanno l’opportunità di scoprire, spesso con soddisfazione, come si utilizzino strumenti e tecniche nuovi. La guerra per necessità infrange le barriere che dividevano rigidamente i lavori maschili da quelli femminili, precludendo alle donne molte professioni di livello superiore. In Francia nel 1914 si annoveravano già alcune centinaia di donne medico, alcune decine di donne avvocato che hanno addirittura la possibilità di patrocinare cause al Consiglio di Guerra, e la maggior parte delle scuole di ingegneria e di commercio ammettono tra gli allievi delle giovani. Coperte di elogi e accolte a braccia aperte nelle scuole per ragazzi, le insegnanti godono di un migliore trattamento e la professione diventa a maggioranza femminile, a scapito degli insegnanti maschi che temono di essere estromessi; anima delle comunità rurali, esse spesso sostituiscono il sindaco assente. Ovunque le ragazze penetrano nei bastioni delle grandi scuole superiori, come la Sorbona o Oxford. Ovunque le mansioni affidate a donne (caffè, hotel, banche, commercio, uffici amministrativi) rendono le donne visibili nello spazio pubblico, facendo apprezzare, malgrado qualche brontolone, le loro qualità di onestà e di precisione. La maggior parte delle lavoratrici prendono coscienza delle proprie capacità e apprezzano la nuova indipendenza economica. Tanto più che il lavoro di guerra, in particolare nelle fabbriche di armi, è un lavoro ben pagato, il doppio, o anche di più, rispetto ai bassi salari solitamente corrisposti nei settori femminili.

Per le donne e le giovani del ceto medio o agiato, abituate alle opere caritative, la guerra rappresenta un periodo di intenso attivismo che altera la chiusura sociale, come pure la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi. La fine del busto, l'accorciarsi delle gonne, la semplificazione dell'abbigliamento liberano i corpi e rendono più sciolti i movimenti. Inoltre le ragazze non hanno più uno chaperon.

Le più grandi si impegnano come le loro madri nelle società della Croce Rossa o in altre organizzazioni di soccorso. Infermiere o ausiliarie che siano, scoprono, rapida iniziazione alle realtà della vita, il sesso maschile, la carne, le classi popolari e persino i popoli di colore. Sopraffatti dall’afflusso dei feriti, i servizi di sanità militare accolgono migliaia di volontarie, affidano loro la direzione di ospedali ausiliari o la guida delle ambulanze, le mandano persino al fronte.

Personificazione dello spirito di sacrificio, l'infermiera, angelo e madre, è il personaggio femminile più glorificato del tempo di guerra, tema prediletto dagli artisti di guerra cui piace molto l'immagine del velo svolazzante cui si affida il cieco. "La più grande Madre del Mondo" si legge in un manifesto americano della Croce Rossa, la cui iconografia – una gigantesca infermiera che culla un uomo miniatura immobilizzato su una barella – sembra piuttosto sottolineare un nuovo rapporto tra i sessi. I soldati, in maggioranza di estrazione popolare, mentre apprezzano la quiete dell' ospedale, si sentono contemporaneamente umiliati e ricondotti a una dimensione infantile da queste donne distaccate che li vedono nella loro fragilità e li curano come bambini, per rimandarli poi al fronte.

Al di là dell’ideologia del dopoguerra, fatta di ascetici combattenti e di spose-vedove fedeli, sappiamo assai poco sul privato della guerra. Sensibile è l’aumento del numero di illegittimi durante il conflitto o l’esplosione dei divorzi al ritorno dei combattenti. L’ossessione della morte altera i rapporti con l’altro, rende l'amore più esigente e insieme più futile, allenta la lunga ritualità del fidanzamento e forse contribuisce, come propone Michelle Perrot, "all’avvento della coppia moderna basata su un'esigenza di realizzazione personale e non più patrimoniale".

In Italia, l’esperienza femminile assume forme rivoluzionarie in quanto la guerra – l’Italia entra nel conflitto a fianco degli alleati nell’aprile 1915 – stravolge gli elementi tradizionali dell'identità femminile, il privato, la vita domestica, la riproduzione. E questo in un paese profondamente segnato dal codice mediterraneo dell' onore, dalla morale e dall'educazione cattolica. Si individuano queste trasformazioni nelle immagini fotografiche, dove, per la prima volta, si vedono donne inserite nel settore pubblico, impegnate prima in opere assistenziali, poi, progressivamente, sempre maggiormente coinvolte nella sfera produttiva, donne dallo sguardo franco, le mani operose, il portamento fiero e virile.

Il nucleo resistente della famiglia

Più che mai la sessualità femminile è circoscritta nell’antitesi madre o prostituta, e la famiglia è considerata la cellula fondamentale. Ma mentre da una parte, si ha la denuncia dell’immoralità femminile, dall’altra, l’organizzazione della prostituzione è vista come il necessario, se non meritato, riposo del guerriero.

Le prostitute sono schedate, sottoposte a continui controlli medici, ricoverate in ospedale. La prostituta clandestina è perseguitata, sospettata a volte di praticare lo spionaggio o la guerra batteriologica! Più della paura della tubercolosi, la paura della malattia venerea che distrugge la potenza degli eserciti e la forza della razza, ossessiona tutti e porta alla creazione di centri specializzati dove i soldati sono informati sui mezzi profilattici e controllati in modo sempre più sistematico. Eppure quante mogli contagiate dai mariti in licenza!

In Francia, dove la donna sposata è ancora in condizione di minorità giuridica, la legge del 3 luglio1915 le consente di esercitare la patria potestà e agire senza il consenso del marito, a condizione soltanto che la giustizia abbia accertato l’urgenza del caso e l’impossibilità del coniuge sotto le armi ad adempiere al proprio compito. In Inghilterra, la rapida diffusione della campagna a tutela della madre e del bambino, promossa nel decennio precedente, porta i suoi frutti: raddoppio dei centri di protezione materna e infantile.

IL RIFLUSSO DEL DOPOGUERRA

Quando, l’11 novembre 1918, risuonano le campane dell’armistizio, la guerra abbandona un’Europa esangue accanto a un’America trionfante, paesi vinti che presto saranno smembrati, stati vincitori ma traumatizzati, come la Francia, il Regno Unito, l’Italia. Per le donne è giunta l’ora di restituire il posto occupato. Accusate di essere delle profittatrici, delle incapaci, sono invitate a tornare in seno alla famiglia e a dedicarsi ai lavori femminili, in nome del diritto degli ex-combattenti, e della difesa della razza. Alcune resistono, altre accettano, logorate da anni di fatica e di solitudine, oppure prese dalla gioia di ritrovare i propri cari dopo tanto tempo. La smobilitazione femminile è ovunque rapida e brutale, in particolare per le operaie del settore bellico, le prime ad essere licenziate.

Ne deriva un’esaltazione della casalinga, promossa a "regina della casa", e, soprattutto una celebrazione della Madre, alla quale gli americani, ben presto seguiti dai canadesi e dai britannici, dedicano, a partire dal 1912, un Mother’s Day (la Giornata della Mamma). A partire dal 1918 la Francia rilancia quest'immagine in una prospettiva di incremento demografico e tenta di organizzare, cerimonie pubbliche in onore delle madri di famiglie numerose. In questo paese alle madri di 5, 8 o 10 figli viene conferita la Medaglia della Famiglia, creata come premio di prolificità agli inizi del 1920, e i padri ricevono uno dei tanti premi con cui la patria ricompensa "i propri grandi arditi del mondo moderno".

In altri paesi, le nuove leggi a protezione delle madri e dell’infanzia, rappresentano degli innegabili passi avanti anche se non tengono conto dei problemi specifici delle madri lavoratrici.

L'ORIGINE DELLA FESTA DELLA DONNA: UN FALSO STORICO

Alla Triangle Factory nel 1911 morirono 146 donne tra le fiamme.

"Quelle povere ragazze con i vestiti e i capelli in fiamme. 146 vite in mezz’ora. Non sarebbe mai dovuta accadere". Rose Freedman ha ricordato fino all’ultimo. Fino all’ultimo ha pianto la tragedia di cui era l’ultima sopravvissuta. È morta nel sonno pochi giorni fa.

Il 25 marzo avrebbe ricordato il novantesimo anniversario dell’incendio della fabbrica tessile di New York, tragedia per tanto tempo erroneamente ricordata l’8 marzo. Ma anche se questo luttuoso avvenimento merita di essere ricordato in occasione della festa della donna, non ne costituisce l’origine. La celebrazione, infatti, era stata introdotta l’anno prima della tragedia, all’Internazionale socialista di Copenaghen, senza però fissarne la data, che è invece legata alla rivolta delle donne di Pietrogrado nel 1917: per il calendario giuliano, allora vigente in Russia era il 23 febbraio, ma nel resto del mondo cadeva l’8 marzo.

IL PATRIARCATO FASCISTA: COME MUSSOLINI GOVERNÒ LE DONNE ITALIANE

La dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale. Il patriarcato fascista riteneva che uomini e donne fossero per natura diversi. Esso politicizzò pertanto tale differenza a vantaggio dei maschi e la sviluppò in un sistema particolarmente repressivo, inteso a definire i diritti delle donne come cittadine e a controllarne la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale.

La ridefinizione della politica sessuale

La politica sessuale fascista fu sotto molti aspetti la peculiare risposta italiana al collasso verificatosi durante la Grande Guerra. In pratica tutti i problemi erano connessi alla molteplicità dei ruoli che le donne svolgevano nella società: madri, mogli, cittadine, lavoratrici…

Nell’Italia fascista il regime affrontò il duplice problema dell’emancipazione femminile e della politica demografica in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione provocò nei confronti delle donne conseguenze immediate.

Lo Stato si proclamava l'unico arbitro della salute pubblica, e perciò le donne non avevano alcun potere di decisione riguardo alla procreazione dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile, prendendo personalmente la decisione di limitare le dimensioni della famiglia, fossero antagoniste dello Stato. Il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l'aborto, la vendita di contraccettivi e l'educazione sessuale.

Le donne erano escluse dalla maggior parte degli atti giuridici e commerciali in assenza del consenso dei propri mariti, dalla possibilità di agire come tutori nei confronti dei figli, e persino dai "consigli familiari".

Il 30% della forza lavoro industriale italiana era costituito all’epoca da donne. E tuttavia nessuna legge sul lavoro industriale fece parola del lavoro femminile fino all'approvazione nel 1902 della legge Carcano, la quale stabiliva per le donne e i minori una giornata lavorativa massima di dodici ore e vietava alle madri di tornare al lavoro prima che fosse trascorso un mese dal parto.

La politica riproduttiva

Nella sua ricerca di "nascite, ancora nascite", la dittatura oscillava tra riforme e repressione, tra l'incoraggiamento dell'iniziativa individuale e l’offerta di concreti incentivi statali.

L’ONMI, ossia l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, rappresenta meglio di qualsiasi altra iniziativa questo lato riformista. Esso si occupava principalmente delle donne e dei fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari. Altre riforme riguardarono le esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a carico, i congedi e le previdenze statali in caso di maternità, i prestiti concessi in occasione di nascite o matrimoni, nonché gli assegni familiari erogati ai lavoratori stipendiati e salariati.

Le misure repressive compresero invece il fatto di trattare l’aborto come un crimine contro lo Stato, la messa al bando del controllo delle nascite, la censura sull’educazione sessuale e una speciale imposta sui celibi. Si potrebbero includere inoltre gli avanzamenti di carriera previsti per i padri con famiglie numerose a carico, una misura che, considerati gli alti tassi di disoccupazione, si mostrò punitiva tanto verso le donne quanto verso gli uomini "morbosamente egoistici", cioè scapoli o sposati senza prole.

La politica demografica fascista sviluppò una doppia faccia. Da una parte fu energicamente normativa. Gli esperti consideravano le donne "mal preparate alla sacra e difficile missione della maternità, deboli o imperfette nell’apparato della generazione" e soggette pertanto a generare una prole "anormale". Per correggere questi vizi lo Stato fascista ambiva a modernizzare il parto e la cura dei figli. D’altra parte l’eugenetica fascista giustificava una politica di non intervento almeno riguardo ai cittadini più poveri. Se l’obbiettivo era di aumentare le nascite, le riforme sarebbero state non solo costose ma persino controproducenti. Un tenore di vita più alto avrebbe potuto spingere la famiglia di un impiegato ad avere un secondo figlio, considerazione che giustifica la sollecitudine con cui la dittatura trattò il ceto medio impiegatizio. Nelle famiglie contadine lo stesso miglioramento avrebbe solo incoraggiato aspettative eccessive, facendo assumere anche a loro la mentalità calcolatrice che induceva le famiglie urbane a limitare le nascite.

Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, volevano avere meno figli. Per raggiungere lo scopo le donne praticavano la pianificazione familiare come potevano, ricorrendo principalmente all' aborto. Nonostante i draconiani divieti quest'ultimo divenne alla fine degli anni ‘30 la forma di pianificazione familiare più diffusa. Dal momento che gli aborti erano tutti clandestini, sia che fossero praticati da medici "professionisti", sia dalla "comare" del quartiere, le donne correvano alti rischi d'infezioni invalidanti, di danni fisici permanenti e anche di morte.

La politica della famiglia

All’interno nella realtà famigliare veniva favorito il capofamiglia maschio; la moglie e i figli non sposati che vivevano in casa, pur lavorando, non avevano diritto agli assegni. Cosa peggiore di tutte, non si affrontava il problema principale e cioè il fatto che la sopravvivenza della famiglia dipendesse dal lavoro di parecchi membri, tra i quali c'era spesso anche la madre.

A dispetto dell’ideologia fascista la percentuale delle donne sposate che svolgevano un’attività lavorativa salì dal 12% del 1931 al 20,7% del 1936. Nell'Italia degli anni '30 esisteva una percentuale di lavoratrici più alta di qualsiasi altro paese europeo, ad eccezione della Svezia socialdemocratica.

Questa politica spingeva le donne italiane ad assumere nuovi ruoli all’interno della società. In teoria il fascismo le ricollocò nel focolare domestico, dove contribuivano al buon funzionamento della sfera privata generando figli e allevandoli.

Man mano che la dittatura assegnava un sempre maggiore peso alla famiglia e favoriva per quest'ultima nuovi modelli di gestione, essa costrinse le donne ad acquisire una maggiore consapevolezza della cosa pubblica. Cosa non meno importante, le donne dovevano preparare i fanciulli al doposcuola fascista e a trascorrere l’estate nelle colonie marine organizzate dal partito e dai comuni.

Per la realizzazione dei suoi programmi lo Stato assistenziale fascista dipese largamente dal volontariato femminile. Donne di ceto sociale elevato giunsero così a giocare un ruolo importante nella definizione delle nuove norme di condotta familiare e nell' aiutare le donne di condizione inferiore a farle proprie. I modelli familiari che esse trasmisero alle "massaie rurali" e alle donne della piccola borghesia e della classe operaia attraverso corsi per casalinghe, lezioni sull'allevamento dei figli e riunioni informali patrocinate dai gruppi femminili fascisti, erano permeati dai convenzionali concetti borghesi di rispettabilità e di amministrazione domestica "razionale".

Il risultato fu un’accresciuta consapevolezza della dipendenza della famiglia dai servizi dello Stato, e ciò favorì senza dubbio un certo senso di gratitudine nei confronti del regime. Ma la dipendenza induceva anche a rendersi conto dei conflitti fra interessi familiari e dovere patriottico. "Giudichi Lei, professore", disse un’operaia torinese protestando contro le campagne demografiche del regime, "è giusto, è umano che noi popolane abbiamo numerosi figli, destinati alla guerra quando saranno adulti? Ah, giammai! Noi vogliamo bene ai nostri figlioli, li alleviamo meglio che possiamo, coi nostri miseri mezzi, per noi, pel loro avvenire sempre migliore, ma non per la patria".

La politica del lavoro

Il fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione e del governo della casa. Non è da dimenticare però che anche le donne lavoravano: in seguito alla legge Sacchi del 1919 le donne vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali. Alla fine, il fascismo cercò di impedire alle donne di competere con gli uomini sul mercato del lavoro, con il pretesto di tutelare le madri lavoratrici. Ma lo scopo era anche un altro: evitare che le donne considerassero il lavoro retribuito come un trampolino verso l’emancipazione.

La legge fascista sul lavoro vietò gli scioperi e abbassò i salari femminili. Nel 1938 le lavoratrici avevano diritto ad un congedo di maternità della durata di due mesi coperti da un sussidio. Vennero inoltre rese più severe le norme che proibirono i lavori notturni a tutte le donne, e quelli pericolosi o nocivi alla salute alle ragazze di età inferiore ai 15-20 anni.

L’organizzazione politica

La mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’ inizio degli anni ’30, e il numero di iscritte ai fasci crebbe rapidamente. A differenza delle organizzazioni maschili, i gruppi femminili furono incapaci di dare voce ai problemi delle donne.

Alla guida dello Stato ci dovevano essere le razionali scienze maschili e non i sentimenti femminili, concetto a cui si opponevano le donne che pensavano di essere le uniche a possedere una sensibilità tale da penetrare i segreti dell’animo altrui e comprenderne i vari sentimenti.

In linea di massima, durante il fascismo, la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò all’emancipazione, ma a nuovi doveri nei confronti della famiglia e dello Stato, non all’autonomia ma ad obbedire a nuovi padroni.

Allo stesso modo il sistema fascista condizionò profondamente il modo in cui le donne immaginarono il proprio destino, espressero il proprio malcontento e videro le conseguenze delle loro proteste. Le donne italiane furono molto attive nella Resistenza, offrendo nascondiglio e assistenza ai partigiani, aiutando soldati, proteggendo ebrei…rischiando per questo arresti, processi e torture.

IL NAZISMO

Il movimento nazionalsocialista giunse al potere nel gennaio del 1933 con la nomina di Hitler come cancelliere, da parte del presidente del Reich.

Questo regime, si considerava esplicitamente maschile. L’emancipazione femminile veniva denunciata come un prodotto dell’influenza ebrea.

Le donne che si trovavano dalla parte "tedesca" della barriera razziale venivano considerate le "madri del popolo", mentre quelle che stavano dalla parte "straniera" erano donne "degenerate", paragonabili alle prostitute. Alcune donne avrebbero dovuto contribuire, in qualità di madri, alla rinascita nazionale e ad un incremento delle nascite dopo un lungo periodo di declino; altre venivano considerate indesiderabili, soprattutto come madri.

Hitler suddivise il sesso femminile in quattro categorie: c’erano le donne che dovevano essere incoraggiate ad avere figli, quelle i cui figli non erano sgraditi, quelle che sarebbe stato meglio se non ne avessero avuti affatto, e quelle alle quali si sarebbe dovuto impedire in ogni caso di avere figli, soprattutto per mezzo della sterilizzazione.

Dall’antinatalismo al genocidio: donne vittime del razzismo nazionalsocialista

Più di metà delle vittime del razzismo nazionalsocialista furono donne. Fu questo il caso anche della politica di controllo delle nascite gestita dallo stato, o antinatalismo, per mezzo della sterilizzazione obbligatoria di persone "di valore inferiore", effettuate per difetti emozionali o intellettuali (deficienza mentale vera o presunta, schizofrenia, epilessia e pazzia maniaco-depressiva) su ebrei, zingari, negri e altre razze straniere, indipendentemente dal sesso, allo scopo di "rigenerare la razza".

Molte donne, soprattutto quelle più giovani, tentarono di rimanere incinte prima dell’operazione, e le autorità considerarono questa forma di resistenza tanto importante da darle un nome particolare: "gravidanza di protesta". Essa fu stroncata quando la legge sulla sterilizzazione venne ampliata in una legge sull’aborto: allora anche gli aborti poterono essere imposti fino al sesto mese di gravidanza.

Nel 1935 la politica antinatalista fu integrata da divieti di contrarre matrimonio, che miravano, ancora una volta, a prevenire una discendenza indesiderata. Le leggi di Norimberga proibirono il matrimonio e il rapporto sessuale tra gli ebrei, gli zingari e i neri, minacciandoli di pesanti punizioni in caso di trasgressione.

Quando ciò non bastò, venne introdotta alla fine del 1941 la tecnica del gas: le prime camere a gas vennero usate principalmente per l’uccisione di donne e bambini. Le donne ebree venivano uccise come generatrici di figli e madri della generazione successiva del loro popolo.

Le donne tedesche attive nella politica razziale nazista rappresentavano una minoranza tra gli esecutori di tale politica. Le più attive tra loro, di solito, non erano sposate e non avevano figli, provenivano da tutte le classi sociali tranne le più elevate, e la loro partecipazione alla politica razzista era prevalentemente, come nel caso di molti uomini, in funzione del loro lavoro o della loro professione. Anche se la politica di sterilizzazione fu diretta interamente da uomini, alcune assistenti sociali e donne medici collaborarono alla selezione dei candidati. Le infermiere che si trovavano nei sei centri di "eutanasia" assistevano i dottori nella selezione e nella soppressione. Alcune universitarie studiarono gli zingari sotto la guida dei loro professori e gettarono le basi per la loro selezione e il loro sterminio; a tale scopo, esse si servirono della possibilità di avvicinarsi più facilmente, come donne, agli zingari e alla loro cultura. Le guardie femminili che sorvegliavano le donne nei campi di concentramento, provenivano soprattutto dalle classi subalterne e avevano scelto quel lavoro come volontarie, in vista di una possibile scalata sociale. Tra tutte le attiviste, erano le più vicine al centro delle operazioni di sterminio ed erano responsabili del loro funzionamento; è un grave errore credere che esse "non influenzarono il funzionamento dello Stato nazista". Ma molte altre lavorarono accanto agli uomini nella complessa burocrazia del genocidio, come segretarie negli uffici statali o del partito, registrando meticolosamente ciò che stava accadendo nel processo di definizione, segregazione, espropriazione e deportazione degli ebrei. Alcuni storici hanno sostenuto che la parte di colpa e di responsabilità delle donne per la malvagità nazista consistette nell’essersi adeguate al nazismo limitandosi ai ruoli di madri e di mogli.

L’occupazione femminile

Il regime nazionalsocialista non esclude le donne dal lavoro. Anzi, il numero delle donne impiegate aumentò sensibilmente durante il secolo nazista. Non solo erano donne nubili, ma anche sposate e con figli a carico.

Durante la II Guerra mondiale, 2,5 milioni di donne straniere furono portate a lavorare nell’industria e nell’agricoltura tedesche e sfruttate; la maggior parte di esse proveniva dall’Europa dell’Est.

Al contrario, i salari delle donne tedesche furono addirittura aumentati fino al livello di quelli maschili. Ciò potrebbe far credere che l’occupazione fosse l’obiettivo primario delle donne. Invece, molte fonti mostrano che, prima e ancor più durante la guerra, la maggior parte delle donne si impiegò non per emanciparsi o realizzarsi, ma esclusivamente per necessità finanziarie.

Il nazionalsocialismo era lungi dal considerare la maternità quale compito esclusivo di tutte le donne, come dimostra l’enorme propaganda antinatalistica menzionata in precedenza. Ma anche rispetto all’occupazione la maternità non era vista assolutamente come un limite. L’immagine nazista della donna era lontana dall’antiquato culto vittoriano della vera femminilità, e non si limitava al "ruolo biologico" delle donne, come avveniva invece nel fascismo. Al contrario, la donna nazista ideale doveva servire lo Stato prima di ogni altra cosa, nel lavoro come nella famiglia, in pace come in guerra.

Nella legge del 1942 lo Stato si assunse l’obbligo di mettere a disposizione asili nido e scuole materne per i bambini delle madri lavoratrici. Il congedo di maternità prima e dopo il parto si estendeva per dodici settimane ed era accompagnato da un sussidio pari all’ammontare dell’intero salario. Naturalmente la legge sulla protezione della maternità escludeva dai sussidi tutte le donne ebree ancora vive che erano state messe ai lavori forzati.

Politica familiare

La politica nazionalsocialista era piena di contraddizioni.

Era necessario limitare l’aborto, e perciò venne progettata una drastica legge antiaborto. ma durante il periodo nazista furono compiuti infiniti aborti accompagnati dalla sterilizzazione forzata.

Tra i mezzi repressivi volti a rifondare la famiglia, nei primi anni del regime fu condotta una feroce campagna contro le prostitute di strada. MA, dal 1939 in poi, la prostituzione venne incoraggiata; non nel suo esercizio libero, bensì nei bordelli per le forze militari, nei campi di concentramento e di lavoro.

Si perseguì l’incremento delle nascite attraverso la stabilizzazione della famiglia, non soltanto con i tradizionali mezzi repressivi, ma anche con nuove misure statali e assistenziali, che avrebbero dovuto aiutare coloro che desideravano avere figli. Furono così introdotti i prestiti matrimoniali per i mariti, e benefici alle mogli che lavoravano. Fu inoltre creato un organismo assistenziale del Partito (NSV) che comprendeva una sezione di "madri e figli".

Nel 1938 una nuova legge permise il divorzio su richiesta, nel caso di una "malattia ereditaria" di un partner, della sua sterilizzazione o infertilità, con gravi conseguenze per le mogli, specialmente le più anziane, provocando le proteste delle donne.

Le organizzazioni nazionalsocialiste delle donne

L’NSF e la DFW sono solo due esempi delle organizzazioni in cui le donne naziste si riunirono, ricevendo insegnamenti da un personale docente su questioni di salute, sulle abitudini casalinghe, sul cucito, sulla cura e sull’educazione dei figli, sul folklore tedesco…

IL FEMMINISMO IN EUROPA

Il femminismo afferma che le donne sono prima di tutto esseri umani e in quanto tali meritano di essere trattate con giustizia. Sebbene il contenuto dell’idea di giustizia per le donne si sia modificato nel corso dei secoli, le femministe di ogni tempo sono unite dalla convinzione che le donne sono oppresse e che a tale oppressione è necessario e possibile porre fine. Per portare avanti le rivendicazioni delle donne, le femministe hanno dovuto rifiutare molte delle più antiche e sacre tradizioni d’Europa, suscitando così una notevole opposizione e ostilità.

Rivendicare giustizia e umanità per le donne ha significato dire no a molte cose, da certi capisaldi culturali ai comportamenti che si adottano ogni giorno senza riflettere. Considerato che le antiche tradizioni europee imponevano alle donne di obbedire e di sottomettersi agli uomini, le definivano soltanto a partire dal loro rapporto con gli uomini, le svalutavano e prendevano l’uomo come unico metro di misura, l’unico modo valido che le donne avevano per ottenere il pieno riconoscimento della loro umanità è stato rifiutare tali tradizioni. In ultima analisi, vedere se stesse come dipendenti, subalterne e inferiori all’uomo e al tempo stesso come esseri umani a pieno titolo è impossibile. Le femministe rifiutano da sempre il presupposto dell’inferiorità della donna. Esse hanno affermato che quella che può apparire come inferiorità, è in effetti soltanto la disuguaglianza creata da secoli di dominio maschile. Oltre a rifiutare le tradizioni che subordinano la donna e la svalutano, le femministe hanno anche creato nuove concezioni della società non soltanto per le donne ma per tutto il genere umano.

Agendo all’interno di una famiglia e di un mondo dominati dal maschio, le donne europee hanno appreso l’arte della manipolazione, dell’adattamento e della sopportazione.

Le femministe europee hanno rivendicato il diritto di decidere del proprio destino, rifiutando il ripetuto luogo comune della donna "o buona madre di famiglia o prostituta". Esse inoltre criticano il trattamento riservato dagli uomini alle donne durante il corteggiamento e il matrimonio, delineando i tipi di uomo che maggiormente le opprimono: il seduttore, il prepotente, il manesco, il taccagno, il bellimbusto.

Fra il 1875 e il 1925 i movimenti per la parità dei diritti conservano gran parte dei loro obiettivi. Nel XX secolo si giunge a rivendicare pari opportunità fra uomini e donne nella scelta dell’impiego, nell’accesso alla formazione professionale e nelle possibilità di carriera. Attraverso i sindacati, i partiti socialisti e le stesse organizzazioni femminili, queste donne hanno allargato la gamma delle rivendicazioni femministe al mondo del lavoro femminile.

Gli anni che separano le due guerre mondiali costituiscono un periodo di stasi del femminismo europeo. Sia nei paesi capitalisti che in quelli socialisti, le femministe, sentendosi dire che hanno ormai conquistato tutto quanto è necessario all'uguaglianza, smettono di dedicare la loro attività politica principalmente ai movimenti delle donne. L'interesse per il femminismo rinasce verso la fine degli anni sessanta sotto forma di movimento per la liberazione della donna. Quest'ultimo non si limita a richiamare in vita i vecchi sogni di uguaglianza politica ed economica, ma va oltre, proponendo la trasformazione radicale delle istituzioni fondamentali della società. Le nuove femministe pongono la donna al centro di tutto, rifiutando la vecchia tradizione che voleva l'uomo come misura di tutte le cose. Ridefiniscono la vita della donna in termini individualistici, non più in rapporto all'uomo e alla famiglia. Insistono perché i vecchi tabù vengano messi in discussione e smitizzati. In epoche precedenti, le donne che sollevavano questioni relative alla sessualità e alla procreazione erano condannate all'ostracismo; il loro comportamento e le loro richieste minavano le premesse fondamentali della supremazia maschile. Ma nell'ultimo quarto del ventesimo secolo le femministe europee superano questi pregiudizi. Decine di migliaia di donne si organizzano per conquistare la riforma delle leggi concernenti il divorzio, il diritto al controllo delle nascite, all'aborto, alla libertà dalle molestie sessuali. Il movimento di liberazione della donna rivendica nuovi diritti per donne un tempo considerate fuori casta, come le vittime di violenza le prostitute, le madri nubili, le lesbiche.

Nell’agosto del 1988 il potente partito socialdemocratico tedesco ha stabilito una norma che le femministe ricorderanno a lungo come una loro vittoria. Nell’SPD, questa è la sigla del partito, ben il 40% degli incarichi deve essere riservato a tutti i livelli alle donne.

Appena dieci o vent'anni fa una regola del genere sarebbe stata impossibile. Perfino al voto le donne sono arrivate dopo, rispetto agli uomini In Italia solo a fascismo caduto, nel 1946.

In altre parole: prima si sviluppa un movimento per garantire alla donna diritti identici a quelli dell’ uomo: diritto di voto, all’ istruzione, diritto alle libere professioni,diritto di gestire la propria sessualità, ecc… Poi il femminismo fa un passo in avanti: vuole trasformare la società in modo tale che non esista più nessuna differenza fra maschio e femmina nella vita familiare, sociale e politica.

In politica molte cose sono cambiate rapidamente e in meglio: in Inghilterra Margaret Thatcher fu per molti anni Premier; il Presidente della Camera italiana è stata Irene Pivetti; donne sono anche la Presidente dell’Islanda, e il primo Ministro norvegese.


BIBLIOGRAFIA

Georges Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne nel Novecento, Editori Laterza, Bari 1991

Alberto Sensini, Verso una nuova repubblica. Dizionario di Educazione Civica, Armando Editore, Roma 1995

Anderson e Zinsser, Le donne in Europa, Nella città moderna, Editori Laterza, Bari 1993

Luca Franceschi, articolo da La Stampa, Torino 8 Marzo 2001

 

 

tratto da:

http://utenti.lycos.it/storiaedintorni/

copyright by Erica Ferrero,Liceo Cattaneo, Torino 2001

 

 

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Ultimo aggiornamento:

 29 ottobre 2006