E questa volta
San Lupo assurse a ruolo di protagonista. Doveva partire proprio
da questo minuscolo centro del beneventano la scintilla
rivoluzionaria che avrebbe dovuto infiammare prima il Meridione e
poi l'Italia intera. Questo il sogno degli Internazionalisti
Anarchici [Banda
Anarchica del Matese 1877],
seguaci delle teorie del russo Bakunin. La mattina del 3
Aprile 1877
Carlo Cafiero,
Errico Malatesta e una "bionda signorina dagli occhi
verdi" giunsero a San Lupo, alla
Taverna Jacobelli, dicendo di essere inglesi. Fecero
scaricare dalla carrozza parecchie casse pesanti e dopo un giro
d'ispezione presero la strada del ritorno verso Napoli. La Taverna
era di proprietà del Cavaliere Achille Jacobelli,
personaggio di spicco dell'epoca, conosciuto in tutto il
circondario. Nominato Maggiore della Guardia Nazionale nel 1848,
ebbe incarichi di grande prestigio e percorse le varie tappe di
una brillante carriera. Fu sollevato da ogni responsabilità
nell'Agosto del 1861, dopo i sanguinosi fatti di Pontelandolfo e
Casalduni. "Uomo risoluto e intraprendente", "amante di
predominio", "Cavaliere di tutte le bandiere": questi
alcuni giudizi espressi da studiosi che si sono occupati di lui.
Era nelle grazie di re Ferdinando II che, pare, lo onorasse
di una visita a San Lupo il 9 Febbraio 1852. Errico Malatesta,
uno dei cospiratori responsabile dell'azione, era stato, a Napoli,
compagno di studi del notaio De Giorgio, sindaco di San
Lupo e amministratore dei beni della famiglia Jacobelli.
Conosceva bene i luoghi e la disponibilità della gente, già
dimostrata negli anni del brigantaggio, all'insurrezione. La sera
del 5 Aprile arrivarono altre casse di equipaggiamento ed altri
Internazionalisti fra cui Cesare Ceccarelli, Antonio
Cornacchia e
Napoleone Papini. Malatesta aveva affidato l'incarico
di assicurare l'appoggio dei contadini del posto ad un certo
Salvatore Farina, ex garibaldino e sperimentato cacciatore di
briganti nella zona del Matese. Conosceva i luoghi e la gente. Ma
il Farina, più avido di denari che interessato all'emancipazione
del proletariato, vendette le informazioni ai carabinieri e sparì.
E la notte fra il 7 e l'8 Aprile 1877 gli Internazionalisti,
sorpresi dai carabinieri appostati non molto lontano, sotto un
ponte, per un errore di valutazione, furono costretti a scappare
lungo i fianchi del monte dopo aver caricato i bagagli su tre
muli. Cafiero, Malatesta e gli altri camminarono
tutta la notte per arrivare la mattina dell'8 Aprile nel comune di
Letino, sul massiccio del Matese. Qui attuarono il piano previsto
per San Lupo: Vittorio Emanuele fu dichiarato decaduto, il
popolo fu proclamato sovrano e gli archivi municipali che
custodivano i registri dei debiti dei contadini furono bruciati.
Ma la fiammella dell'insurrezione rimase tale, non diventò un
incendio! L'intervento dell'esercito in maniera massiccia e
decisa, la precarietà dell'organizzazione e le difficoltà
logistiche su un territorio ancora innevato, malgrado fosse
Aprile, ebbero ragione anche di quest'altra forma di ribellione.
Nel giro di pochi giorni tutti i componenti la banda di San Lupo
furono arrestati e con essi fu imprigionato anche quell'atto di
provocazione mai raccolto. Da questo momento la storia di San Lupo
é storia nazionale, cosicché qualche episodio, seppure di rilievo,
accaduto, appartiene più alla cronaca che alla storia.
GLI
ANARCHICI E LA QUESTIONE
MERIDIONALE 1876/77
Nell'inverno
1876/77, maturò un nuovo grande progetto insurrezionale. L'idea di
una nuova iniziativa insurrezionale era nata fra gli uomini
dell'Internazionale presso il Congresso di Berna. In quell'occasione,
Cafiero e Malatesta avevano solennemente e
pubblicamente dichiarato che: la Federazione italiana crede che il
fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il
principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed
il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, possa
penetrare nei più profondi strati sociali ed attrarre le forze
vive dell'umanità nella lotta che l'Internazionale sostiene". In
questa breve dichiarazione era in effetti teorizzata la cosiddetta
"propaganda del fatto", cioè una tecnica che si proponeva di
diffondere i principi anarchici non solo attraverso la stampa e la
predicazione o il proselitismo spicciolo, ma anche e soprattutto
grazie a gesti clamorosi, che per la loro gravità o drammaticità,
avessero ripercussioni nell'opinione pubblica attraverso la grande
stampa d'informazione e i dibattiti parlamentari, attirassero
l'attenzione del grosso pubblico verso gli uomini e le idee
dell'Internazionale e svegliassero dal torpore le masse popolari.
Questa idea o propaganda a mezzo del fatto, era già apparsa nel
Risorgimento italiano, grazie a Mazzini e a Pisacane.
Carlo Pisacane
(Napoli 1818 - Sapri 1857) - un giacobino, un socialista, un
rivoluzionario, per taluni aspetti un anarchico. Vuole la libertà
concreta ed effettiva, dove a ciascuno sono assicurati i mezzi per
la sussistenza. La libertà può essere solo socialista e può
ottenersi solo con il socialismo. Sostanzialmente, si rivolge
soprattutto a Proudhon, nel suo rifiuto dell'autoritarismo
e della proprietà privata e nella sua costruzione di una società
fondata sull'associazionismo e sulla libertà. Il socialismo di
Pisacane è rivoluzionario, non solo, è anarchico. Si dichiara
ripetutamente contro il principio di autorità, contro il governo;
esige l'abolizione di ogni scala gerarchica fra gli individui,
l'eliminazione di ogni diseguaglianza. Il principio di autorità
deve essere distrutto, con tutte le sue derivazioni. L'unica
prospettiva per il futuro è l'anarchia, e l'umanità troverà in
essa la soluzione dei propri problemi, la libertà, il benessere.
Viene spontaneo il collegamento fra Pisacane e Bakunin, di
cui il primo può considerarsi un precursore. Per Pisacane, come
per Bakunin, non è il popolo "più dotto ed incivilito" ma quello
più oppresso che darà il segnale della battaglia, e quindi della
rivoluzione: cioè l'arretrata popolazione italiana e, in essa, i
contadini poverissimi, specie quelli dell'Italia meridionale.
Il terreno
prescelto fu non la città ma la campagna e, in tal modo, entrava
un elemento nuovo nel piano degli anarchici: i contadini.
Pietro Cesare Ciccarelli, uno dei massimi internazionalisti
italiani, scriveva ad Amilcare Cipriani: contro i contadini
o anche senza i contadini, è possibile un cambiamento politico, ma
non la rivoluzione sociale, massime in un paese come l'Italia, in
cui l'elemento rurale è in grande maggioranza, ed in cui non
esistono ancora che allo stato d'eccezione la grande industria e
le grandi agglomerazioni operaie. Il tempo delle Jaqueries non è
finito: invece è ora che cominci il tempo della grande Jaquerie
dell'epoca moderna, jaquerie che questa volta sarà feconda di
risultati perchè il socialismo è venuto a dare coscienza e lumi a
questi grandi scoppi dell'ira popolare. Bakunin aveva messo in
guardia i suoi amici italiani dall'errore di trascurare l'apporto
determinante delle masse contadine, soprattutto meridionali, alla
auspicata rivoluzione sociale. C'era poi nella recente storia del
mezzogiorno il lungo e sanguinoso episodio del brigantaggio a
segnalare quale profonda frattura esistesse ancora fra le plebi
delle campagne meridionali e il nuovo stato unitario. Infatti,
l'unificazione, anzichè alleviare la miseria e la servitù delle
masse rurali meridionali, l'aveva appesantita ulteriormente con
nuovo gravami, dalla tassa sul macinato alla leva militare, dalla
meccanica estensione di inadeguati ordinamenti amministrativi alla
calata dal nord di grossi sciami di funzionari, talvolta voraci o
spietati. Del malcontento dei contadini, di cui certo non si
facevano interpreti gli uomini della destra nè tantomeno quelli
della sinistra, e neppure i seguaci di Mazzini, e che quindi
esplodeva spesso in tumulti incoscienti e disordinati nei quali la
reazione tentava di inserirsi, di questo malcontento gli anarchici
italiani intendevano farsi portavoce con la loro nuova mossa
insurrezionale. Non a caso, come zona d'operazione, fu scelto il
massiccio del Matese, dove i più pericolosi capibanda del
brigantaggio meridionale avevano dato, per anni, filo da torcere
alle truppe governative e dove più vivo che altrove era il
distacco e il risentimento delle popolazioni locali contro il
governo di Roma. Fu il russo Sergio Kravcinskij ad
addestrare gli uomini che avrebbero partecipato all'impresa. Fra
essi, studenti, calzolai, muratori, sarti, provenienti da ogni
dove, ma, soprattutto, Cafiero e Malatesta. Il momento
dell'operazione era stato stabilito per la primavera del 1877.
Tuttavia, grazie all'opera di un delatore, Salvatore Farina,
la polizia era da tempo al corrente di tutto e lasciava fare, col
proposito di sorprendere la banda al completo a San Lupo. Il
ministro degli Interni Nicotera, al prefetto di Napoli, nel
marzo 1877: "lasciare che il movimento si sviluppi senza alcuna
difficoltà fino al momento dell'azione e intervenire solo un
momento prima di questa, non solo per cogliere in flagranza di
reato i cospiratori, ma soprattutto per colpirne il massimo numero
e imbastire una speculazione politica sulla vicenda, a onore del
governo e della abile quanto sollecita organizzazione di polizia".
La prima operazione progettata dalla banda avrebbe dovuto
svilupparsi proprio a San Lupo, ma l'intervento impulsivo ed
imprudente dei carabinieri, costrinse i cospiratori a cambiare
obbiettivo. La banda, capeggiata da Cafiero e Malatesta, si
spostò, quindi, verso Letino, paese non ancora presidiato dalla
forza pubblica. Letino fu, dunque, la prima sede dell'esperimento
rivoluzionario ed entrò così nella storia dell'anarchismo. Il
mattino dell'8 aprile, la banda entrò nel paese dispiegando una
grande bandiera rossonera, indi si diresse verso il municipio. Qui
era riunito il Consiglio comunale. Gli anarchici staccarono
immediatamente il ritratto del re Vittorio Emanuele II dal
muro, poi proclamarono decaduta la monarchia e la dinastia
sabauda. Quindi passarono ad incendiare l'archivio comunale e in
particolare i titoli di proprietà e i registri delle tasse. Il
grande falò fu acceso sulla pubblica piazza nell'entusiasmo
popolare. Cafiero, passò, poi, ad arringare la folla in dialetto:
"non più soldati nè prefetti, non più proprietari. Non più
servi nè padroni. Le terre in comune, il potere a tutti!". I
contadini accolsero con grande entusiasmo le sue parole. Gli
italiani erano arrivati con i codici, le tasse, la leva militare
il macinato. Ora era arrivata l'Internazionale ed era la fine di
tutti quei malanni e di tutti i guai! "Noi qui sottoscritti
dichiariamo di aver occupato il municipio di Letino armata mano in
nome della Rivoluzione Sociale, oggi 8 aprile 1877. Carlo Cafiero,
Errico Malatesta, Pietro Cesare Ceccarelli", ecco la
dichiarazione lasciata al segretario comunale. Da Letino, la banda
si spostò dirigendosi verso il paese di Gallo, ove si ripeterono
le stesse scene. Tuttavia, le truppe regie stringevano d'assedio
tutto il massiccio del Matese. Dopo giorni di accerchiamenti e
tentativi vani di fuga, il giorno 12, un reparto di bersaglieri e
di artiglieri, sorprese la banda e ne catturò quasi tutti i
componenti. Dopo la cattura della banda del Matese, ovunque si
scatenò la "caccia all'internazionalista". La polizia perse
completamente il controllo, compiendo ingiustificati arresti di
massa, perquisizioni immotivate, sequestri, e i prefetti di varie
città, decretarono lo scioglimento di tutte le sezioni
internazionaliste. Il ministro Nicotera, rispondendo alle proteste
in Parlamento dei deputati Cavallotti, Bovio e
Bertani, definiva gli internazionalisti gente perduta che
estorce alla povera gente qualche lira al mese per alimentare i
propri vizi, si trincera nel segreto di stato per giustificare il
proprio comportamento. Andrea Costa scriveva :"gli
avvenimenti del beneventano hanno dato al governo il pretesto per
sciogliere l'Internazionale. Dappertutto, dove i socialisti sono
numerosi, vi è lo stato d'assedio, ammonizioni, arresti e condanne
a domicilio coatto". Sciolta ufficialmente, l'Internazionale
si ricostituì in segreto. Firenze ne fu la capitale. Qui si
moltiplicarono manifestazioni di massa, tumulti, scontri con la
polizia e con la malavita locale. La polizia riuscì, così, a
trovare il pretesto per effettuare un vero e proprio arresto di
massa, che coinvolse, fra gli altri, Anna Kuliscioff,
appena giunta in città. Contro tutti gli arrestati venne imbastito
un processo per cospirazione contro la sicurezza interna dello
stato, sotto l'imputazione di aver preordinato un movimento
rivoluzionario volto a distruggere lo stato e rovesciare il
governo attuale per sostituirvi l'anarchia e giungere al
comunismo.
tratto da:
http://www.geocities.com/emayit/anarchismo/
IL SOGNO DI UNA
REPUBBLICA ANARCHICA
Il Matese, ed
in particolare i comuni di Letino e Gallo Matese, vengono scelti
come teatro di un tentativo, disperato ma generoso, di cambiare lo
stato postunitario, per molti versi incapace, presente spesso solo
con burocrati e militari. Certamente inequo nella sua politica
sociale ed economica. L'obbiettivo era quello di sfruttare
l'ondata di malcontento che regnava nella classe contadina.
Eppure, proprio i contadini, coloro che avrebbe dovuto costituire
lo zoccolo duro della rivolta, tradirono le aspettative dei leader
anarchici. "Diversamente dai lavoratori dei campi della Spagna
meridionale - scrive Woodcock - quelli dell'Italia meridionale si
rivelarono refrattari al messianismo libertario, e in Italia
l'anarchismo doveva rimanere un movimento limitato quasi
esclusivamente alle città "minori". Il fallimento dell'impresa nel
Matese ne fu l'esempio lampante. Il Matese è una regione tra
Campania e Molise, dove nel recente passato il brigantaggio aveva
spadroneggiato, creando seri problemi al Regno da poco nato. Una
zona, ritenevano gli anarchici, adatta alla guerriglia. Da qui -
nel cuore del Mezzogiorno, i leader anarchici - Carlo Cafiero,
ed Enrico Malatesta e Ceccarelli ritennero di far
scoccare la scintilla della rivoluzione. Nella primavera del 1877,
essi ritennero che fosse venuto il momento giusto: non pensavano
ad un'insurrezione generale, bensì ad un'azione di vera e propria
guerriglia. Lo scopo era quello di occupare, con pochi uomini, una
zona simbolicamente importante perché inespugnabile, e da lì
incitare all'azione chi agognava alla libertà. Oggi si può dire
che l'ingenuità del piano era pari solo all'entusiasmo dei suoi
organizzatori. L'operazione sarebbe dovuta scoccare a marzo, ma la
neve ancora presente nel Matese fece rallentare i piani degli
anarchici (e permise al ministero degli Interni, debitamente
informato, di studiare delle contromosse). Il luogo dell'incontro
dei cospiratori doveva essere San Lupo, un piccolo paesello.
Invece che cento - come preventivato - se ne presentarono solo
ventisei. Si decise di continuare comunque e il piccolo gruppo di
uomini cominciò a marciare, naturalmente ognuno con la sua bella
sciarpa rossa in evidenza. Le guide non si presentarono, i viveri
non giunsero a destinazione. La leggenda dice che i rivoluzionari
avessero deciso di passare agli espropri, ma quando - alla prima
pecora sequestrata - il piccolo pastore, tale Purchia,
cominciò a piangere, la restituirono. Dopo tre giorni di marcia,
la banda giunse a Letino, occupò il Municipio, proclamarono la
decadenza della monarchia (solo dopo aver staccato dal muro,
ovviamente, il ritratto del re Vittorio Emanuele), fecero un falò
con le carte comunali e catastali. Subito dopo in una piazza ormai
affollata di gente, il capo della rivolta (Carlo Cafiero), prese
la parola e spiegò il programma del movimento internazionalista e
il suo scopo: la rivoluzione sociale al fine di abbattere ogni
vincolo giuridico e di proprietà; invitò dunque i cittadini a
riprendersi la terra che, essendo un bene comune come l'aria e
l'acqua, non dovevano diventare proprietà privata. Insomma il
programma poteva considerarsi in poche parole: non più soldati,
non più prefetti, non più proprietari, nè servi nè padroni; la
terra in comune, il potere a tutti. A questo punto le
testimonianze parlano di una donna che fattasi avanti, avrebbe
esortato i rivoluzionari a compiere l'opera iniziata e cioè a
prendere le terre e a distribuirle, ma Cafiero rifiutò decisamente
sia perchè il gruppo doveva andare in altri paesi a portare la
scintilla della rivoluzione, sia soprattutto, perchè i contadini
dovevano imparare a far da soli, sfruttando le loro forze. "I
fucili e le scuri ve li aviamo dati, i coltelli li avite - se
vulite facite e si non vi futtite". La folla era ormai conquistata
ed entusiasta, tanto che persino il parroco Raffaele Fortini,
inneggiò alla rivoluzione e spiegò ai contadini che vangelo e
socialismo era la stessa cosa e che gli internazionalisti erano
gli apostoli della parola del signore. Era sincero convincimento
il suo, o semplice opportunismo? difficile a dirsi, certo anche
grazie al suo intervento i rivoluzionari erano ormai padroni del
campo; si fecero poi guidare al mulino dove misero fuori uso i
contatori che registravano i giri della macina e quindi
stabilivano l'importo della odiatissima tassa sul macinato che
tutti dovevano pagare. Alla fine i rivoluzionari sempre guidati da
Cafiero e Malatesta, lasciarono il paese tra gli applausi dei
contadini diretti verso Gallo. Qui furono ripetuti gli stessi atti
compiuti a Letino tra un analogo entusiasmo da parte dei contadini
e del parroco Vincenzo Tamburri. Intanto si stava
organizzando la reazione del governo che, a detta di alcuni
storici era già informato da tempo del progetto di rivoluzione
sociale preparato dagli internazionalisti. Pare infatti che la
persona scelta come guida perchè a conoscenza dei luoghi inpervi
del Matese, tale Farina di Maddaloni, aveva tradito
rivelando tutto al ministro degli interni Nicotera, ex
Mazziniano come lui. Dopo gli eventi di Letino e Gallo, la banda
vagò per tre giorni sui monti del Matese, sorpresa dal freddo e
dalla neve, senza guide ne carte, nè viveri, con i paesi resi
ormai inaccessibili dall'arrivo dei soldati e con tutte le vie di
fuga, sia verso Isernia che verso Piedimonte Matese e Benevento
sbarrate dall'esercito (circa 12.000 uomini) che avevano ormai
circondato tutto il territorio. La mattina dell'11 aprile un
contingente di bersaglieri, localizza la banda in una masseria
alla contrada Rava della Noce quindi arrestò i rivoluzionari. Con
questo episodio si chiude definitivamente l'esperienza della
"rivoluzione sociale". L'arretratezza culturale, la povertà
economica, l'ingiustizia sociale, sono entità traghettate fino ai
nostri tempi. Delle idee liberatorie, dell'anarchia del socialismo
e dei metodi insurrezionali fondati sul coinvolgimento delle masse
non n'è resta traccia alcuna. Resta il rammarico è il malcontento
di una condizione di vita disagiata e miserevole.
da:
http://www.gallomatese.com
La guerriglia
insurrezionale come "propaganda del fatto" nell'Italia del
secolo scorso
di R.
Brusio
La storia
dell'anarchismo italiano nella seconda metà dell'800, all'epoca
del suo formarsi come movimento organizzato di uomini e di idee, è
anche la storia di tutta una serie di tentativi insurrezionali
("congiure", come erano chiamate) che, se da un lato vennero
sfruttati dai governi per dar credito alla solita immagine
dell'anarchico bandito e mestatore, dall'altro contribuirono non
poco, con la loro risonanza, alla conoscenza e alla diffusione
delle idee libertarie. Furono tentativi falliti, bisogna
riconoscerlo, spesso condotti in modo un po' dilettantesco. Ma
sarebbe ingeneroso darne la colpa agli uomini perché essa, più che
altro, era dei tempi. La fiducia nell'atto insurrezionale come
strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse un
pugno di coraggiosi per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica
di tutto l'ottocento genericamente progressista ed in particolare
"risorgimentale". Gli anarchici non ebbero certo l'esclusiva di
queste congiure. Prima di essi vi si erano dedicati i carbonari, i
mazziniani, gente da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la storiografia
ufficiale si sente in dovere di tributare ben altro rispetto che a
Cafiero, a Bakunin o a Malatesta. Eppure, a differenza dei loro
più quotati "colleghi" (si fa per dire), gli anarchici non ebbero
mai la pretesa di impadronirsi del potere, di imporre, armi alla
mano, un nuovo status quo reputato migliore del precedente.
Più semplicemente, con maggiore onestà e senso delle proporzioni,
essi intendevano fare delle azioni esemplari, gesti clamorosi
capaci di svegliare la coscienza delle masse sfruttate, di
additare ad esse la via da seguire e i nemici da combattere.
Questo era il significato della "propaganda del fatto", come
allora si diceva. Al congresso dell'Internazionale di Berna,
Cafiero e Malatesta avevano dichiarato: "la Federazione Italiana
crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare
con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di
propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e
corrompere le masse possa penetrare nei più profondi strati
sociali...". Nell'Italia ancora occupata a celebrare
un'unificazione che per le classi inferiori era stata solo un
cambio di padrone, gli anarchici, soli, invitavano gli sfruttati a
costruire da sé il proprio destino. In questa prospettiva, uno dei
tentativi insurrezionali più importanti, per concezione e per
risultati propagandistici, e comunque, forse il più tipico, fu
quella attuato nel 1877 nella zona del Matese da un gruppo di
aderenti alla Federazione Italiana dell'Internazionale, detto in
seguito appunto "banda del Matese". Vi aderivano molti dei
personaggi più rappresentativi dell'anarchismo italiano
dell'epoca, tra cui, in particolare, Carlo Cafiero ed Errico
Malatesta. La scelta della zona non era stata fatta a caso.
Impervia, montagnosa, scarsamente popolata, rappresentava un
ambiente ideale per la guerriglia: gli uomini avrebbero potuto
facilmente compiere le proprie sortite nei vari centri abitati e
poi rintanarsi al sicuro nei posti e nelle cascine abbandonate.
Inoltre rispondeva bene allo scopo di prendere contatto con le
masse contadine, specialmente quelle meridionali, che, abbandonate
a se stesse, considerate dalle varie classi dirigenti un puro
"oggetto" del potere, sembravano più di ogni altra il naturale
destinatario della propaganda di riscossa sociale degli anarchici.
Il 3 aprile 1877 arrivò nel Matese Carlo Cafiero insieme a pochi
compagni. Sfruttando il proprio aspetto distinto (un "signore", lo
definiranno i testimoni), si era fatto passare per un gentiluomo
inglese con tanto di servitù in cerca di un luogo tranquillo per
le vacanze. Con questa scusa aveva preso in affitto una casa del
paesetto di S. Lupo, un piccolo centro isolato distante un'ora e
mezzo di carrozza dalla stazione di Solopaca, sulla
Napoli-Benevento-Foggia.
La
casa, detta Taverna Jacobelli, era spaziosa, appartata, e
soprattutto, particolare importante, dotata di un'uscita
secondaria che la metteva in comunicazione diretta con le
boscaglie retrostanti. Qui, nelle intenzioni dei congiurati,
sarebbero affluiti nei giorni successivi gli altri partecipanti
all'impresa, con tutto l'equipaggiamento di armi, munizioni,
zaini, borracce, ecc., necessario per la guerriglia. Gli anarchici
avevano organizzato le cose con cura e con la dovuta segretezza.
Senonché, a causa della delazione di un certo Salvatore Farina,
il Ministro degli Interni in persona, Nicotera, era al
corrente dei loro progetti, già molto prima dell'arrivo di Cafiero
a S. Lupo. Nonostante questo, li aveva lasciati in pace, senza far
trapelare che le loro mosse erano spiate. Lo scopo era
evidentemente di prenderli in trappola al momento opportuno e
imbastire una speculazione politica sull'intera faccenda. I
governi e le istituzioni cambiano, ma la mentalità dei Ministri
dell'Interno resta sempre la stessa. Comunque, questa tattica da
temporeggiatore non si rivelò del tutto felice. Vuoi per l'abilità
degli anarchici, vuoi per l'eccessiva libertà di movimento che era
stata loro lasciata, onde non insospettirli, sta di fatto che il
concentramento degli uomini e dell'equipaggiamento alla Taverna
Jacobelli potè quasi completarsi senza che l'autorità di polizia
della zona mostrasse di accorgersene. Il 4 aprile arrivò
all'abitazione degli "inglesi" un folto gruppo di "servitù", con
diverse casse di "suppellettili e oggetti casalinghi"; i
preparativi per l'insurrezione durarono, indisturbati, per tutto
il giorno. Verso sera, il locale comando dei carabinieri,
insospettito dall'eccessivo movimento intorno alla Taverna
Jacobelli, si decise ad inviare una pattuglia in perlustrazione.
La pattuglia si tenne dapprima un poco in disparte, poi nella
notte, vedendo qualcosa di simile a dei segnali luminosi fatti con
lanterne, si avvicinò alla casa. Fu una mossa degna della
proverbiale sagacia dei carabinieri, perché, passando per i boschi
retrostanti, i militi capitarono proprio nel mezzo di un gruppo di
internazionalisti lì accampati che li presero immediatamente a
fucilate. La sparatoria fu rabbiosa, anche perché, al buio, gli
anarchici non sapevano esattamente con quanti avversari avevano a
che fare, e due carabinieri (dei quattro che componevano la
pattuglia) caddero feriti. Come vedremo, uno morirà dopo alcune
settimane per sopraggiunta infezione, e questo avrà la sua
importanza per gli sviluppi processuali della storia
dell'insurrezione. Resterà comunque l'unica vittima di tutta la
faccenda. Al rumore degli spari, altri carabinieri dislocati nella
zona, accorsero sul luogo, questa volta in numero più adeguato
alle circostanze, ma non poterono far altro che constatare
l'avvenuta partenza degli insorti. Essi infatti, seppur a ranghi
ridotti, perché molti compagni non erano ancora arrivati, si erano
rapidamente radunati e avevano preso la via dei monti.
"L'operazione Matese", bene o male era cominciata. Per la verità,
era cominciata male. Alcuni compagni sopraggiunti in seguito
vennero arrestati a Solopaca e a Pontelandolfo, lì vicino. Quelli
rimasti liberi, d'altronde, avevano potuto portare con sé solo una
parte dell'equipaggiamento, non avevano viveri e soprattutto
avevano lasciato alla Taverna Jacobelli i "cavastracci", strumenti
indispensabili per pulire e caricare i fucili di quei tipi. Da
questo punto di vista, l'improvvida irruzione della pattuglia
causò un danno notevole all'efficienza della banda. Ma, nello
stesso tempo, facendo precipitare la situazione, aveva costretto
gli anarchici ad anticipare l'inizio della sommossa, in un momento
in cui la famosa trappola del ministro Nicotera non era ancora
pronta per scattare. E fu così che la banda del Matese poté
compiere, almeno in parte, le azioni che aveva programmato. Era
proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere.
L'alba del 5 aprile 1877 vide il gruppo degli anarchici in marcia
verso nord. L'intenzione era di sganciarsi il più possibile dalle
forze di polizia che stavano dando loro la caccia, e di dirigersi
verso i centri abitati più isolati dove, con tutta probabilità,
l'allarme sarebbe giunto con un certo ritardo. Le condizioni
atmosferiche però, erano tutt'altro che favorevoli. In quella
stagione, i monti del Matese erano coperti di neve, e più si
saliva e più il tempo si faceva cattivo. Il freddo, oltre alla
difficoltà di procurarsi viveri con frequenza, fu il vero ed unico
nemico degli insorti per buona parte della spedizione. La banda
era guidata da Cafiero, Malatesta e da Pietro Cesare Ceccarelli,
che si alternavano ogni giorno al comando, primo tentativo, seppur
limitato, di rotazione degli incarichi. Si marciò per tutto il
giorno, addentrandosi sempre più nel Matese, e così si fece anche
il giorno seguente. Il 7 aprile gli anarchici si diressero verso
la zona di Cusano, e, dopo aver pernottato in una masseria,
costeggiarono il lago del Matese, puntando verso il paese di
Letino. Qui, alle dieci del mattino del giorno 8, domenica,
entrarono, accolti dalla gente stupita e festosa, a seguito di una
grande bandiera rosso-nera. Il caso volle che proprio in quel
momento, in Municipio fosse riunito il Consiglio Comunale, che
doveva decidere cosa fare di alcune vecchie armi, precedentemente
sequestrate a bracconieri. La banda degli internazionalisti giunse
in tempo per requisirle tutte e distribuirle, insieme ai fucili
della Guardia Nazionale, alla popolazione. Si passò poi ad atti di
ben altro peso. Gli insorti dichiararono pubblicamente decaduto Re
Vittorio Emanuele II e ne fecero a pezzi il ritratto. Quindi
provvidero a bruciare, in un grande falò acceso in piazza, tutta
la "carta bollata" del Comune: registri catastali, schedari delle
imposte, atti ipotecari, ecc., per dimostrare simbolicamente
l'abolizione dei diritti dello stato e della proprietà privata.
Infine, distrussero i contatori apposti ai mulini; che servivano a
calcolare la famigerata tassa sul macinato. Agli atti concreti
tennero dietro le motivazioni ideologiche. Cafiero salì sul
basamento di una grossa croce (sostituita con la bandiera
rosso-nera) e spiegò alla folla, in dialetto per farsi meglio
comprendere, i principi della rivoluzione sociale, i suoi fini e i
suoi metodi. Tutto avvenne in un clima di simpatia ed entusiasmo
da parte della gente del paese, al punto che perfino il prete, Don
Raffaele Fortini, si lasciò andare a dire che Vangelo e socialismo
erano la stessa cosa e additò gli internazionalisti al plauso di
tutti. La banda lasciò Letino verso l'una del pomeriggio e si
diresse verso il vicino paese di Gallo, ad appena cinque
chilometri di marcia. Ma prima ancora di giungervi si fece in
contro agli insorti un altro prete, il parroco, appunto, di Gallo.
Non si sa bene se per la curiosità o per la fifa, questi voleva
sapere quali fossero le intenzioni della banda e si fermò un poco
a chiacchierare con gli anarchici. Aprì perfino la tonaca,
mostrando la miserabile sporcizia che vi si annidava sotto, per
chiarire che era anche lui uno sfruttato come gli altri. Comunque,
quando si rese conto di cosa si trattava, seppur a suo modo
("cambiamento di governo e incendio di carte") ritornò indietro
tutto allegro per tranquillizzare i compaesani e, ad ogni buon
conto, andò a chiudersi in casa. Al municipio di Gallo gli
anarchici arrivarono verso le due del pomeriggio. Malatesta aprì
la serratura a pistolettate, i compagni penetrarono nell'interno,
e le stesse scene di Letino ebbero a ripetersi. Unica novità,
venne distribuito al popolo quel poco di denaro che si rinvenne
nelle casse della Esattoria Comunale. Tutto si svolse come prima,
nell'entusiasmo e senza difficoltà di alcun genere. Ma le truppe
governative, anche se non si erano ancora fatte vedere, non erano
restate con le mani in mano. Al comando del generale De Sanget,
quasi dodicimila uomini avevano stretto d'assedio nel frattempo
l'intero massiccio del Matese: tre compagnie di bersaglieri a sud,
un reggimento di fanteria a nord, altre forze ancora da
Campobasso, Isernia, Caserta, Benevento e Napoli. Fu così che,
quando abbandonarono Gallo, gli internazionalisti si trovarono
praticamente e improvvisamente accerchiati. In qualunque direzione
si volgessero per trovare qualche altro paese da occupare, si
battevano nei presidi dei soldati e dovevano rapidamente tornare
sui propri passi per non venire scoperti. A complicare la
situazione si aggiunse il maltempo. Un terribile diluvio di
pioggia mista a neve li sorprese già poco fuori Gallo bagnando
armi e munizioni e rendendo più che mai difficoltosa la marcia. Le
cose si stavano mettendo male. Gli uomini passarono tutto il 9 e
10 aprile nel duplice tentativo di cercare un rifugio e di
superare l'accerchiamento, ma senza esito. Erano stanchi,
affamati, fradici per la pioggia che non accennava a diminuire. I
fucili erano ormai inservibili e la mancanza di cavastracci,
lasciati a S. Lupo, non permetteva di pulirli e di ricaricarli. In
queste condizioni, anche l'extrema ratio di uno scontro a
fuoco era impossibile. Il giorno 11, la banda trovò finalmente
riparo nella masseria Concetta, tre miglia sopra Letino e qui
decise di fermarsi per riprendere fiato. L'intenzione era di
attendere che il tempo migliorasse e quindi tentare, un'altra
volta, di sganciarsi dall'assedio delle truppe governative. Ma
rimase una semplice intenzione. Un contadino, sperando in un
premio, aveva informato i soldati. Il 12 aprile un reparto di
bersaglieri fece irruzione nella cascina sorprendendo gli
anarchici. Date le condizioni degli uomini e delle armi non ci fu
resistenza. L'insurrezione del Matese era finita. Gli arrestati
vennero spediti in varie galere della zona e, di lì a poco,
concentrati tutte nel carcere di S. Maria Capua Vetere, in attesa
del processo. All'inizio le prospettive sembravano tutt'altro che
rosee: il Ministro dell'Interno Nicotera, sull'onda del can can
antianarchico suscitato, come era prevedibile, dalla stampa
benpensante, aveva l'intenzione di far giudicare l'intera banda da
un tribunale di guerra. In questo caso la conclusione sarebbe
stata probabilmente una sola, il plotone di esecuzione. La
faccenda non andò in porto, a quanto pare, per l'intercessione
della figlia di Carlo Pisacane, Silvia, che (i casi
della vita...) era stata tempo prima adottata proprio dal Signor
Ministro, il quale, a sua volta, (sempre i casi della vita...) di
Carlo Pisacane era stato compagno d'arme nella spedizione di Sapri.
Un peccato di gioventù, evidentemente, ma salvò la pelle a
Malatesta e compagni. Non che, così, le cose fossero
definitivamente risolte. Anche se lo spettro di un giudizio
sommario era stato allontanato, il capo d'accusa conteneva una
serie di reati tali da non promettere, comunque, nulla di buono.
L'istruttoria si era conclusa il 27 dicembre 1877, con una
sentenza di rinvio a giudizio di questo tenore:
a)
contro tutti gli arrestati, compresi quelli di Pontelandolfo e
Solopaca, per reato di cospirazione avente oggetto di cangiare e
distruggere la forma del Governo, eccitare gli abitanti ad armarsi
contro i poteri dello stato e suscitare tra essi la guerra civile,
inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri e portare la
devastazione, la strage e il saccheggio contro una classe di
persone;
b)
contro i ventisei che consumarono i fatti di S. Lupo, Gallo e
Letino anche pei reati di attentato in banda armata commessi allo
scopo su indicato, e di complicità corrispettiva ne' reati di
ferita volontaria a colpi d'arma da fuoco in persona di Antonio
Santamaria e Pasquale Asciano, carabinieri reali nell'esercizio
delle loro funzioni: le quali ferite produssero il debilitamento
permanente di un organo ad Asciano, e, dopo i quaranta giorni
immediatamente successivi, la morte di Santamaria.
Per fortuna
degli accusati, il 9 gennaio 1878, re Vittorio Emanuele II morì.
Infatti il successore Umberto I, essendo, come tutti sanno, un "re
buono", concesse al paese una amnistia riguardante anche molti
reati politici in seguito alla quale il lungo elenco di capi di
imputazione della banda del Matese potè accorciarsi alquanto. Il
processo si tenne davanti alla Corte d'Assise di Benevento e
iniziò il 14 agosto 1878. Il processo, comunque, si svolse in un
clima di grande simpatia popolare verso gli imputati, quella
stessa che essi avevano sentito intorno a sé mentre bruciavano la
"carta bollata" a Letino e Gallo. Gli anarchici si dimostrarono
subito un osso duro per la pubblica accusa. Intelligenti,
preparati, sicuri delle proprie ragioni, essi rispondevano con
prontezza ai giudici, li rimbeccavano, e non perdevano occasione
per fare propaganda alle proprie idee di uguaglianza e libertà. In
questo vennero sapientemente aiutati dagli avvocati difensori, fra
cui il giovanissimo e pur già abile Saverio Merlino,
anarchico anch'egli. Per contrastare questa linea, d'altronde
giuridicamente ineccepibile, il P.M. Forni fu costretto a
concentrare tutte le sue energie forcaiole sulla sparatoria del 4
aprile e sulla conseguente morte del famoso carabiniere. Egli
sostenne che gli insorti avevano sparato e ucciso coscientemente,
per "libidine di sangue". Cafiero e Malatesta replicarono
vivamente a questa accusa grottescamente esagerata e gli avvocati
difensori dimostrarono, come si è già detto, che il decesso era
avvenuto non in seguito alle pallottole anarchiche, ma per
"sopraggiunta infezione" (in altre parole il povero militare era
stato mal curato). L'immagine tenebrosa dell'anarchico assassino
diventava sempre più inconsistente e, parallelamente, anche le
tesi dell'accusa che su tale immagine erano costruite. La sentenza
fu emessa il 25 agosto, dopo un'ora un quarto di discussione. I
giurati dichiararono gli accusati non colpevoli della morte
del carabiniere e applicarono l'amnistia per gli altri reati. La
banda del Matese era assolta e rimessa in libertà. Era la sentenza
che il popolo attendeva. Una folla di 2000 persone accolse gli
anarchici, applaudendoli, all'uscita del carcere, segno tangibile
della rispondenza che la "propaganda del fatto" trovava allora fra
gli sfruttati. Un corrispondente del "Corriere del Mattino" di
Napoli il giorno dopo concludeva così il proprio articolo
sull'avvenimento: "Un processo di questi per provincia e il
governo si sarebbe ucciso con le proprie mani".
da:
http://web.tiscali.it/noredirecttiscali/maxtweb/aindice/archivio%20testi/013/13_09.htm
IL PROCESSO DI BENEVENTO
Le imputazioni
sono quanto mai gravi. Basta considerare quella di omicidio, anche
se in realtà i fatti si riducono al ferimento di due carabinieri,
di cui uno morto successivamente per "causa sopravvenuta".
Ora, secondo il codice penale allora vigente (quello
sardo-piemontese imposto all'Italia meridionale dopo l'Unità), "l'omicidio
volontario è anche punito con la morte quando è stato mezzo o
conseguenza immediata del delitto di ribellione". Le accuse
sono indiscriminate e quindi tutti gli imputati ugualmente
responsabili di delitti capitali. La sorte è dura per tutti.
L'amnistia concessa da Umberto I il 19 gennaio 1878 estingue la
maggior parte dei reati, ma non cancella il ferimento dei due
carabinieri. Perciò sono liberati i cospiratori di Solopaca e di
Pontelandolfo non coinvolti in questo ferimento. Gli altri
ventisei imputati sono sottoposti a procedimento penale per
omicidio conseguente ad atto di ribellione contemplante la pena di
morte. Il processo contro la banda del Matese ha inizio il 14
agosto 1878 per concludersi il 25 dello stesso mese. Da una nota
giornalistica si ricava l'idea di una simpatia spontanea della
popolazione beneventana verso gli accusati. La città, certo, è
dominata da una classe politica che ormai fa pienamente corpo con
la borghesia nazionale, anche se in funzione subalterna per la sua
più arretrata condizione economico-sociale. E una classe che trova
nelle strutture del nuovo stato gli stimoli di una competizione
fatta spesso di colpi bassi e di sordi rancori e tuttavia ispirata
ad una comune ideologia di conquista. Ma questa è la città legale.
La città reale invece sembra incline a concepire per gli anarchici
un moto di approvazione. "In questa piccola e remota città del
mezzogiorno, scrive il Masini, soffocata dalla calura estiva e da
una non meno pesante coltre di arretratezza, il dibattimento
riuscì ad interessare e commuovere le popolazioni locali,
suscitando grande simpatia intorno agli imputati e alle loro idee.
Anche perché in quel mese di agosto del 1878 l'eco di drammatici
eventi - come l'uccisione avvenuta ad Arcidosso il 18 agosto del
"profeta" Davide Lazzaretti e di tre contadini suoi seguaci
ad opera dei carabinieri - si ripercuoteva nell'aula di Benevento
confermando una situazione sociale carica di rivolta, sia pure
espressa da briganti o da visionari, alla quale gli
internazionalisti avevano cercato di dare con la loro iniziativa
uno sbocco politico rivoluzionario. Il giorno di inizio del
processo la città è attraversata come da un brivido di commozione.
C'è una grande animazione nelle strade; un trascorrere di voci e
sussurri; la gente si incontra, si intende, si agita.
L'impressione è quella di un pericolo, che il dispiegamento della
forza pubblica rende ancora più sensibile. Il percorso che va dal
carcere al tribunale è tutto pattugliato da truppe di linea. Gli
imputati lo attraversano, manette ai polsi, tra quaranta
carabinieri, con la baionetta inastata, sfilando come dominatori.
"Sono tutti vestiti con decenza, si legge in una corrispondenza,
qualcuno con eleganza; hanno l'aria di chi vada a festa e
sorridono a manca e a destra, dovunque incontrino uno sguardo che
li cerchi amichevole, dovunque trovino una faccia commossa di
donna o di fanciulla. I ventisei anarchici, quasi tutti
giovanissimi, non hanno altri precedenti che una vita di fede, di
sacrificio e di coraggio. Carlo Cafiero, alto e bello,
elegante ed eloquente, sembra torreggiare accanto ad Enrico
Malatesta, di ventiquattro anni, piccolo e bruno, occhi neri,
tutto fuoco interiore ed intelligenza. Il processo ha inizio con
la lettura dei diciannove volumi compilati dal giudice istruttore:
una lettura faticosa e stentata. Il cancelliere inciampa e cade
soprattutto nell'impatto con i nomi stranieri. Si ferma ogni
tanto, prende fiato, smania, suda. Tanto più che la pazienza dei
prigionieri crolla ogni volta che egli è costretto a pronunciare
la frase "lascivia di sangue" quale motivazione
dell'omicidio. Carlo Cafiero, ad un certo punto, sente la
necessità di intervenire. "Ho bisogno di darvi una spiegazione,
dice: non è l'aver sparso il sangue dei carabinieri che ci fa
onta; ma l'accusa per averlo fatto per lascivia di sangue. Se noi
avessimo uccisa un'intera legione di carabinieri in combattimento,
noi non ce ne sentiremmo offesi; ma quando ci si dice che abbiamo
ucciso pur una mosca per lascivia di sangue la nostra coscienza si
ribella a questa accusa". Per questa ragione, tutti gli
imputati oppongono al presidente della Corte d'Assise uno sdegnoso
silenzio sulla materia specifica degli addebiti, mentre si dicono
pronti a fornire ogni chiarimento sulle finalità
dell'Internazionale, di cui si dichiarano militanti. Nelle parole
di Carlo Cafiero che è il corifeo del dramma processuale la Prima
Internazionale si configura come la chiesa del comunismo
universale, del quale il primate italiano appare Andrea Costa:
il suo scopo fondamentale non è la distribuzione della proprietà,
ma l'uso collettivo di essa nella federazione delle associazioni
produttive, fuori da ogni sistema gerarchico, lungo una linea
orizzontale di rapporti sulla quale non può correre altro ideale
che quello della fratellanza, agli antipodi della società
capitalistica, che, come aggiunge Malatesta, non dà alternativa
agli uomini tra l'essere vittime o carnefici, per cui gli
internazionalisti, rifiutando questo tragico dilemma, non hanno
altra speranza che la demolizione della causa fondamentale della
degradazione umana: l'eliminazione cioè della società degli
oppressi e degli oppressori. Questa utopia affascina anche i
difensori, ma travolge soprattutto l'avvocato Francesco Saverio
Merlino, un giovane di ventuno anni, che penetra così
intimamente nel credo dei prigionieri da diventare uno di loro,
dando espressione appassionata e coraggiosa al loro pensiero. Nato
a Napoli da una famiglia di giuristi e uomini d'ordine, educato
religiosamente dagli scolopi, insieme con Enrico Malatesta, egli
arriva al processo di Benevento come l'arcangelo dell'idea
anarchica, tra difensori di mestiere come Nardoneo,
Barra, Barricelli, in antagonismo con un pubblico
ministero, Eugenio Forni, già questore di Napoli, dalla
mentalità poliziesca, per il quale la famiglia e la proprietà,
pilastri della civiltà romana, sono la sola garanzia dell'ordine e
della giustizia. La tesi del pubblico ministero, a parte la
retorica dell'ideologia conservatrice, consiste nel dimostrare che
responsabili di omicidio non sono soltanto gli autori materiali
del ferimento, peraltro mai individuati, ma tutti i membri della
banda del Matese, concorrenti solidarmente nell'attuazione dei
crimini, consapevolmente e volontariamente; e che, una volta
acclarata questa responsabilità collettiva, il reato non ha nulla
di politico, e quindi non è soggetto alla legge dell'amnistia, ma
ha tutti i caratteri di un crimine compiuto, non già per scopo di
insurrezione, ma per libidine di sangue. Una requisitoria, questa,
che è un capolavoro di incongruenza: da una parte si parla di
attentati alla sicurezza dello Stato e di reati di ribellione;
dall'altra si contesta il fine politico degli atti delittuosi.
Perciò i giurati tagliano il nodo delle contraddizioni rispondendo
negativamente alla prima domanda sulla morte del carabiniere. Così
i prigionieri sono dichiarati innocenti e la morte del carabiniere
è attribuita a causa sopravvenuta. La seconda domanda (se
l'omicidio rientri nel reato di insurrezione e come tale sia
suscettibile di amnistia) cade per effetto di conseguenza logica.
Dopo la lettura della sentenza, nella sala scoppia un battimano.
Un processo come questo per ogni provincia e il governo si può
impiccare con le proprie mani. Gli accusati, messi in libertà,
scendono in piazza e si recano al carcere seguiti da una folla di
circa duemila persone: "le quali non nascondono la loro simpatia
per gli assolti. Alle cinque, sempre in mezzo alla stessa calca,
si conducono alla Trattoria del Sannio. La folla li aspetta come
li aveva aspettati al carcere. Dopo il pranzo scendono e vengono
acclamati nuovamente. Quest'oggi Benevento è in festa. Essa ha
smentito la sua fama di città retriva e clericale. E certamente,
se si guarda al comportamento del popolo nella sua elementare
umanità, è così. La città dimostra un senso di solidarietà per i
rappresentanti del movimento anarchico veramente toccante, di cui
si fa eco, durante la celebrazione del processo il corrispondente
locale del giornale napoletano, "Il Corriere del Mattino", di
sentimenti anarchici come un po' tutti i socialisti della Prima
Internazionale (Pasquale
Martignetti ?). Ma è solo una folata di vento che
passa senza lasciar traccia. Il destino del mondo contadino,
chiuso il processo, si chiude anch'esso come un cerchio mortale.
Prima il brigantaggio senza strategie e senza capi; ora il
comunismo anarchico, senza percezione della realtà, apre la porta
all'utopia. L'anarchia sembra, indubbiamente, aver capi di alto
livello: ma vengono da lontano e vanno ancora più lontano. Quanti
nomi di principi russi! Uomini generosi, ardenti, entusiasti, non
hanno la percezione dei confini della realtà: sono, per così dire,
affetti da presbiopia intellettuale: vedono chiaramente lontano,
là dove splende l'isola del sogno, la città dell'avvenire, la
Gerusalemme celeste; non vedono la realtà che hanno sotto gli
occhi: si lasciano sfuggire i problemi reali per amore dei regni
ideali: un sublime tradimento del realismo e dello storicismo
marxiano. Ci sono anche le tragedie, ma si tratta di disegni
fantastici, creati sull'onda del desiderio da una immaginazione
onirica. Eppure è proprio la visione del sogno che suscita un
fremito di elevazione nelle plebi beneventane: è l'idea di
un'epoca divinamente eroica che accende le speranze più assurde.
La città vive di riflesso questa esperienza esaltante; ma, subito
dopo il processo, ritorna alla sopportazione rassegnata di un
regime che ormai ha imparato a risolvere i problemi sociali con
l'uso della forza e a imporre la logica delle istituzioni unitarie
come l'unica soluzione possibile dei suoi mali.
da "Storia di Benevento e Dintorni" di Gianni Vergineo, Ed. Ricolo,
Benevento, 1987 |