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I FATTI

E questa volta San Lupo assurse a ruolo di protagonista. Doveva partire proprio da questo minuscolo centro del beneventano la scintilla rivoluzionaria che avrebbe dovuto infiammare prima il Meridione e poi l'Italia intera. Questo il sogno degli Internazionalisti Anarchici [Banda Anarchica del Matese 1877], seguaci delle teorie del russo Bakunin. La mattina del 3 Aprile 1877 Carlo Cafiero, Errico Malatesta e una "bionda signorina dagli occhi verdi" giunsero a San Lupo, alla Taverna Jacobelli, dicendo di essere inglesi. Fecero scaricare dalla carrozza parecchie casse pesanti e dopo un giro d'ispezione presero la strada del ritorno verso Napoli. La Taverna era di proprietà del Cavaliere Achille Jacobelli, personaggio di spicco dell'epoca, conosciuto in tutto il circondario. Nominato Maggiore della Guardia Nazionale nel 1848, ebbe incarichi di grande prestigio e percorse le varie tappe di una brillante carriera. Fu sollevato da ogni responsabilità nell'Agosto del 1861, dopo i sanguinosi fatti di Pontelandolfo e Casalduni. "Uomo risoluto e intraprendente", "amante di predominio", "Cavaliere di tutte le bandiere": questi alcuni giudizi espressi da studiosi che si sono occupati di lui. Era nelle grazie di re Ferdinando II che, pare, lo onorasse di una visita a San Lupo il 9 Febbraio 1852. Errico Malatesta, uno dei cospiratori responsabile dell'azione, era stato, a Napoli, compagno di studi del notaio De Giorgio, sindaco di San Lupo e amministratore dei beni della famiglia Jacobelli. Conosceva bene i luoghi e la disponibilità della gente, già dimostrata negli anni del brigantaggio, all'insurrezione. La sera del 5 Aprile arrivarono altre casse di equipaggiamento ed altri Internazionalisti fra cui Cesare Ceccarelli, Antonio Cornacchia e Napoleone Papini. Malatesta aveva affidato l'incarico di assicurare l'appoggio dei contadini del posto ad un certo Salvatore Farina, ex garibaldino e sperimentato cacciatore di briganti nella zona del Matese. Conosceva i luoghi e la gente. Ma il Farina, più avido di denari che interessato all'emancipazione del proletariato, vendette le informazioni ai carabinieri e sparì. E la notte fra il 7 e l'8 Aprile 1877 gli Internazionalisti, sorpresi dai carabinieri appostati non molto lontano, sotto un ponte, per un errore di valutazione, furono costretti a scappare lungo i fianchi del monte dopo aver caricato i bagagli su tre muli. Cafiero, Malatesta e gli altri camminarono tutta la notte per arrivare la mattina dell'8 Aprile nel comune di Letino, sul massiccio del Matese. Qui attuarono il piano previsto per San Lupo: Vittorio Emanuele fu dichiarato decaduto, il popolo fu proclamato sovrano e gli archivi municipali che custodivano i registri dei debiti dei contadini furono bruciati. Ma la fiammella dell'insurrezione rimase tale, non diventò un incendio! L'intervento dell'esercito in maniera massiccia e decisa, la precarietà dell'organizzazione e le difficoltà logistiche su un territorio ancora innevato, malgrado fosse Aprile, ebbero ragione anche di quest'altra forma di ribellione. Nel giro di pochi giorni tutti i componenti la banda di San Lupo furono arrestati e con essi fu imprigionato anche quell'atto di provocazione mai raccolto. Da questo momento la storia di San Lupo é storia nazionale, cosicché qualche episodio, seppure di rilievo, accaduto, appartiene più alla cronaca che alla storia.


GLI ANARCHICI E LA QUESTIONE MERIDIONALE 1876/77

Nell'inverno 1876/77, maturò un nuovo grande progetto insurrezionale. L'idea di una nuova iniziativa insurrezionale era nata fra gli uomini dell'Internazionale presso il Congresso di Berna. In quell'occasione, Cafiero e Malatesta avevano solennemente e pubblicamente dichiarato che: la Federazione italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, possa penetrare nei più profondi strati sociali ed attrarre le forze vive dell'umanità nella lotta che l'Internazionale sostiene". In questa breve dichiarazione era in effetti teorizzata la cosiddetta "propaganda del fatto", cioè una tecnica che si proponeva di diffondere i principi anarchici non solo attraverso la stampa e la predicazione o il proselitismo spicciolo, ma anche e soprattutto grazie a gesti clamorosi, che per la loro gravità o drammaticità, avessero ripercussioni nell'opinione pubblica attraverso la grande stampa d'informazione e i dibattiti parlamentari, attirassero l'attenzione del grosso pubblico verso gli uomini e le idee dell'Internazionale e svegliassero dal torpore le masse popolari. Questa idea o propaganda a mezzo del fatto, era già apparsa nel Risorgimento italiano, grazie a Mazzini e a Pisacane.

Carlo Pisacane (Napoli 1818 - Sapri 1857) - un giacobino, un socialista, un rivoluzionario, per taluni aspetti un anarchico. Vuole la libertà concreta ed effettiva, dove a ciascuno sono assicurati i mezzi per la sussistenza. La libertà può essere solo socialista e può ottenersi solo con il socialismo. Sostanzialmente, si rivolge soprattutto a Proudhon, nel suo rifiuto dell'autoritarismo e della proprietà privata e nella sua costruzione di una società fondata sull'associazionismo e sulla libertà. Il socialismo di Pisacane è rivoluzionario, non solo, è anarchico. Si dichiara ripetutamente contro il principio di autorità, contro il governo; esige l'abolizione di ogni scala gerarchica fra gli individui, l'eliminazione di ogni diseguaglianza. Il principio di autorità deve essere distrutto, con tutte le sue derivazioni. L'unica prospettiva per il futuro è l'anarchia, e l'umanità troverà in essa la soluzione dei propri problemi, la libertà, il benessere. Viene spontaneo il collegamento fra Pisacane e Bakunin, di cui il primo può considerarsi un precursore. Per Pisacane, come per Bakunin, non è il popolo "più dotto ed incivilito" ma quello più oppresso che darà il segnale della battaglia, e quindi della rivoluzione: cioè l'arretrata popolazione italiana e, in essa, i contadini poverissimi, specie quelli dell'Italia meridionale.

Il terreno prescelto fu non la città ma la campagna e, in tal modo, entrava un elemento nuovo nel piano degli anarchici: i contadini. Pietro Cesare Ciccarelli, uno dei massimi internazionalisti italiani, scriveva ad Amilcare Cipriani: contro i contadini o anche senza i contadini, è possibile un cambiamento politico, ma non la rivoluzione sociale, massime in un paese come l'Italia, in cui l'elemento rurale è in grande maggioranza, ed in cui non esistono ancora che allo stato d'eccezione la grande industria e le grandi agglomerazioni operaie. Il tempo delle Jaqueries non è finito: invece è ora che cominci il tempo della grande Jaquerie dell'epoca moderna, jaquerie che questa volta sarà feconda di risultati perchè il socialismo è venuto a dare coscienza e lumi a questi grandi scoppi dell'ira popolare. Bakunin aveva messo in guardia i suoi amici italiani dall'errore di trascurare l'apporto determinante delle masse contadine, soprattutto meridionali, alla auspicata rivoluzione sociale. C'era poi nella recente storia del mezzogiorno il lungo e sanguinoso episodio del brigantaggio a segnalare quale profonda frattura esistesse ancora fra le plebi delle campagne meridionali e il nuovo stato unitario. Infatti, l'unificazione, anzichè alleviare la miseria e la servitù delle masse rurali meridionali, l'aveva appesantita ulteriormente con nuovo gravami, dalla tassa sul macinato alla leva militare, dalla meccanica estensione di inadeguati ordinamenti amministrativi alla calata dal nord di grossi sciami di funzionari, talvolta voraci o spietati. Del malcontento dei contadini, di cui certo non si facevano interpreti gli uomini della destra nè tantomeno quelli della sinistra, e neppure i seguaci di Mazzini, e che quindi esplodeva spesso in tumulti incoscienti e disordinati nei quali la reazione tentava di inserirsi, di questo malcontento gli anarchici italiani intendevano farsi portavoce con la loro nuova mossa insurrezionale. Non a caso, come zona d'operazione, fu scelto il massiccio del Matese, dove i più pericolosi capibanda del brigantaggio meridionale avevano dato, per anni, filo da torcere alle truppe governative e dove più vivo che altrove era il distacco e il risentimento delle popolazioni locali contro il governo di Roma. Fu il russo Sergio Kravcinskij ad addestrare gli uomini che avrebbero partecipato all'impresa. Fra essi, studenti, calzolai, muratori, sarti, provenienti da ogni dove, ma, soprattutto, Cafiero e Malatesta. Il momento dell'operazione era stato stabilito per la primavera del 1877. Tuttavia, grazie all'opera di un delatore, Salvatore Farina, la polizia era da tempo al corrente di tutto e lasciava fare, col proposito di sorprendere la banda al completo a San Lupo. Il ministro degli Interni Nicotera, al prefetto di Napoli, nel marzo 1877: "lasciare che il movimento si sviluppi senza alcuna difficoltà fino al momento dell'azione e intervenire solo un momento prima di questa, non solo per cogliere in flagranza di reato i cospiratori, ma soprattutto per colpirne il massimo numero e imbastire una speculazione politica sulla vicenda, a onore del governo e della abile quanto sollecita organizzazione di polizia". La prima operazione progettata dalla banda avrebbe dovuto svilupparsi proprio a San Lupo, ma l'intervento impulsivo ed imprudente dei carabinieri, costrinse i cospiratori a cambiare obbiettivo. La banda, capeggiata da Cafiero e Malatesta, si spostò, quindi, verso Letino, paese non ancora presidiato dalla forza pubblica. Letino fu, dunque, la prima sede dell'esperimento rivoluzionario ed entrò così nella storia dell'anarchismo. Il mattino dell'8 aprile, la banda entrò nel paese dispiegando una grande bandiera rossonera, indi si diresse verso il municipio. Qui era riunito il Consiglio comunale. Gli anarchici staccarono immediatamente il ritratto del re Vittorio Emanuele II dal muro, poi proclamarono decaduta la monarchia e la dinastia sabauda. Quindi passarono ad incendiare l'archivio comunale e in particolare i titoli di proprietà e i registri delle tasse. Il grande falò fu acceso sulla pubblica piazza nell'entusiasmo popolare. Cafiero, passò, poi, ad arringare la folla in dialetto: "non più soldati nè prefetti, non più proprietari. Non più servi nè padroni. Le terre in comune, il potere a tutti!". I contadini accolsero con grande entusiasmo le sue parole. Gli italiani erano arrivati con i codici, le tasse, la leva militare il macinato. Ora era arrivata l'Internazionale ed era la fine di tutti quei malanni e di tutti i guai! "Noi qui sottoscritti dichiariamo di aver occupato il municipio di Letino armata mano in nome della Rivoluzione Sociale, oggi 8 aprile 1877. Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Pietro Cesare Ceccarelli", ecco la dichiarazione lasciata al segretario comunale. Da Letino, la banda si spostò dirigendosi verso il paese di Gallo, ove si ripeterono le stesse scene. Tuttavia, le truppe regie stringevano d'assedio tutto il massiccio del Matese. Dopo giorni di accerchiamenti e tentativi vani di fuga, il giorno 12, un reparto di bersaglieri e di artiglieri, sorprese la banda e ne catturò quasi tutti i componenti. Dopo la cattura della banda del Matese, ovunque si scatenò la "caccia all'internazionalista". La polizia perse completamente il controllo, compiendo ingiustificati arresti di massa, perquisizioni immotivate, sequestri, e i prefetti di varie città, decretarono lo scioglimento di tutte le sezioni internazionaliste. Il ministro Nicotera, rispondendo alle proteste in Parlamento dei deputati Cavallotti, Bovio e Bertani, definiva gli internazionalisti gente perduta che estorce alla povera gente qualche lira al mese per alimentare i propri vizi, si trincera nel segreto di stato per giustificare il proprio comportamento. Andrea Costa scriveva :"gli avvenimenti del beneventano hanno dato al governo il pretesto per sciogliere l'Internazionale. Dappertutto, dove i socialisti sono numerosi, vi è lo stato d'assedio, ammonizioni, arresti e condanne a domicilio coatto". Sciolta ufficialmente, l'Internazionale si ricostituì in segreto. Firenze ne fu la capitale. Qui si moltiplicarono manifestazioni di massa, tumulti, scontri con la polizia e con la malavita locale. La polizia riuscì, così, a trovare il pretesto per effettuare un vero e proprio arresto di massa, che coinvolse, fra gli altri, Anna Kuliscioff, appena giunta in città. Contro tutti gli arrestati venne imbastito un processo per cospirazione contro la sicurezza interna dello stato, sotto l'imputazione di aver preordinato un movimento rivoluzionario volto a distruggere lo stato e rovesciare il governo attuale per sostituirvi l'anarchia e giungere al comunismo.

tratto da: http://www.geocities.com/emayit/anarchismo/


IL SOGNO DI UNA REPUBBLICA ANARCHICA

 

Il Matese, ed in particolare i comuni di Letino e Gallo Matese, vengono scelti come teatro di un tentativo, disperato ma generoso, di cambiare lo stato postunitario, per molti versi incapace, presente spesso solo con burocrati e militari. Certamente inequo nella sua politica sociale ed economica. L'obbiettivo era quello di sfruttare l'ondata di malcontento che regnava nella classe contadina. Eppure, proprio i contadini, coloro che avrebbe dovuto costituire lo zoccolo duro della rivolta, tradirono le aspettative dei leader anarchici. "Diversamente dai lavoratori dei campi della Spagna meridionale - scrive Woodcock - quelli dell'Italia meridionale si rivelarono refrattari al messianismo libertario, e in Italia l'anarchismo doveva rimanere un movimento limitato quasi esclusivamente alle città "minori". Il fallimento dell'impresa nel Matese ne fu l'esempio lampante. Il Matese è una regione tra Campania e Molise, dove nel recente passato il brigantaggio aveva spadroneggiato, creando seri problemi al Regno da poco nato. Una zona, ritenevano gli anarchici, adatta alla guerriglia. Da qui - nel cuore del Mezzogiorno, i leader anarchici - Carlo Cafiero, ed Enrico Malatesta e Ceccarelli ritennero di far scoccare la scintilla della rivoluzione. Nella primavera del 1877, essi ritennero che fosse venuto il momento giusto: non pensavano ad un'insurrezione generale, bensì ad un'azione di vera e propria guerriglia. Lo scopo era quello di occupare, con pochi uomini, una zona simbolicamente importante perché inespugnabile, e da lì incitare all'azione chi agognava alla libertà. Oggi si può dire che l'ingenuità del piano era pari solo all'entusiasmo dei suoi organizzatori. L'operazione sarebbe dovuta scoccare a marzo, ma la neve ancora presente nel Matese fece rallentare i piani degli anarchici (e permise al ministero degli Interni, debitamente informato, di studiare delle contromosse). Il luogo dell'incontro dei cospiratori doveva essere San Lupo, un piccolo paesello. Invece che cento - come preventivato - se ne presentarono solo ventisei. Si decise di continuare comunque e il piccolo gruppo di uomini cominciò a marciare, naturalmente ognuno con la sua bella sciarpa rossa in evidenza. Le guide non si presentarono, i viveri non giunsero a destinazione. La leggenda dice che i rivoluzionari avessero deciso di passare agli espropri, ma quando - alla prima pecora sequestrata - il piccolo pastore, tale Purchia, cominciò a piangere, la restituirono. Dopo tre giorni di marcia, la banda giunse a Letino, occupò il Municipio, proclamarono la decadenza della monarchia (solo dopo aver staccato dal muro, ovviamente, il ritratto del re Vittorio Emanuele), fecero un falò con le carte comunali e catastali. Subito dopo in una piazza ormai affollata di gente, il capo della rivolta (Carlo Cafiero), prese la parola e spiegò il programma del movimento internazionalista e il suo scopo: la rivoluzione sociale al fine di abbattere ogni vincolo giuridico e di proprietà; invitò dunque i cittadini a riprendersi la terra che, essendo un bene comune come l'aria e l'acqua, non dovevano diventare proprietà privata. Insomma il programma poteva considerarsi in poche parole: non più soldati, non più prefetti, non più proprietari, nè servi nè padroni; la terra in comune, il potere a tutti. A questo punto le testimonianze parlano di una donna che fattasi avanti, avrebbe esortato i rivoluzionari a compiere l'opera iniziata e cioè a prendere le terre e a distribuirle, ma Cafiero rifiutò decisamente sia perchè il gruppo doveva andare in altri paesi a portare la scintilla della rivoluzione, sia soprattutto, perchè i contadini dovevano imparare a far da soli, sfruttando le loro forze. "I fucili e le scuri ve li aviamo dati, i coltelli li avite - se vulite facite e si non vi futtite". La folla era ormai conquistata ed entusiasta, tanto che persino il parroco Raffaele Fortini, inneggiò alla rivoluzione e spiegò ai contadini che vangelo e socialismo era la stessa cosa e che gli internazionalisti erano gli apostoli della parola del signore. Era sincero convincimento il suo, o semplice opportunismo? difficile a dirsi, certo anche grazie al suo intervento i rivoluzionari erano ormai padroni del campo; si fecero poi guidare al mulino dove misero fuori uso i contatori che registravano i giri della macina e quindi stabilivano l'importo della odiatissima tassa sul macinato che tutti dovevano pagare. Alla fine i rivoluzionari sempre guidati da Cafiero e Malatesta, lasciarono il paese tra gli applausi dei contadini diretti verso Gallo. Qui furono ripetuti gli stessi atti compiuti a Letino tra un analogo entusiasmo da parte dei contadini e del parroco Vincenzo Tamburri. Intanto si stava organizzando la reazione del governo che, a detta di alcuni storici era già informato da tempo del progetto di rivoluzione sociale preparato dagli internazionalisti. Pare infatti che la persona scelta come guida perchè a conoscenza dei luoghi inpervi del Matese, tale Farina di Maddaloni, aveva tradito rivelando tutto al ministro degli interni Nicotera, ex Mazziniano come lui. Dopo gli eventi di Letino e Gallo, la banda vagò per tre giorni sui monti del Matese, sorpresa dal freddo e dalla neve, senza guide ne carte, nè viveri, con i paesi resi ormai inaccessibili dall'arrivo dei soldati e con tutte le vie di fuga, sia verso Isernia che verso Piedimonte Matese e Benevento sbarrate dall'esercito (circa 12.000 uomini) che avevano ormai circondato tutto il territorio. La mattina dell'11 aprile un contingente di bersaglieri, localizza la banda in una masseria alla contrada Rava della Noce quindi arrestò i rivoluzionari. Con questo episodio si chiude definitivamente l'esperienza della "rivoluzione sociale". L'arretratezza culturale, la povertà economica, l'ingiustizia sociale, sono entità traghettate fino ai nostri tempi. Delle idee liberatorie, dell'anarchia del socialismo e dei metodi insurrezionali fondati sul coinvolgimento delle masse non n'è resta traccia alcuna. Resta il rammarico è il malcontento di una condizione di vita disagiata e miserevole.

da: http://www.gallomatese.com


La guerriglia insurrezionale come "propaganda del fatto" nell'Italia del secolo scorso

di R. Brusio 

La storia dell'anarchismo italiano nella seconda metà dell'800, all'epoca del suo formarsi come movimento organizzato di uomini e di idee, è anche la storia di tutta una serie di tentativi insurrezionali ("congiure", come erano chiamate) che, se da un lato vennero sfruttati dai governi per dar credito alla solita immagine dell'anarchico bandito e mestatore, dall'altro contribuirono non poco, con la loro risonanza, alla conoscenza e alla diffusione delle idee libertarie. Furono tentativi falliti, bisogna riconoscerlo, spesso condotti in modo un po' dilettantesco. Ma sarebbe ingeneroso darne la colpa agli uomini perché essa, più che altro, era dei tempi. La fiducia nell'atto insurrezionale come strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse un pugno di coraggiosi per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica di tutto l'ottocento genericamente progressista ed in particolare "risorgimentale". Gli anarchici non ebbero certo l'esclusiva di queste congiure. Prima di essi vi si erano dedicati i carbonari, i mazziniani, gente da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la storiografia ufficiale si sente in dovere di tributare ben altro rispetto che a Cafiero, a Bakunin o a Malatesta. Eppure, a differenza dei loro più quotati "colleghi" (si fa per dire), gli anarchici non ebbero mai la pretesa di impadronirsi del potere, di imporre, armi alla mano, un nuovo status quo reputato migliore del precedente. Più semplicemente, con maggiore onestà e senso delle proporzioni, essi intendevano fare delle azioni esemplari, gesti clamorosi capaci di svegliare la coscienza delle masse sfruttate, di additare ad esse la via da seguire e i nemici da combattere. Questo era il significato della "propaganda del fatto", come allora si diceva. Al congresso dell'Internazionale di Berna, Cafiero e Malatesta avevano dichiarato: "la Federazione Italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse possa penetrare nei più profondi strati sociali...". Nell'Italia ancora occupata a celebrare un'unificazione che per le classi inferiori era stata solo un cambio di padrone, gli anarchici, soli, invitavano gli sfruttati a costruire da sé il proprio destino. In questa prospettiva, uno dei tentativi insurrezionali più importanti, per concezione e per risultati propagandistici, e comunque, forse il più tipico, fu quella attuato nel 1877 nella zona del Matese da un gruppo di aderenti alla Federazione Italiana dell'Internazionale, detto in seguito appunto "banda del Matese". Vi aderivano molti dei personaggi più rappresentativi dell'anarchismo italiano dell'epoca, tra cui, in particolare, Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. La scelta della zona non era stata fatta a caso. Impervia, montagnosa, scarsamente popolata, rappresentava un ambiente ideale per la guerriglia: gli uomini avrebbero potuto facilmente compiere le proprie sortite nei vari centri abitati e poi rintanarsi al sicuro nei posti e nelle cascine abbandonate. Inoltre rispondeva bene allo scopo di prendere contatto con le masse contadine, specialmente quelle meridionali, che, abbandonate a se stesse, considerate dalle varie classi dirigenti un puro "oggetto" del potere, sembravano più di ogni altra il naturale destinatario della propaganda di riscossa sociale degli anarchici. Il 3 aprile 1877 arrivò nel Matese Carlo Cafiero insieme a pochi compagni. Sfruttando il proprio aspetto distinto (un "signore", lo definiranno i testimoni), si era fatto passare per un gentiluomo inglese con tanto di servitù in cerca di un luogo tranquillo per le vacanze. Con questa scusa aveva preso in affitto una casa del paesetto di S. Lupo, un piccolo centro isolato distante un'ora e mezzo di carrozza dalla stazione di Solopaca, sulla Napoli-Benevento-Foggia. La casa, detta Taverna Jacobelli, era spaziosa, appartata, e soprattutto, particolare importante, dotata di un'uscita secondaria che la metteva in comunicazione diretta con le boscaglie retrostanti. Qui, nelle intenzioni dei congiurati, sarebbero affluiti nei giorni successivi gli altri partecipanti all'impresa, con tutto l'equipaggiamento di armi, munizioni, zaini, borracce, ecc., necessario per la guerriglia. Gli anarchici avevano organizzato le cose con cura e con la dovuta segretezza. Senonché, a causa della delazione di un certo Salvatore Farina, il Ministro degli Interni in persona, Nicotera, era al corrente dei loro progetti, già molto prima dell'arrivo di Cafiero a S. Lupo. Nonostante questo, li aveva lasciati in pace, senza far trapelare che le loro mosse erano spiate. Lo scopo era evidentemente di prenderli in trappola al momento opportuno e imbastire una speculazione politica sull'intera faccenda. I governi e le istituzioni cambiano, ma la mentalità dei Ministri dell'Interno resta sempre la stessa. Comunque, questa tattica da temporeggiatore non si rivelò del tutto felice. Vuoi per l'abilità degli anarchici, vuoi per l'eccessiva libertà di movimento che era stata loro lasciata, onde non insospettirli, sta di fatto che il concentramento degli uomini e dell'equipaggiamento alla Taverna Jacobelli potè quasi completarsi senza che l'autorità di polizia della zona mostrasse di accorgersene. Il 4 aprile arrivò all'abitazione degli "inglesi" un folto gruppo di "servitù", con diverse casse di "suppellettili e oggetti casalinghi"; i preparativi per l'insurrezione durarono, indisturbati, per tutto il giorno. Verso sera, il locale comando dei carabinieri, insospettito dall'eccessivo movimento intorno alla Taverna Jacobelli, si decise ad inviare una pattuglia in perlustrazione. La pattuglia si tenne dapprima un poco in disparte, poi nella notte, vedendo qualcosa di simile a dei segnali luminosi fatti con lanterne, si avvicinò alla casa. Fu una mossa degna della proverbiale sagacia dei carabinieri, perché, passando per i boschi retrostanti, i militi capitarono proprio nel mezzo di un gruppo di internazionalisti lì accampati che li presero immediatamente a fucilate. La sparatoria fu rabbiosa, anche perché, al buio, gli anarchici non sapevano esattamente con quanti avversari avevano a che fare, e due carabinieri (dei quattro che componevano la pattuglia) caddero feriti. Come vedremo, uno morirà dopo alcune settimane per sopraggiunta infezione, e questo avrà la sua importanza per gli sviluppi processuali della storia dell'insurrezione. Resterà comunque l'unica vittima di tutta la faccenda. Al rumore degli spari, altri carabinieri dislocati nella zona, accorsero sul luogo, questa volta in numero più adeguato alle circostanze, ma non poterono far altro che constatare l'avvenuta partenza degli insorti. Essi infatti, seppur a ranghi ridotti, perché molti compagni non erano ancora arrivati, si erano rapidamente radunati e avevano preso la via dei monti. "L'operazione Matese", bene o male era cominciata. Per la verità, era cominciata male. Alcuni compagni sopraggiunti in seguito vennero arrestati a Solopaca e a Pontelandolfo, lì vicino. Quelli rimasti liberi, d'altronde, avevano potuto portare con sé solo una parte dell'equipaggiamento, non avevano viveri e soprattutto avevano lasciato alla Taverna Jacobelli i "cavastracci", strumenti indispensabili per pulire e caricare i fucili di quei tipi. Da questo punto di vista, l'improvvida irruzione della pattuglia causò un danno notevole all'efficienza della banda. Ma, nello stesso tempo, facendo precipitare la situazione, aveva costretto gli anarchici ad anticipare l'inizio della sommossa, in un momento in cui la famosa trappola del ministro Nicotera non era ancora pronta per scattare. E fu così che la banda del Matese poté compiere, almeno in parte, le azioni che aveva programmato. Era proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. L'alba del 5 aprile 1877 vide il gruppo degli anarchici in marcia verso nord. L'intenzione era di sganciarsi il più possibile dalle forze di polizia che stavano dando loro la caccia, e di dirigersi verso i centri abitati più isolati dove, con tutta probabilità, l'allarme sarebbe giunto con un certo ritardo. Le condizioni atmosferiche però, erano tutt'altro che favorevoli. In quella stagione, i monti del Matese erano coperti di neve, e più si saliva e più il tempo si faceva cattivo. Il freddo, oltre alla difficoltà di procurarsi viveri con frequenza, fu il vero ed unico nemico degli insorti per buona parte della spedizione. La banda era guidata da Cafiero, Malatesta e da Pietro Cesare Ceccarelli, che si alternavano ogni giorno al comando, primo tentativo, seppur limitato, di rotazione degli incarichi. Si marciò per tutto il giorno, addentrandosi sempre più nel Matese, e così si fece anche il giorno seguente. Il 7 aprile gli anarchici si diressero verso la zona di Cusano, e, dopo aver pernottato in una masseria, costeggiarono il lago del Matese, puntando verso il paese di Letino. Qui, alle dieci del mattino del giorno 8, domenica, entrarono, accolti dalla gente stupita e festosa, a seguito di una grande bandiera rosso-nera. Il caso volle che proprio in quel momento, in Municipio fosse riunito il Consiglio Comunale, che doveva decidere cosa fare di alcune vecchie armi, precedentemente sequestrate a bracconieri. La banda degli internazionalisti giunse in tempo per requisirle tutte e distribuirle, insieme ai fucili della Guardia Nazionale, alla popolazione. Si passò poi ad atti di ben altro peso. Gli insorti dichiararono pubblicamente decaduto Re Vittorio Emanuele II e ne fecero a pezzi il ritratto. Quindi provvidero a bruciare, in un grande falò acceso in piazza, tutta la "carta bollata" del Comune: registri catastali, schedari delle imposte, atti ipotecari, ecc., per dimostrare simbolicamente l'abolizione dei diritti dello stato e della proprietà privata. Infine, distrussero i contatori apposti ai mulini; che servivano a calcolare la famigerata tassa sul macinato. Agli atti concreti tennero dietro le motivazioni ideologiche. Cafiero salì sul basamento di una grossa croce (sostituita con la bandiera rosso-nera) e spiegò alla folla, in dialetto per farsi meglio comprendere, i principi della rivoluzione sociale, i suoi fini e i suoi metodi. Tutto avvenne in un clima di simpatia ed entusiasmo da parte della gente del paese, al punto che perfino il prete, Don Raffaele Fortini, si lasciò andare a dire che Vangelo e socialismo erano la stessa cosa e additò gli internazionalisti al plauso di tutti. La banda lasciò Letino verso l'una del pomeriggio e si diresse verso il vicino paese di Gallo, ad appena cinque chilometri di marcia. Ma prima ancora di giungervi si fece in contro agli insorti un altro prete, il parroco, appunto, di Gallo. Non si sa bene se per la curiosità o per la fifa, questi voleva sapere quali fossero le intenzioni della banda e si fermò un poco a chiacchierare con gli anarchici. Aprì perfino la tonaca, mostrando la miserabile sporcizia che vi si annidava sotto, per chiarire che era anche lui uno sfruttato come gli altri. Comunque, quando si rese conto di cosa si trattava, seppur a suo modo ("cambiamento di governo e incendio di carte") ritornò indietro tutto allegro per tranquillizzare i compaesani e, ad ogni buon conto, andò a chiudersi in casa. Al municipio di Gallo gli anarchici arrivarono verso le due del pomeriggio. Malatesta aprì la serratura a pistolettate, i compagni penetrarono nell'interno, e le stesse scene di Letino ebbero a ripetersi. Unica novità, venne distribuito al popolo quel poco di denaro che si rinvenne nelle casse della Esattoria Comunale. Tutto si svolse come prima, nell'entusiasmo e senza difficoltà di alcun genere. Ma le truppe governative, anche se non si erano ancora fatte vedere, non erano restate con le mani in mano. Al comando del generale De Sanget, quasi dodicimila uomini avevano stretto d'assedio nel frattempo l'intero massiccio del Matese: tre compagnie di bersaglieri a sud, un reggimento di fanteria a nord, altre forze ancora da Campobasso, Isernia, Caserta, Benevento e Napoli. Fu così che, quando abbandonarono Gallo, gli internazionalisti si trovarono praticamente e improvvisamente accerchiati. In qualunque direzione si volgessero per trovare qualche altro paese da occupare, si battevano nei presidi dei soldati e dovevano rapidamente tornare sui propri passi per non venire scoperti. A complicare la situazione si aggiunse il maltempo. Un terribile diluvio di pioggia mista a neve li sorprese già poco fuori Gallo bagnando armi e munizioni e rendendo più che mai difficoltosa la marcia. Le cose si stavano mettendo male. Gli uomini passarono tutto il 9 e 10 aprile nel duplice tentativo di cercare un rifugio e di superare l'accerchiamento, ma senza esito. Erano stanchi, affamati, fradici per la pioggia che non accennava a diminuire. I fucili erano ormai inservibili e la mancanza di cavastracci, lasciati a S. Lupo, non permetteva di pulirli e di ricaricarli. In queste condizioni, anche l'extrema ratio di uno scontro a fuoco era impossibile. Il giorno 11, la banda trovò finalmente riparo nella masseria Concetta, tre miglia sopra Letino e qui decise di fermarsi per riprendere fiato. L'intenzione era di attendere che il tempo migliorasse e quindi tentare, un'altra volta, di sganciarsi dall'assedio delle truppe governative. Ma rimase una semplice intenzione. Un contadino, sperando in un premio, aveva informato i soldati. Il 12 aprile un reparto di bersaglieri fece irruzione nella cascina sorprendendo gli anarchici. Date le condizioni degli uomini e delle armi non ci fu resistenza. L'insurrezione del Matese era finita. Gli arrestati vennero spediti in varie galere della zona e, di lì a poco, concentrati tutte nel carcere di S. Maria Capua Vetere, in attesa del processo. All'inizio le prospettive sembravano tutt'altro che rosee: il Ministro dell'Interno Nicotera, sull'onda del can can antianarchico suscitato, come era prevedibile, dalla stampa benpensante, aveva l'intenzione di far giudicare l'intera banda da un tribunale di guerra. In questo caso la conclusione sarebbe stata probabilmente una sola, il plotone di esecuzione. La faccenda non andò in porto, a quanto pare, per l'intercessione della figlia di Carlo Pisacane, Silvia, che (i casi della vita...) era stata tempo prima adottata proprio dal Signor Ministro, il quale, a sua volta, (sempre i casi della vita...) di Carlo Pisacane era stato compagno d'arme nella spedizione di Sapri. Un peccato di gioventù, evidentemente, ma salvò la pelle a Malatesta e compagni. Non che, così, le cose fossero definitivamente risolte. Anche se lo spettro di un giudizio sommario era stato allontanato, il capo d'accusa conteneva una serie di reati tali da non promettere, comunque, nulla di buono. L'istruttoria si era conclusa il 27 dicembre 1877, con una sentenza di rinvio a giudizio di questo tenore:

a) contro tutti gli arrestati, compresi quelli di Pontelandolfo e Solopaca, per reato di cospirazione avente oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo, eccitare gli abitanti ad armarsi contro i poteri dello stato e suscitare tra essi la guerra civile, inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri e portare la devastazione, la strage e il saccheggio contro una classe di persone;

b) contro i ventisei che consumarono i fatti di S. Lupo, Gallo e Letino anche pei reati di attentato in banda armata commessi allo scopo su indicato, e di complicità corrispettiva ne' reati di ferita volontaria a colpi d'arma da fuoco in persona di Antonio Santamaria e Pasquale Asciano, carabinieri reali nell'esercizio delle loro funzioni: le quali ferite produssero il debilitamento permanente di un organo ad Asciano, e, dopo i quaranta giorni immediatamente successivi, la morte di Santamaria.

Per fortuna degli accusati, il 9 gennaio 1878, re Vittorio Emanuele II morì. Infatti il successore Umberto I, essendo, come tutti sanno, un "re buono", concesse al paese una amnistia riguardante anche molti reati politici in seguito alla quale il lungo elenco di capi di imputazione della banda del Matese potè accorciarsi alquanto. Il processo si tenne davanti alla Corte d'Assise di Benevento e iniziò il 14 agosto 1878. Il processo, comunque, si svolse in un clima di grande simpatia popolare verso gli imputati, quella stessa che essi avevano sentito intorno a sé mentre bruciavano la "carta bollata" a Letino e Gallo. Gli anarchici si dimostrarono subito un osso duro per la pubblica accusa. Intelligenti, preparati, sicuri delle proprie ragioni, essi rispondevano con prontezza ai giudici, li rimbeccavano, e non perdevano occasione per fare propaganda alle proprie idee di uguaglianza e libertà. In questo vennero sapientemente aiutati dagli avvocati difensori, fra cui il giovanissimo e pur già abile Saverio Merlino, anarchico anch'egli. Per contrastare questa linea, d'altronde giuridicamente ineccepibile, il P.M. Forni fu costretto a concentrare tutte le sue energie forcaiole sulla sparatoria del 4 aprile e sulla conseguente morte del famoso carabiniere. Egli sostenne che gli insorti avevano sparato e ucciso coscientemente, per "libidine di sangue". Cafiero e Malatesta replicarono vivamente a questa accusa grottescamente esagerata e gli avvocati difensori dimostrarono, come si è già detto, che il decesso era avvenuto non in seguito alle pallottole anarchiche, ma per "sopraggiunta infezione" (in altre parole il povero militare era stato mal curato). L'immagine tenebrosa dell'anarchico assassino diventava sempre più inconsistente e, parallelamente, anche le tesi dell'accusa che su tale immagine erano costruite. La sentenza fu emessa il 25 agosto, dopo un'ora un quarto di discussione. I giurati dichiararono gli accusati non colpevoli della morte del carabiniere e applicarono l'amnistia per gli altri reati. La banda del Matese era assolta e rimessa in libertà. Era la sentenza che il popolo attendeva. Una folla di 2000 persone accolse gli anarchici, applaudendoli, all'uscita del carcere, segno tangibile della rispondenza che la "propaganda del fatto" trovava allora fra gli sfruttati. Un corrispondente del "Corriere del Mattino" di Napoli il giorno dopo concludeva così il proprio articolo sull'avvenimento: "Un processo di questi per provincia e il governo si sarebbe ucciso con le proprie mani".

da: http://web.tiscali.it/noredirecttiscali/maxtweb/aindice/archivio%20testi/013/13_09.htm


IL PROCESSO DI BENEVENTO

Le imputazioni sono quanto mai gravi. Basta considerare quella di omicidio, anche se in realtà i fatti si riducono al ferimento di due carabinieri, di cui uno morto successivamente per "causa sopravvenuta". Ora, secondo il codice penale allora vigente (quello sardo-piemontese imposto all'Italia meridionale dopo l'Unità), "l'omicidio volontario è anche punito con la morte quando è stato mezzo o conseguenza immediata del delitto di ribellione". Le accuse sono indiscriminate e quindi tutti gli imputati ugualmente responsabili di delitti capitali. La sorte è dura per tutti. L'amnistia concessa da Umberto I il 19 gennaio 1878 estingue la maggior parte dei reati, ma non cancella il ferimento dei due carabinieri. Perciò sono liberati i cospiratori di Solopaca e di Pontelandolfo non coinvolti in questo ferimento. Gli altri ventisei imputati sono sottoposti a procedimento penale per omicidio conseguente ad atto di ribellione contemplante la pena di morte. Il processo contro la banda del Matese ha inizio il 14 agosto 1878 per concludersi il 25 dello stesso mese. Da una nota giornalistica si ricava l'idea di una simpatia spontanea della popolazione beneventana verso gli accusati. La città, certo, è dominata da una classe politica che ormai fa pienamente corpo con la borghesia nazionale, anche se in funzione subalterna per la sua più arretrata condizione economico-sociale. E una classe che trova nelle strutture del nuovo stato gli stimoli di una competizione fatta spesso di colpi bassi e di sordi rancori e tuttavia ispirata ad una comune ideologia di conquista. Ma questa è la città legale. La città reale invece sembra incline a concepire per gli anarchici un moto di approvazione. "In questa piccola e remota città del mezzogiorno, scrive il Masini, soffocata dalla calura estiva e da una non meno pesante coltre di arretratezza, il dibattimento riuscì ad interessare e commuovere le popolazioni locali, suscitando grande simpatia intorno agli imputati e alle loro idee. Anche perché in quel mese di agosto del 1878 l'eco di drammatici eventi - come l'uccisione avvenuta ad Arcidosso il 18 agosto del "profeta" Davide Lazzaretti e di tre contadini suoi seguaci ad opera dei carabinieri - si ripercuoteva nell'aula di Benevento confermando una situazione sociale carica di rivolta, sia pure espressa da briganti o da visionari, alla quale gli internazionalisti avevano cercato di dare con la loro iniziativa uno sbocco politico rivoluzionario. Il giorno di inizio del processo la città è attraversata come da un brivido di commozione. C'è una grande animazione nelle strade; un trascorrere di voci e sussurri; la gente si incontra, si intende, si agita. L'impressione è quella di un pericolo, che il dispiegamento della forza pubblica rende ancora più sensibile. Il percorso che va dal carcere al tribunale è tutto pattugliato da truppe di linea. Gli imputati lo attraversano, manette ai polsi, tra quaranta carabinieri, con la baionetta inastata, sfilando come dominatori. "Sono tutti vestiti con decenza, si legge in una corrispondenza, qualcuno con eleganza; hanno l'aria di chi vada a festa e sorridono a manca e a destra, dovunque incontrino uno sguardo che li cerchi amichevole, dovunque trovino una faccia commossa di donna o di fanciulla. I ventisei anarchici, quasi tutti giovanissimi, non hanno altri precedenti che una vita di fede, di sacrificio e di coraggio. Carlo Cafiero, alto e bello, elegante ed eloquente, sembra torreggiare accanto ad Enrico Malatesta, di ventiquattro anni, piccolo e bruno, occhi neri, tutto fuoco interiore ed intelligenza. Il processo ha inizio con la lettura dei diciannove volumi compilati dal giudice istruttore: una lettura faticosa e stentata. Il cancelliere inciampa e cade soprattutto nell'impatto con i nomi stranieri. Si ferma ogni tanto, prende fiato, smania, suda. Tanto più che la pazienza dei prigionieri crolla ogni volta che egli è costretto a pronunciare la frase "lascivia di sangue" quale motivazione dell'omicidio. Carlo Cafiero, ad un certo punto, sente la necessità di intervenire. "Ho bisogno di darvi una spiegazione, dice: non è l'aver sparso il sangue dei carabinieri che ci fa onta; ma l'accusa per averlo fatto per lascivia di sangue. Se noi avessimo uccisa un'intera legione di carabinieri in combattimento, noi non ce ne sentiremmo offesi; ma quando ci si dice che abbiamo ucciso pur una mosca per lascivia di sangue la nostra coscienza si ribella a questa accusa". Per questa ragione, tutti gli imputati oppongono al presidente della Corte d'Assise uno sdegnoso silenzio sulla materia specifica degli addebiti, mentre si dicono pronti a fornire ogni chiarimento sulle finalità dell'Internazionale, di cui si dichiarano militanti. Nelle parole di Carlo Cafiero che è il corifeo del dramma processuale la Prima Internazionale si configura come la chiesa del comunismo universale, del quale il primate italiano appare Andrea Costa: il suo scopo fondamentale non è la distribuzione della proprietà, ma l'uso collettivo di essa nella federazione delle associazioni produttive, fuori da ogni sistema gerarchico, lungo una linea orizzontale di rapporti sulla quale non può correre altro ideale che quello della fratellanza, agli antipodi della società capitalistica, che, come aggiunge Malatesta, non dà alternativa agli uomini tra l'essere vittime o carnefici, per cui gli internazionalisti, rifiutando questo tragico dilemma, non hanno altra speranza che la demolizione della causa fondamentale della degradazione umana: l'eliminazione cioè della società degli oppressi e degli oppressori. Questa utopia affascina anche i difensori, ma travolge soprattutto l'avvocato Francesco Saverio Merlino, un giovane di ventuno anni, che penetra così intimamente nel credo dei prigionieri da diventare uno di loro, dando espressione appassionata e coraggiosa al loro pensiero. Nato a Napoli da una famiglia di giuristi e uomini d'ordine, educato religiosamente dagli scolopi, insieme con Enrico Malatesta, egli arriva al processo di Benevento come l'arcangelo dell'idea anarchica, tra difensori di mestiere come Nardoneo, Barra, Barricelli, in antagonismo con un pubblico ministero, Eugenio Forni, già questore di Napoli, dalla mentalità poliziesca, per il quale la famiglia e la proprietà, pilastri della civiltà romana, sono la sola garanzia dell'ordine e della giustizia. La tesi del pubblico ministero, a parte la retorica dell'ideologia conservatrice, consiste nel dimostrare che responsabili di omicidio non sono soltanto gli autori materiali del ferimento, peraltro mai individuati, ma tutti i membri della banda del Matese, concorrenti solidarmente nell'attuazione dei crimini, consapevolmente e volontariamente; e che, una volta acclarata questa responsabilità collettiva, il reato non ha nulla di politico, e quindi non è soggetto alla legge dell'amnistia, ma ha tutti i caratteri di un crimine compiuto, non già per scopo di insurrezione, ma per libidine di sangue. Una requisitoria, questa, che è un capolavoro di incongruenza: da una parte si parla di attentati alla sicurezza dello Stato e di reati di ribellione; dall'altra si contesta il fine politico degli atti delittuosi. Perciò i giurati tagliano il nodo delle contraddizioni rispondendo negativamente alla prima domanda sulla morte del carabiniere. Così i prigionieri sono dichiarati innocenti e la morte del carabiniere è attribuita a causa sopravvenuta. La seconda domanda (se l'omicidio rientri nel reato di insurrezione e come tale sia suscettibile di amnistia) cade per effetto di conseguenza logica. Dopo la lettura della sentenza, nella sala scoppia un battimano. Un processo come questo per ogni provincia e il governo si può impiccare con le proprie mani. Gli accusati, messi in libertà, scendono in piazza e si recano al carcere seguiti da una folla di circa duemila persone: "le quali non nascondono la loro simpatia per gli assolti. Alle cinque, sempre in mezzo alla stessa calca, si conducono alla Trattoria del Sannio. La folla li aspetta come li aveva aspettati al carcere. Dopo il pranzo scendono e vengono acclamati nuovamente. Quest'oggi Benevento è in festa. Essa ha smentito la sua fama di città retriva e clericale. E certamente, se si guarda al comportamento del popolo nella sua elementare umanità, è così. La città dimostra un senso di solidarietà per i rappresentanti del movimento anarchico veramente toccante, di cui si fa eco, durante la celebrazione del processo il corrispondente locale del giornale napoletano, "Il Corriere del Mattino", di sentimenti anarchici come un po' tutti i socialisti della Prima Internazionale (Pasquale Martignetti ?). Ma è solo una folata di vento che passa senza lasciar traccia. Il destino del mondo contadino, chiuso il processo, si chiude anch'esso come un cerchio mortale. Prima il brigantaggio senza strategie e senza capi; ora il comunismo anarchico, senza percezione della realtà, apre la porta all'utopia. L'anarchia sembra, indubbiamente, aver capi di alto livello: ma vengono da lontano e vanno ancora più lontano. Quanti nomi di principi russi! Uomini generosi, ardenti, entusiasti, non hanno la percezione dei confini della realtà: sono, per così dire, affetti da presbiopia intellettuale: vedono chiaramente lontano, là dove splende l'isola del sogno, la città dell'avvenire, la Gerusalemme celeste; non vedono la realtà che hanno sotto gli occhi: si lasciano sfuggire i problemi reali per amore dei regni ideali: un sublime tradimento del realismo e dello storicismo marxiano. Ci sono anche le tragedie, ma si tratta di disegni fantastici, creati sull'onda del desiderio da una immaginazione onirica. Eppure è proprio la visione del sogno che suscita un fremito di elevazione nelle plebi beneventane: è l'idea di un'epoca divinamente eroica che accende le speranze più assurde. La città vive di riflesso questa esperienza esaltante; ma, subito dopo il processo, ritorna alla sopportazione rassegnata di un regime che ormai ha imparato a risolvere i problemi sociali con l'uso della forza e a imporre la logica delle istituzioni unitarie come l'unica soluzione possibile dei suoi mali.

 

da "Storia di Benevento e Dintorni" di Gianni Vergineo, Ed. Ricolo, Benevento, 1987

 

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Ultimo aggiornamento:

 29 ottobre 2006