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Il Brigantaggio nel Salento |
Il territorio
salentino non ha mai avuto una vera e propria tradizione
brigantesca. Tuttavia, in molti, dovettero ricredersi quando il
giornale "La tribuna del Salento", nel 1971, cominciò a pubblicare
a puntate "Brigantaggio e reazione nel Salento dopo il 1860".
Domenico De Rossi si adoperò molto in questo senso, fornendo,
grazie alle sue ricerche, una precisa documentazione
sull'argomento e arrivando alla conclusione che "è vero che i
briganti non fecero mai epoca, né si imposero con gesta
leggendarie, ma arricchirono quel quadro mai abbastanza chiaro dei
primi tormentati anni della nostra unificazione".
Nel panorama del Mezzogiorno il brigantaggio che si svolse nel
Salento, per espansione, densità e durata, occupò un posto
secondario.
Questo spiega perché la provincia di Lecce non venne compresa
fra quelle che furono dichiarate, il 20 maggio del 1863, "invase
dal brigantaggio".
Ciononostante, anche in territorio salentino, questo fenomeno,
che paralizzò l'ascesa del Mezzogiorno, non mancò di produrre
gravi effetti, procurando forti preoccupazioni al nuovo governo.
Scoppiato dapprima nella Basilicata, si estese, poi, a quasi tutte
le province del Salento.
Numerose furono le bande che operarono in questo territorio,
lasciando, chi più e chi meno, tracce indelebili nella storia
della nostra terra: quelle di Francesco Ronaldo, detto "il
Catalano", di Francesco Paolo Valerio, detto "il
Cavalcante", di Antonio Locaso, detto "lu Capraru", e
altre ancora.
Ma la figura più caratterizzante fu senza dubbio quella del
"brigante letterato", Giuseppe Valente, chiamato così per
la sua spiccata capacità dialettica e stilistica; fu, infatti, uno
dei pochi briganti a non essere analfabeta. Egli redigeva
personalmente le "missive" che, poi, inviava alle famiglie più
ricche per estorcere loro denaro.
La banda del Valente ebbe un'attività impressionante. Nei soli
mesi di settembre - dicembre del 1862, riuscì a perpetrare "83
reati fra omicidi, rapine, estorsioni, sequestri di persona,
incendi, furti di bestiame, resistenza e tentati omicidi a
componenti della forza pubblica" (D. De Rossi).
Il Valente venne arrestato il 21 dicembre dello stesso anno e
consegnato alla Guardia Nazionale. Altri componenti della sua
banda vennero catturati e tutti furono condannati all'ergastolo.
Le ultime rappresaglie si verificarono nella zona del Capo di
Leuca, dove il brigantaggio era ormai ridotto a volgare
delinquenza.
La stampa del tempo, dai giornali più importanti ai fogli di
provincia, considerando il brigantaggio come un pericoloso
ostacolo al consolidamento del nuovo ordine costituito, lo attaccò
violentemente, incoraggiando il governo ad adoperare ogni mezzo
per combatterlo e debellarlo.
Accanto ai provvedimenti legislativi, vennero presi
provvedimenti militari, che si articolarono in vere operazioni
tattiche contro i malviventi. Queste disposizioni ebbero
scrupolosa esecuzione da parte delle autorità della Provincia le
quali, allo stesso scopo, presero altre personali iniziative.
Reazione e brigantaggio nel Salento, combattuti senza tregua, dopo
il 1865, potevano considerarsi solo un triste ricordo.
Il brigantaggio fu soltanto il primo dei grandi problemi che la
nuova Italia dovette affrontare nelle provincie meridionali. Solo
il primo di una lunga serie che porterà alla costituzione della
complessa "Questione Meridionale".
Valentina
Vantaggiato -
http://www.otrantovacanze.com/In%20Primo%20Piano/brigantaggio.asp
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IL TESORO DI RATIIA:
storia di una leggenda pugliese
di Valentino
Romano
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Le leggende,
come i miti, nella cornice fantastica del loro genere nascondono
sempre profonde verità e, con la loro capacità di suscitare
riflessioni, non possono essere sottovalute. Soprattutto da chi,
come noi, è abituato a leggere tra le righe ed a ricercare verità
nascoste ed occultate ai più.
La leggenda
che ha stuzzicato oggi la mia attenzione è quella di un tesoro,
“il tesoro dei ventiquattro ladroni”. Il topos letterario
sottostante è evidente: chi non ricorda Alì Babà, i suoi quaranta
ladroni, il loro favoloso tesoro?
Questa volta
il luogo è diverso: non l’Oriente immaginario di Alì, ma il
Salento, estremo lembo dello stivale e provincia rigogliosa e
ferace al tempo dei Borbone.
I “ladroni”
non potevano che essere i nostri briganti. Anche questo è un altro
luogo comune che – nostro malgrado - ci portiamo sul groppone: il
tesoro non può che essere quello dei briganti. Ad arraffarlo non
possono essere stati che i briganti.
Ancora oggi
c’è gente, nel Meridione, che “va per grotte” a scavare e a
picconare alla ricerca di improbabili ricchezze nascoste dai
briganti. Chi mai ha raccontato, favolisticamente o meno, di
un’associazione di gentiluomini, di notabili che si sia
impadronito di un tesoro? Il discorso ci porterebbe lontano e lo
affronteremo un’altra volta.
Torniamo ai
nostri briganti: nel Salento molti ancora ricordano le gesta della
banda composta, dice la tradizione, da ventiquattro “malfattori.
Di loro non
si sa nulla, non si conosce il nome, né di capi, né di gregari: le
congetture si sprecano; dal momento che la leggenda riferisce di
una rapina ai danni della Baronessa di Copi, che viveva in una
masseria di Galatina (Le), molti hanno attribuito il fatto alle
bande operanti in quel territorio, il novolese Giuseppe Ippolito,
il famoso Pizzichicchio (Cosimo Mazzeo) o il famigerato Fusulu.
Non vi sono riscontri documentali all’episodio, per cui ogni
ipotesi può essere presa per buona da chi vuole crederci. Di certo
vi è che tali personaggi operavano effettivamente nel Salento, e
più precisamente nella zona che va da Brindisi fino a Gallipoli,
interessando anche la plaga dell’Arneo ed alcune zone del
Tarantino.
Ratiia –
narra la leggenda - era una donna di bellezza incredibile. Sarebbe
nata a di Salice (paese a cavallo tra l’attuale provincia di
Brindisi e quella di Lecce, nel cui territorio oggi ricade). Fu
rapita (e poteva essere diversamente?) dal capo dei briganti
mentre raccoglieva “culummi”, fioroni cioè; il capo e la vita
brigantesca la soggiogarono a tal punto che divenne una delle
ispiratrici delle imprese della banda. Avrebbe, infatti, suggerito
lei stessa l’attacco alla masseria della Baronessa di Copi. Qui i
briganti avrebbero trovato un tesoro “favoloso” e ne avrebbero
depredato la gentildonna. Appare utile esaminare le modalità
dell’attacco che la banda, sempre secondo la leggenda, avrebbe
perpetrato: una torma di uomini a cavallo, incappucciati, una sera
d’inverno, avrebbero fatto irruzione nella masseria: liquidati
sbrigativamente i guardiani (sgozzati), la banda incendiò i
fienili, le stalle e la cappella (compiendovi atti sacrileghi). La
Baronessa cercò rifugio nella fuga, ma fu raggiunta proprio da
Ratiia che riuscì a strapparle i forzieri. Le successive ricerche
delle forze dell’ordine non dettero alcun risultato.
La storia
presenta molti lati oscuri e contraddittori. Innanzi tutto non vi
è traccia di un tale episodio negli archivi briganteschi finora da
me consultati (non escludo, però, che possano essercene da qualche
parte).
I banditi
sarebbero arrivati alla masseria “incappucciati”. Vivaddio, quando
mai una banda brigantesca ha agito “con i cappucci”? Sarebbe un
unicum che francamente non si può condividere.
E’
credibile, poi, l’ipotesi di una nobildonna che, in tempi così
difficili, detiene le proprie ricchezze in una masseria isolata e
priva di sicurezza?
Difficile
anche sostenere che i briganti abbiano potuto commettere atti
sacrileghi. Proprio i briganti che conservarono sempre intatta la
loro religiosità, a volte esasperandola, spesso distorcendola, mai
negandola!!!
Gli
assalitori, secondo me, tutto potevano essere men che “briganti”.
La banda poi
sarebbe stata sgominata solamente dopo dieci anni. Anche questo
elemento della leggenda induce a riflettere: quante bande
brigantesche hanno potuto operare in un così ampio arco temporale?
Il
capobanda, ferito a morte, avrebbe ordinato a Ratiia di mettere in
salvo il tesoro: la donna avrebbe sotterrato il bottino in un
luogo nascosto.
Ve
l’immaginate una banda che non sa come sopravvivere
quotidianamente, che non utilizza per dieci anni un bottino così
ingente?
Suvvia, la
storia - per leggenda che sia - non regge proprio: è figlia dei
tempi, della cultura perbenista e risorgimentale dell’epoca, che
aveva ogni interesse ad attribuire ai “briganti” misfatti veri,
presunti e più spesso inventati.
Allora, se
la storia è completamente inventata, dov’è la verità profonda
contenuta nel racconto, quella stessa di cui parlavo all’inizio?
E’
nell’epilogo, a ben riflettere: molti - narra sempre la leggenda -
si sforzarono di trovare il tesoro, non riuscendovi fino a quando
alcuni contadini – sulla scorta di alcune voci – riuscirono a
individuare il nascondiglio: scavarono e trovarono i forzieri, ma
mentre li dissotterravano furono presi a fucilate dal fattore del
posto; scapparono ed il furbastro si impossessò del tesoro.
Successivamente, con i soldi ricavati, acquistò terreni ed
immobili, creandosi un’agiatezza economica che portò negli anni
successivi la sua famiglia a divenire una delle più ricche
dell’intero Salento.
Ecco la
verità nascosta: molti, in un periodo tragico della nostra storia,
hanno tratto vantaggio dal sangue e dal sacrificio di una classe
sociale che osò ribellarsi, contrapponendo la sola arma possibile,
la violenza di gruppo al sopruso della legge ed alla legge del
sopruso: intendo la classe dei contadini meridionali che in breve
diventarono per l’opinione pubblica i “ briganti”, i moderni
appestati, gli uomini fuori dal consorzio umano, i perturbatori
dell’ordine costituito (ed imposto), gente da eliminare ad ogni
costo e senza pietà.
Molta gente
ha utilizzato il ribellismo contadino della seconda metà
dell’ottocento per rafforzare il proprio potere economico e
sociale, anche alimentando nella credenza popolare storie come
questa.
Tocca a chi
come noi è abituato a leggere tra le righe, non solamente
ricercare le verità nascoste negli archivi o smontare le falsità
di una storia costruita ad uso del regime. Ci tocca pure
combattere le leggende e i luoghi comuni.
http://www.adsic.it/economiasociet%C3%A0/Il_tesoro_di_Ratiia.htm
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LA LEVA FORZATA A GALLIPOLI
pubblicato sulla rivista "STUDI
ETNO - ANTROPOLOGICI E SOCIOLOGICI" N. 29 - ANNO 2001
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Dopo l’Unità, l’inferiorità economico-sociale del Sud rispetto al
Nord, che condizionò nei decenni successivi lo sviluppo di tutta
l’Italia, si accentuò. La gretta politica dei governi moderati
rese ancora più gravi le condizioni delle popolazioni meridionali,
specie dei contadini, penalizzate dall’ignoranza, dalla
superstizione, dalla disoccupazione e dalla miseria. Solo la
borghesia delle professioni, del commercio e della finanza
ricevette dei concreti vantaggi: ad essa ed ai proprietari
terrieri andarono le cariche pubbliche ed il governo delle
amministrazioni locali. Il popolo, relegato ai margini della
società, al quale venivano negati i diritti politici, veniva
sfruttato nelle fabbriche e nelle campagne o utilizzato come carne
da cannone nelle guerre. Ai primi entusiasmi aveva fatto seguito
una profonda delusione: alle masse meridionali, agricole nella
stragrande maggioranza, sin dall’inizio, il nuovo Stato si
presentò con tutte le caratteristiche di un’autorità estranea ed
oppressiva. Garibaldi era stato accolto come liberatore, ma il
nuovo governo si mostrò ancora più oppressivo del precedente: esso
aumentava il carico fiscale; stroncava sanguinosamente i moti per
la terra; introduceva la coscrizione obbligatoria, che prima era
sconosciuta al Sud. Le proteste, anche violente, non si fecero
attendere e vennero alimentate dalla spietata repressione, che
scavò un fossato sempre più profondo tra le due parti. Su questa
situazione di profondo disagio delle masse si innestarono gli
interessi restauratori di Francesco II e degli strati sociali che
ancora lo sostenevano: la nobiltà, l’alto clero, la burocrazia
dell’ex regno borbonico. Gli agenti dell’ex sovrano spodestato,
coadiuvati dal clero più retrivo
(1), operavano
capillarmente e riuscivano ad utilizzare la rabbia della povera
gente in funzione filo-borbonica. Anche a Gallipoli esisteva un
partito filo-borbonico e papista, guidato da Padre Giovan
Battista Di Mesagne, un monaco cappuccino, indottrinato dal
giornale cattolico intransigente l’Armonia, diretto da
Don Margotti, che sfruttando il disagio e la miseria del
popolo lo sobillava contro il regime unitario. Da qualche tempo
ogni occasione era propizia per scatenare proteste e tumulti e la
Città fu teatro di una cruenta rivolta, il 24 novembre 1861,
mentre era riunito nel Municipio
(2) il Consiglio di
Leva, presieduto dall’assessore Pasquale Riggio, che
sostituiva il sindaco assente, per esaminare i reclami di quei
giovani che chiedevano di essere esonerati dal servizio militare
(3). Così scriveva, nel
n° 1 del maggio 1862, Il Gallo
(4),
Giornale popolare gallipolitano:
"Riunitosi in quel giorno il nostro Consiglio di Leva a discutere
per la prima fiata le dimande dei reclutabili, qualche centinaio
di uomini dell’ima plebe, divisi pria in vari gruppi ed in diversi
luoghi della Città, verso le ore 3 pom.
(5), capitanati dai più
temerari e facinorosi, con bandiere spiegate, irruppero serrati
nella strada maggiore della piazza gridando, Viva il Re! Viva
Giuseppe Garibaldi! Viva la Libertà! Erano grida ingannevoli,
perciocchè inoltrandosi sin sotto la Casa Municipale, ivi con atti
minacciosi e d’inenarrabile furore si fecero a gridare: Abbasso
la Leva, non la vogliamo più, abbasso il Municipio, morte al
Sindaco. Inferocita ed ingrossata viepiù quell’orda
forsennata, ripiegò per la stessa strada ad invadere il palazzo
della Sotto-prefettura ed a minacciare il Sotto-prefetto ed il
Comandante la Piazza, scontrandoli per via. Né gli argomenti
persuasivi né le preghiere di queste due autorità valsero ad
acchetare la turba frenetica, che più infellonita e tumultuante
rincalzava quelle grida, attentando, munita d'armi, alla vita di
chi eseguiva i regi e parlamentari decreti, e di quanti
amorevolmente consigliavanle l’ordine, il rispetto alle leggi,
alla Nazione, e al Re eletto. Per essa ogni mite spediente fu
indarno, e grazie al coraggio ed al noto patriottismo del Signor
De Cesare
(6), del Maggiore
d’Apollo, degli Uffiziali, del Laviano, dei militi
della G. N. [Guardia Nazionale]
(7) e di pochi altri
cittadini di buon volere, si disperse sgominata e vinta dal
valore, e più dai colpi del moschetto, parte in aria, parte
diretti a chi rabbioso s’avventava ad offesa e a disarmo - Tre
furono le vittime rimaste sul terreno
(8) , e sette i feriti,
tra cui alcuno innocente". Cessato il tumulto, verso la
mezzanotte, i componenti il Consiglio di Leva, che durante i
disordini avevano continuato a svolgere le operazioni,
accompagnati dal sacerdote Tamborrino, si recarono nei
locali della Sottoprefettura per ringraziare le Autorità civili e
militari che si erano prodigate per sedare la rivolta. In quel
luogo erano stati condotti i più esagitati tra i rivoltosi che,
dopo essere stati interrogati e redarguiti, redatti i relativi
verbali, furono portati in carcere. Il giorno dopo, 25 novembre,
nel Palazzo Comunale, si riunì con urgenza la Giunta municipale
che, avendo constatato che la dimostrazione del 24 era stata opera
di "pochi faziosi, e non rappresentava il pensiero di Gallipoli,
ferma nel suo patriottismo Italiano ed obbediente alla legge",
nella convinzione che "quella plebe ignorante era stata preparata,
ingannata e spinta da conventicole apposite, fors’anco abusando
dei luoghi consacrati al culto di Dio", deliberò di presentare i
propri ringraziamenti al Sottoprefetto Giuseppe De Cesare,
al Comandante la G. N. Luigi Laviano, al Comandante
militare distrettuale Maggiore d’Apollo, al Comandante la
truppa regolare Capitano Jacopo Testi, che "con ogni
energia si esposero soli agli insulti ed alle violenze di quell’orda,
con grave pericolo della propria vita, e combattendola impedirono
i più gravi misfatti […]. Inoltre, ringraziò gli Ufficiali, la
truppa della Guardia Nazionale ed il "picchetto dei militi posto
alla custodia delle prigioni, che seppe con coraggio respingere
gli sciagurati che tentavano invadere il palazzo della città"
(9). Il giudice
Ferdinando Vetromile, titolare del mandamento di Maglie, in
quel periodo sostituto del titolare di Gallipoli, Giovanni
Lucanio, ebbe l’incarico di istruire il processo.
Successivamente le carte processuali furono inviate presso la Gran
Corte Criminale di Lecce che deliberò di mandare assolti tutti i
rivoltosi. Questa inattesa decisione destò amarezza e
disapprovazione tra tutti coloro che si attendevano un verdetto di
condanna, poichè essi erano "convinti, che a dispetto della G.
Corte, de’ Giudici Istruttori, e de’ testimoni, il processo, tale
quale trova[va]si compilato, cont[eneva] pruove sufficienti a far
giudicare il reato punibile almeno con quegli stessi due mesi di
carcere scontati già dai colpevoli pendendo il giudizio"
(10). Il 12 febbraio
1862, i membri della Giunta municipale, questa volta presieduta
dal Sindaco Giacomo Papaleo, avendo, ancora una volta,
constatato che l’offesa ad essi recata da alcuni facinorosi era
rimasta impunita "o per commiserazione, o per errore o per
insufficienza", "nel mentre manifestavano come privati il loro
compiacimento per la liberazione di tanti concittadini, i quali
mancarono per ignoranza, per illusione e forse per seduzione, come
pubblici funzionari si dolevano, nello stesso interesse della cosa
pubblica, per non esservi stata una legale parola di biasimo
contro coloro che scambiano la libertà con libertinaggio", e nella
convinzione che "il popolo non rispettando i propri
rappresentanti, non rispetta[va]* se stesso, e non p[oteva] avere
chi lo serv[iva]"
(11), rinnovarono le
dimissioni già presentate alla fine di gennaio e respinte dal
Prefetto il successivo 5 febbraio. Il 23 marzo si riuniva il
Consiglio comunale, in seduta straordinaria, per provvedere alla
nomina di una nuova Giunta. Il Consigliere Emanuele Barba
(12) propose al
Consiglio di esprimere alla Giunta municipale la sua solidarietà e
i ringraziamenti per aver essa bene operato durante i tumulti del
24 novembre e per aver giustamente protestato per
l’inqualificabile comportamento della Gran Corte Criminale di
Lecce "per la scandalosa impunità concessa ad un branco di
facinorosi"; di pregarla di ritirare le dimissioni e di continuare
a rappresentare il Consiglio ed il Comune che fino ad allora aveva
sapientemente amministrato. Infine invitò i Consiglieri " […] Per
la dignità del Consiglio dichiarare al Prefetto, al Ministro
dell’Interno, di Grazia e Giustizia, e al Parlamento, il giusto e
profondo dolore del Consiglio medesimo per la niuna soddisfazione
concessagli da chi rappresenta[va] nella Provincia la giustizia".
Il Consiglio, dopo aver ascoltato la proposta del Consigliere
Barba; "intese le orali dichiarazioni degli onorevoli
Assessori ;[…] considerando che non poteasi in miglior modo e con
più decorosa insistenza operarsi dalla Giunta a sostegno della
dignità del Consiglio a solenne protesta contro la ribellione
giuridicamente dileguata; considerando finalmente che la
scandalosa impunità concessa da una Gran Corte Criminale non d[oveva]
privare il Comune stesso di solerti e plauditi amministratori, il
che sarebbe un far soffrire due pene a chi non commise alcun
delitto" […], deliberò, all’unanimità, di adottare la proposta di
Emanuele Barba "alla quale pienamente si uniformava"
(13). Dopo ciò, la
Giunta Municipale, soddisfatta, ritirava le dimissioni. Qualche
mese dopo i gravi fatti, nel maggio 1862, il Barba indirizzava ai
governanti italiani il seguente messaggio: "Signori del Governo
del Re, anche noi vogliamo rivolgervi la nostra libera e
rispettosa parola sotto l’egida sacrosanta dello Statuto – Signori
illustrissimi, la Città di Gallipoli non meno delle altre ha
sofferto il giogo della tirannide borbonica, e non meno delle
altre fremente di libertà ha sempre anelato a scuoterlo – A prova
di ciò, o signori, stanno indelebili nelle nostre storie i
martirii da nostri illustri cittadini patiti […]. Signori
onorevolissimi, quale incoraggiamento in due anni di libero
Governo si ha avuto la nostra Città? Qual riparazione si è fatta
ai danni sofferti dalla classe benemerita e militante del suo
popolo, e ad esempio del popolo? Se per le poche anime elette fu e
sarà premio sufficiente la coscienza di aver compiuto il proprio
dovere verso l’Italia, per le moltitudini, o signori, questo
nome santo d’Italia, è ancora un intuito confuso, un sentimento
indistinto, ed è necessario che diventi intelligibile ed
eloquente; è necessario che queste veggano l’equità e sperimentino
i vantaggi materiali e morali del Governo d’Italia, […]. Il
nostro popolo invece ha visto finora – le sue capacità liberali
sistematicamente neglette – i meno onesti e i più retrivi premiati
– il porto tutt’ora in germe, nonostante che da anni dormano in
cassa 60 mila ducati destinati a tal opera
(14), e che
ovvierebbero alla fame ricorrente di chi vive dal lavoro – scene
orribili di naufragi e miserie di naufraghi – le sue speranze
deluse sulla implorata restituzione della più vitale delle rendite
Comunali, quella del grano a staio sull’olio
(15),
da tanti anni usurpatagli – ed un subisso di leggi, i cui certi,
pronti e benefici effetti son la gloria di chi le dettava, la
fortuna de’ tipografi, e la speranza di farle attuare dai posteri.
Signori, se è nostra fede che il governo di un Re galantuomo
voglia essere nazionale, giusto, equo e riparatore; se è nostra
convinzione che esso debba assumere un indirizzo politico
ed amministrativo, vivificatore non distruttore di quella fede; è
stato nostro amarissimo cordoglio il vedere negli antecessori
delle SS. VV. uomini, comechè sapientissimi e patrioti, discordi
sempre nello indirizzo, fautori di impudenti consorterie, e di un
dualismo che fu lo scandalo del popolo e l’unica forza dei nostri
nemici. Signori rispettabilissimi, gradite per ora questi brevi
ricordi, e provvedete ai nostri urgenti bisogni – sapientibus
et volentibus pauca"
(16). Nello stesso
tempo, il Barba, cosi si rivolgeva alle classi lavoratrici della
sua amata Città: "Ora a te, popolo di Gallipoli – Tu più degli
altri popoli meridionali sei docile, generoso e poetico, e perché
tale soffri più intenso il morbo italiano, […]. Popolo, la massima
parte di te è ancora plebe, plebe laboriosa è vero, ma plebe, che
ignara dei suoi diritti e dei suoi doveri, superstiziosa, e perciò
facile ad essere sedotta dai tuoi nemici, che sono i nemici di
Garibaldi, di Vittorio Emanuele, di Cristo, e di ogni popolo – E’
questa la più grave sciagura, alla quale ti condannò il passato
dispotismo, lasciandoti nell’ignoranza e perseverando la tua buona
indole – Popolo, la Provvidenza donandoti Garibaldi ed un Re
leale, volle lenirti quel male, migliorare la tua plebe, renderti
degno di quella libertà che bramasti ed ottenesti. Qual buon uso
hai fatto, o popolo, di questa libertà da due anni largitati? Noi
tel diciamo con profondo dolore: poco, ben poco, e per
causa di quel morbo che hai comune con gli altri popoli. A prova
di ciò ti ricordiamo esser già un anno da che sursero in mezzo a
te due Associazioni a scopo onesto, civile, filantropico:
una delle quali apriva scuole serali per l’istruzione della tua
plebe e de’ tuoi figli; l’altra iniziava un monte annonario.
Grande fu il numero degli associati, grandissimo il concorso alle
scuole ed alla sala dei Giornali, migliori le speranze economiche
ed industriali. Ma tutto in brev'ora finì – l’una si sciolse per
subito sconforto, l’altra assai più presto, contraddicendo a sè
stessa. Popolo rinunziasti al primo elemento della vita dei popoli
liberi, al migliore de’ tuoi diritti, alla Associazione, e
ben duro è il fio che ne sconti. L’opera costante della setta dei
tristi disertò quelle scuole che diradavano l’ignoranza, sedusse
la vil parte di tua plebe e la spinse ad atti di ribellione,
tentando di oscurare la tua fama di rispettoso alle leggi,
e giunse fino ad allontanare nei giorni quaresimali le tue donne e
la tua plebe pur dalla casa di quel Dio, che sempre benedisse a
chi regna per sua e tua volontà. Popolo perdona i tuoi nemici,
pensa al tuo morbo, e ricambia di fede chi con amore te ne addita
i rimedi nella concordia, nell’associazione e nella
costanza de’ santi propositi"
(17).
NOTE
(1) La maggior parte del clero di Terra d’Otranto,
dopo l’Unità, tenne un comportamento oltremodo ambiguo nei
riguardi del nuovo regime: poche, però, furono le proteste e gli
eccessi reazionari. Il Capitolo della Cattedrale di Lecce si
rifiutò di cantare il Te Deum in occasione dell’ingresso a
Napoli del re Vittorio Emanuele II. Nella chiesa delle Anime del
Purgatorio di Gallipoli il canonico Manzolino si comportò in modo
diverso, cantando l’inno, nonostante l’opposizione di alcuni
Nobili congregati. Cfr. D. De Rossi, Sette segrete e
brigantaggio politico in Terra d’Otranto nel periodo del
Risorgimento italiano, Cutrofiano, 1979, pp.115-121. Così
scriveva, il 18 aprile 1863, il giornale Cittadino Leccese:
"Per vincere il clero retrivo, noi abbiamo creduto sempre che
unico mezzo è quello di non curarlo. Non è co’ cattivi preti che
si fa l’Italia, ma colle buone armi e co’ buoni consigli; dunque
perché tanto preoccuparci di essi? Vi sono dei preti che non
vogliono cantare il Te Deum nei giorni delle feste civili,
si rifiutano di pregare pel Re nel Venerdì Santo. Questi preti
sono i nemici dell’Italia; e che si è fatto finora contro di loro?
Si è gridato la croce addosso, e si son compilati de’ processi?
Noi abbiamo deplorato questo procedimento. Bisognava, secondo noi,
dimostrare a loro che le feste civili non sono riuscite meno
brillanti, senza il loro concorso, e che il Re d’Italia gode, di
buona salute, intende alla prosperità del suo popolo, senza le
loro preghiere o benedizioni cui non sa in coscienza cosa farsene
. L’indifferenza, la noncuranza, se volete anche il disprezzo;
ecco la sola risposta degna di noi verso i loro insolenti rifiuti.
Se noi avessimo serbato maggior rispetto per la logica, non
avremmo potuto comportarci diversamente. Infatti, non siamo noi
che abbiamo gridato, e gridiamo tuttavia Libera Chiesa in
libero Stato?".
Cfr., D. De Rossi, op. cit.,130-131.
(2) Il Palazzo municipale di allora corrisponde
oggi al palazzo che si trova in via A. de Pace al n. 100. Allora
era Sindaco Giacomo Papaleo, Assessori: Francesco Caracciolo,
Rocco Mazzarella, Pasquale Riggio e Michele Pasca. Cfr. Archivio
Storico Comunale di Gallipoli (ASCG), Registro Deliberazioni
Giunta Municipale 1861-63, p. 10.
(3) Era ancora in vigore la legge borbonica che
stabiliva una ferma di otto anni, alla quale era soggetta per
sorteggio una parte dei coscritti di 18 anni di età. Erano
previste molte esenzioni per motivi familiari e la facoltà del
sorteggiato di farsi sostituire da un volontario mediante
pagamento di una tassa di 240 ducati (1.029 lire), sicchè in
pratica solo i più poveri prestavano servizio militare. I
siciliani erano esenti dalla coscrizione e potevano prestare
servizio solo come volontari. Non esistendo ancora i Distretti
militari, le operazioni di arruolamento venivano svolte nei Comuni
da un Consiglio di Leva presieduto dal Sindaco e composto dagli
Assessori e da altri membri scelti dal Consiglio comunale.
Successivamente, con varie leggi del 1871, del 1873 e del 1875, il
sistema di reclutamento fu cambiato e riorganizzato.
(4) Era stato fondato e diretto da Emanuale Barba
che si firmava Filodemo Alpimare. Il Gallo, che
poteva "cantare tre ed anche quattro fiate al mese, a seconda del
numero degli abbonati che avrà", aveva come motto "Fideliter
excubat".
(5) Il Consiglio di Leva era riunito sin dalle 9
antimeridiane. Cfr. ASCG, Registro Deliberazioni Giunta
Municipale, p. 10.
(6) Giuseppe De Cesare, Sottoprefetto a Gallipoli.
(7) Tra i militi della Guardia Nazionale si
distinsero: Vincenzo Perrella, Vincenzo Delli Ponti, Michele
Perrin, Domenico Palmisano. Cfr. Cittadino Leccese, A. I,
n. 39, 30 settembre 1861, in D. De Rossi, op. cit., p. 176.
(8) Nel conflitto furono uccisi Francesco Barletta,
alias Tonson, di anni 31, di genitori ignoti, originario di Vico
Equense, facchino, sposato con A. Maria Carrozza; Gaetano Rossano
fu Andrea, di anni 48, celibe, commerciante, domiciliato in Largo
Castello: ambedue, che morirono sul colpo, durante la sparatoria,
"roborati nullo Sacramento", furono seppelliti "extra
moenia civitatis". Il pescatore Giuseppe Pedaci di Salvatore,
di anni 49, marito di Rosa Mezzi, ferito, morì l’indomani, e
munito dei Sacramenti, fu seppellito nella Chiesa del Convento dei
PP. Cappuccini. Secondo il rapporto del Giudice Istruttore del
Distretto di Gallipoli i primi due morirono alle ore 22,30 del 24
novembre 1861, il terzo alle 9 del giorno dopo. Cfr. ASCG,
Registro Atti di Morte 1860-61, ff. 91 e 92 ed Archivio
Cattedrale di S. Agata ( ACSA), Liber defunctorum 1850-1867,
p.136 v.
(9) ASCG, Registro Deliberazioni Giunta
Municipale 1861, pp. 10-14. Fungeva da sindaco l’Assessore
Pasquale Riggio; Assessori erano Michele Pasca, Rocco Mazzarella,
Francesco Caracciolo e Giovanni Palomba (aggiunto)..
(10) Il Gallo, Anno I, Num.1, p. 2.
(11) ASCG, Registro Deliberazioni Giunta
Municipale1862, pp. 16-17.
(12) Nacque a Gallipoli il 18 agosto 1819 : medico,
scienziato, poeta, fiero patriota mazziniano. Fu affiliato alla
Loggia massonica "Tommaso Briganti", fondata a Gallipoli da
Carlo Rocci Cerasoli nel 1862. Cospirò con tutti i liberali di
Terra d’Otranto contro il Borbone per la causa italiana. Fu intimo
di Giuseppe Libertini, di Sigismondo Castromediano, di Bonaventura
Mazzarella , di Epaminonda Valentino ed Antonietta de Pace. Fu
condannato, nel 1851, assieme ad Oronzo Piccioli, Nicola Massa,
Francesco Patitari, Luigi Marzo, Carlo Rocci Cerasoli, Giovanni
Laviano, dalla Gran Corte Criminale di Lecce, per l’insurrezione a
Gallipoli e per la presa del Castello nel maggio 1848. Morì il 7
dicembre 1887.
(13) ASCG, Registro Deliberazioni Consiglio
Comunale 1862, pp. 153-157.
(14) Il 12 maggio 1866 il Ministero dei LL. PP.
dichiarava il porto di Gallipoli di 3^ classe e decideva che la
spesa per la sua costruzione, che ammontava a L. 649.000, doveva
ripartirsi tra lo Stato, la Provincia, Gallipoli e i Comuni del
Circondario. Nel mese di maggio 1871, finalmente, il Ministro dei
LL. PP. firmò il contratto di appalto dei lavori su progetto
dell’ingegnere Pinto: essi terminarono nel gennaio del 1877.
(15) Nel 1594 l’Università (Amministrazione civica)
di Gallipoli "con le debite superiori approvazioni" impose un
dazio di un grano a stajo ( grano, moneta del Regno di
Napoli, che corrispondeva alla centesima parte del ducato; staio,
unità di misura usata per l’olio, che corrispondeva a Kg.15,59)
sull’olio che si immetteva nella Città . L’introito era utilizzato
per la manutenzione "delle mura , del ponte stabile, delle
Fortezze, e Bastioni, e delle strade". Nel giugno del 1807
l’introito, con decreto del re Giuseppe Bonaparte, passò al Ramo
della Guerra che provvide alle suddette manutenzioni.
Successivamente, il 1 giugno 1819, il re Ferdinando I di Borbone
"aggregò l’introito al Ramo delle Finanze, incorporandolo
all’amministrazione dei Dazj Indiretti". Il Consiglio comunale
chiese, il 18 dicembre 1864, al Ministero degli Interni e a quello
delle Finanze di disporre della suddetta tassa. La Prefettura di
Lecce fu autorizzata dai suddetti Ministeri ad approvare la
richiesta ma il Comune di Gallipoli non riuscì più a riscuotere
l’imposta poiché il dazio sull’olio fu abolito dal 1 gennaio 1866
per effetto del nuovo sistema di imposte governativo. Cfr.
Registro Deliberazioni Consiglio Comunale 1866, pp. 313-314.
(16) Il Gallo, Anno I , Num. 1, pp.1-2.
(17) Ibidem,
p. 2.
da:
http://web.tiscali.it/culturaonweb/ISaggi.htm |
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