I NOVANTA
GIORNI DI GARIBALDI IN SICILIA
Il 6 maggio
Garibaldi partì con 1.089 avventurieri da Quarto sui vapori
Piemonte e Lombardo, concessi dal procuratore della compagnia di
Raffaele Rubattino, un tale G.B. Fauché, affiliato alla loggia
"Trionfo Ligure" di Genova.
Le due navi
erano state acquistate con un regolare atto segreto stipulato a
Torino la sera del 4 maggio alla presenza del notaio Gioacchino
Vincenzo Baldioli tra Rubattino, venditore, e Giacomo Medici, in
rappresentanza di Garibaldi, acquirente. Garanti del debito furono
il re Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour, come
da accordi avvenuti il giorno prima a Modena con Rubattino,
presenti anche l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri
di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi e che
avevano ricevuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza
Politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio.
La spedizione era, dunque, organizzata consapevolmente e
responsabilmente dal governo piemontese. I "mille" provenivano per
oltre la metà dalla Lombardia e dal Veneto, poi, in ordine
decrescente, vi erano toscani, parmensi, modenesi. Tra costoro vi
erano 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60
possidenti. Quasi tutti stavano scappando da qualcuno o da
qualcosa, spinti soltanto dal desiderio di avventura e di
saccheggi.
Il giorno 7
Garibaldi arrivò nel porto di Talamone, vicino ad Orbetello, dove
venne rifornito dalle truppe piemontesi, comandate dal maggiore
Giorgini, di 4 cannoni, alcune centinaia di fucili e centomila
proiettili. Sbarcarono anche 230 uomini, comandati da Zambianchi,
con il compito di promuovere una sommossa negli Abruzzi, ma subito
dopo Orvieto, a Grotte di Castro, furono messi in fuga dai decisi
gendarmi papalini.
L’8 maggio
Garibaldi fu costretto a ordinare che tutti rimanessero a bordo,
dopo gli episodi di saccheggi e violenze che i garibaldini avevano
fatto in Talamone. Successivamente, dopo aver imbarcato circa
2.000 "disertori" piemontesi, carbone e altre armi a Orbetello,
scortato dalle navi piemontesi, ripartì il 9 maggio e sbarcò a
Marsala il giorno 11.
Le due navi
piemontesi furono avvistate con "ritardo" dalle navi borboniche.
Erano in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il
brigantino Valoroso, la fregata a vela Partenope (comandata dal
traditore capitano Guglielmo Acton) ed il vapore armato Capri.
Avvistarono i garibaldini la Stromboli e il Capri. Quest’ultimo
era comandato dal capitano Marino Caracciolo che, volutamente,
senza impedire lo sbarco, aspettò le evoluzioni delle cannoniere
inglesi Argus (capitano Winnington-Inghram) e Intrepid (capitano
Marryat), che erano in quel porto per proteggere i garibaldini.
Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, fu affondato a
cannonate, mentre il Piemonte, arenato per permettere più
velocemente lo sbarco, venne catturato e rimorchiato inutilmente a
Napoli. A Marsala parte della popolazione si chiuse in casa, altri
fuggirono nelle campagne. I garibaldini, accolti festosamente solo
dagli inglesi, per prima cosa abbatterono il telegrafo, poi alcuni
si accamparono nei pressi della città praticamente vuota, mentre
Garibaldi, temendo la reazione popolare si rifugiò con altri nella
vicina isola di Mozia. Il governo borbonico, tramite il ministro
Carafa, protestò il giorno 12 a Torino contro quell’inqualificabile
atto di pirateria sostenuto dal Piemonte. Cavour dichiarò sulla
Gazzetta Ufficiale che il governo piemontese era del tutto
estraneo alle azioni dei "filibustieri garibaldini".
Intanto in
tutto il Piemonte, con l’appoggio proprio del governo sardo, erano
state attivate le società operaie di mutuo soccorso, le dame della
Torino bene e altre logge per raccogliere fondi per "l’eroica
impresa garibaldina".
Il giorno 13
Garibaldi, entrato in Salemi, dove il barone Sant’Anna aveva
affiancato i suoi "picciotti" all’orda garibaldina, si proclamò
dittatore della Sicilia. Nel frattempo il governatore Castelcicala
spingeva all’azione le forze duosiciliane, comandate dal generale
Landi. Costui, con circa tremila uomini ai suoi ordini, inviò da
Alcamo il giorno 14 un solo battaglione verso Calatafimi, con
l’ordine di non attaccare il nemico e, se attaccato, di ...
ritirarsi.
Il maggiore
Sforza, comandante dell’8° Cacciatori, con sole quattro compagnie,
incontrò il giorno 15 i garibaldini e non poté fare a meno di
assalirli. I garibaldini, che ebbero trenta morti, vennero
sgominati e tentarono di rifugiarsi sulle colline, ove furono
inseguiti dallo Sforza. In quel mentre il generale Landi, invece
di inviare altre forze per il completamento del successo, ordinò
la ritirata senza neanche avvisare lo Sforza, il quale avendo
terminate le munizioni fu costretto a riportare i suoi verso il
grosso che si stava incredibilmente allontanando. Ne seguì un caos
indescrivibile, un po’ perché la truppa non riusciva a capire il
motivo della ritirata, un po’ perché qualche sfrontato
garibaldino, tornato indietro, si era messo a sparare sulla
retroguardia duosiciliana.
Il giorno 17
il Landi, dopo aver fatto fare inutili giri alle sue truppe, si
ritirò incomprensibilmente in Palermo. Ad Alcara Li Fusi i
sovversivi scatenarono una violenta rivolta, durante la quale
furono depredati ed assassinati molti civili. Garibaldi, per scopi
demagogici e per calmare la situazione, decretò l’abolizione della
tassa sul macinato e sui dazi.
Il
comportamento del Landi fu comprensibilissimo, quando si scoprì
che aveva ricevuto dagli emissari carbonari una fede di credito di
quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. La cosa più
incredibile fu che al Landi non fu mosso alcun rilievo e fu solo
sostituito nel comando dal generale Lanza.
Il porto di
Palermo, intanto, si affollava di navi straniere, tra cui il
vascello inglese Annibal che arrivò il giorno 20 con a bordo
l’ammiraglio Rodney Mundy. Questi ebbe molti colloqui con il Lanza
nei giorni successivi. Lo stesso giorno Garibaldi istituì il
"Comitato per il sequestro dei fondi per le esattorie" a cui
avrebbero dovuto far capo tutti i sequestri di danaro necessario
per alimentare le sue bande.Nel frattempo i continui solleciti di
Francesco II per assaltare gli invasori costrinsero il Lanza
all’azione. Inviò il giorno 21 due colonne militari, una formata
dal 3° battaglione estero, comandata dal maggiore Von Meckel, e
l’altra formata dal 9° Cacciatori, comandata dal maggiore
Ferdinando Beneventano del Bosco, per un totale di tremila uomini
e quattro obici da montagna.
Un primo
scontro avvenne verso Partinico, ove circa mille "filibustieri"
furono rapidamente messi in fuga dal Meckel. In questo scontro vi
morì Rosolino Pilo. Il resto delle bande garibaldine, con lo
stesso Garibaldi, si rifugiò sul monte Calvario, due miglia sopra
il Parco, ove si trincerò. Il Meckel invece di attaccare subito,
aspettò inopinatamente per due giorni l’arrivo d’altre truppe,
chieste al Lanza, per circondare completamente i ribelli.
Arrivarono, invece, e solo il giorno 23, appena due battaglioni al
comando del colonnello Filippo Colonna.
Il giorno
successivo, al primo attacco dei borbonici, le orde del Türr si
sbandarono e Garibaldi, quasi circondato, fuggì fortunosamente
nella notte con il resto verso Corleone.
I garibaldini
poi si divisero in due gruppi al quadrivio di Ficuzza, uno con il
Garibaldi si diresse per Palermo, ove sarebbero stati sicuramente
protetti dal Lanza e dalle predisposte sommosse carbonare, l’altro
al comando di Orsini prese la strada per Corleone. Ad inseguire
Garibaldi furono i reparti di Von Meckel, mentre le truppe di
Bosco inseguirono l’Orsini.
L’Orsini si
era attestato con i suoi a Corleone, ove fu immediatamente
investito dal Bosco che, con un rapido e violento assalto,
disintegrò le bande, eliminandole definitivamente dalle operazioni
belliche. Il Meckel, intanto, aveva inviato velocemente parte
delle sue truppe con il Colonna a posizionarsi al ponte delle
Teste, poco fuori Palermo, per tagliare la strada ai filibustieri.
A Palermo, il
Lanza, che aveva lasciate a bella posta praticamente sguarnite le
porte S. Antonino e Termini, ordinò al Colonna, che non aveva
ancora fatto in tempo a posizionarsi, di entrare in città e di
acquartierarsi, cosicché quegli ingressi rimasero difesi solo da
260 reclute.
Garibaldi,
rinforzate le sue bande con altri tremila e cinquecento uomini
raccolti nella delinquenza siciliana, nella notte tra il 26 ed il
27 maggio assalì Palermo proprio attraverso la porta S. Antonino,
prevalendo facilmente sulle poche truppe borboniche. Il quel
momento il Lanza disponeva di circa sedicimila uomini, i quali su
suo ordine erano stati rinchiusi nei forti di Quattroventi,
Palazzo, Castellammare e Finanze. All’ingresso dei garibaldini
nella città, le truppe duosiciliane, invece di essere impiegate a
massa, furono impiegate a piccoli gruppi che furono facilmente
sopraffatti, anche perché disturbati dal cecchinaggio dei
sovversivi palermitani.
Nel porto di
Palermo in quei giorni l’Armata di Mare Duosiciliana era formata
da quattro fregate a vapore ed una a vela in prima fila; in
seconda fila una corvetta a vapore, tre avvisi ed una pirofregata
con tre vapori armati; in terza fila dodici bastimenti mercantili.
All’alba del
28 da Napoli giunsero in rada il 1° ed il 2° battaglione esteri
inviati da Re Francesco II, a seguito di richiesta dello stesso
Lanza. Le truppe erano già pronte per entrare in azione, ma il
Lanza le lasciò incredibilmente sui bastimenti fino al giorno 29,
quando diede ordine di farle sbarcare e di rinserrarle nel palazzo
reale. Nel frattempo a tarda sera del 28 era arrivato il grosso
delle truppe del Von Meckel a Villabate, tre miglia distante da
Palermo.
Per tutta la
giornata del 28, la pirofregata Ercole, comandata dal capitano di
fregata Carlo Flores, aveva bombardato la città con i suoi obici
paixhans calibro 68, provocando inutili danni. Il giorno 29 vi fu
anche una ribellione da parte dei cittadini di Biancavilla contro
i soprusi dei garibaldini che si erano acquartierati nella
cittadina.
L’Armata di
Mare aveva collaborato in modo del tutto inefficace alle forze di
terra, limitandosi a scortare i convogli ed al trasferimento di
truppe da un porto all’altro. Gli ufficiali erano ormai quasi
tutti votati al tradimento, mentre i marinai nella stragrande
maggioranza erano rimasti fedeli alla Patria. Nel porto vi erano
anche navi piemontesi che impunemente rifornivano i garibaldini di
armi e munizioni. Garibaldi, praticamente indisturbato,
s’impossessò del palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier
generale. Poi liberò circa mille delinquenti comuni dal carcere
della Vicaria e dal Bagno dei condannati, aggregandoli alle sue
bande che assommavano così a circa cinquemila persone.
Le truppe del
Von Meckel, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono
i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed
eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza
del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza
della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il
quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che
praticamente non aveva più vie di scampo, arrivarono i capitani di
Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine
del Lanza di sospendere i combattimenti perché ... era stato fatto
un armistizio. La rabbia dei soldati fu tale che vi furono episodi
di disobbedienza con il proposito di combattere comunque nella
notte, ma vennero fermati dal colonnello Buonopane per il fatto
che "non era finita la tregua" .
Il Garibaldi
ed il Türr, insieme agli emissari borbonici Letizia e Chretien, si
recarono il 31 maggio sul vascello inglese Annibal, ove, presenti
anche ufficiali americani, conclusero i patti dell’armistizio. Il
Garibaldi, il giorno dopo, annunciò boriosamente che aveva
concesso la tregua per umanità. Tra gli accordi, però, pose come
condizione che venisse consegnato al Crispi il denaro del Banco
delle Due Sicilie di Palermo e scambiati i prigionieri. I
garibaldini si impossessarono così di oltre cinque milioni di
ducati in oro e argento. Tale somma, che successivamente venne
impiegata in parte per la "conversione" di altri ufficiali
duosiciliani, fu distribuita ai garibaldini, compresi i capi.
Il 31 maggio a
Catania, i garibaldini, dopo aver fatte molte barricate,
assalirono anche alcuni soldati. Comandante di tutte le truppe
duosiciliane concentrate a Messina era il maresciallo Clary, il
quale, tuttavia, si sentiva le mani legate perché aveva avuto
l’ordine dal ministro Pianell di stipulare una convenzione con
Garibaldi per l’abbandono della Sicilia da parte di tutte le
truppe.
Alla forzata
inazione del Clary, reagì di sua iniziativa il tenente colonnello
Ruiz de Ballestreros che in sole sette ore sgominò i banditi,
liberando Catania. Il giorno successivo, tuttavia, il Clary,
costretto dagli ordini del traditore Pianell, fece sgombrare la
città, portando tutte le truppe verso Messina, unitamente ai
rinforzi comandati da Afan de Rivera. In Sicilia le truppe
borboniche presidiavano in pratica soltanto Siracusa, Augusta,
Milazzo e Messina. A Catania i garibaldini, entrati nelle casse
comunali, s’impossessarono di 16.300 once d’oro, una vera fortuna.
Il 1° giugno
la nave piemontese Governolo sbarcò a Messina altri agitatori con
il compito di organizzare una rivolta antiborbonica sulle due
sponde dello stretto. Lo stesso giorno arrivò a Marsala il vapore
Utile, che era partito da Genova con un carico di circa 5.000
fucili e relative munizioni. Questo stesso vapore, rientrato a
Genova, ripartì il giorno 9 avendo a rimorchio il clipper
nordamericano Charles & Jane con a bordo 930 "volontari" del
Medici. Alla sera del 10 le navi furono intercettate dalla
pirofregata borbonica Fulminante che li rimorchiò a Gaeta, dove
arrivò il giorno 11. Il rapido e deciso intervento del console
U.S.A. a Napoli, Joseph Chandler, fece liberare le navi, che
successivamente furono condotte a Genova. Questi "volontari"
ripartirono poi per la Sicilia il 14 luglio con la nave Amazon.
Tutti quelli
che venivano chiamati "volontari", erano in realtà soldati
piemontesi ufficialmente fatti congedare o disertare, come si
rileva dalla circolare nr. 40 del Giornale Militare del Piemonte
del 12.8.1861 (per i "volontari") e dalla Nota nr. 159 del G. M.
del 5.9.1861 (per i "disertori"), le quali prescrivevano per essi
l’iscrizione a matricola della "campagna dell’Italia meridionale
1860 in Sicilia e nel Napoletano". I "disertori", inoltre, vennero
in seguito amnistiati "opportunamente" con decreto reale del
29.11.1860.
Ai primi di
giugno Garibaldi inviò a Marsiglia Paolo Orlando e Giuseppe Finzi
per l’acquisto di tre vapori ribattezzandoli Washington, Oregon e
Franklin, sotto bandiera americana. Il contratto d’acquisto venne
perfezionato l’8 giugno a Genova presso il console americano W.L.
Patterson e vi figurò acquirente un cittadino U.S.A., William de
Rohan, che pagò il prezzo in buoni del tesoro piemontesi, coperti
da una parte dell’oro rapinato in Sicilia e inviato a Torino.
Il 2 giugno
Garibaldi emanò un decreto con il quale autorizzava la divisione
delle terre demaniali, assegnandone la maggior parte ai
combattenti garibaldini, cioè ai Siciliani che avessero voluto
arruolarsi con lui. Il 4 giugno vennero assassinati i capi della
rivolta antigaribaldina scoppiata a Biancavilla con la farsa di un
processo popolare.
L’8 giugno le
truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono
Palermo per recarsi ai Quattroventi per imbarcarsi, tra lo stupore
della popolazione che non riusciva a capire come un esercito così
numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere
combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un soldato dell’8°
di linea che, al passaggio a cavallo di Lanza, uscì dalle file e
gli disse "Eccellé, o’ vvì quante simme. E ce n’avimma î accussì?"
Ed il Lanza gli rispose : "Va via, ubriaco!".
Mentre
l’Armata Napoletana procedeva alle operazioni d’imbarco, la
Washington e l’Oregon partirono il 10 giugno da Cornigliano,
imbarcando circa 2.000 uomini comandati dal Medici, ed arrivarono
il 17 a Castellammare del Golfo. L’altra nave, la Franklin,
imbarcò a Livorno 838 "volontari" comandati da Malencini,
sbarcandoli a Favarotta qualche giorno dopo.
Il 13 giugno
il Garibaldi sciolse alcune squadre di volontari siciliani, i
quali, resisi conto che è per l’annessione al Piemonte, e non per
l’indipendenza della Sicilia, il motivo per cui combattevano,
avevano incominciato a ribellarsi. In quegli stessi giorni il
Nizzardo fu accettato nella Loggia massonica di Palermo ed in
seguito elevato al grado di Maestro e poi di Gran Maestro.
Il 16 giugno
fu il giorno più atroce per Palermo, dove Garibaldi diede carta
bianca alle sue orde che commisero violenze, stupri e saccheggi
d’ogni genere. Moltissimi poliziotti e le loro famiglie furono
assassinati in modo veramente barbaro e sotto gli occhi
dell’indifferente e del tutto consenziente Garibaldi Il 19 giugno
terminarono le operazioni d’imbarco delle truppe borboniche che
arrivarono nel golfo di Napoli il 20. Il Lanza con il suo Stato
Maggiore, per ordine del Re, fu posto agli arresti e confinato ad
Ischia per essere sottoposto a giudizio da una commissione
militare. Garibaldi, nel frattempo, formato un governo siciliano,
ordinò l’emissione di altri buoni del tesoro per quattrocentomila
ducati, portando il debito pubblico siciliano a circa sedici
milioni di ducati. Furono confiscati tutti i beni ed il danaro del
clero, in particolare dei Gesuiti che vennero espulsi.
Nel frattempo,
l’accozzaglia di gente al seguito del Garibaldi continuava a
scatenarsi con delitti, saccheggi e stupri. Veramente atroci
quelli commessi da un certo Mele e dal La Porta, che Garibaldi
aveva addirittura nominato ministro della sicurezza pubblica.
Furono
arruolati numerosi avventurieri francesi, inglesi, tedeschi,
ungheresi, polacchi, americani e perfino africani, insomma la
feccia giunta da tutte le nazioni. Numerose, infatti, furono le
presenze straniere al servizio della spedizione dei Mille, anche
queste spesso volutamente dimenticate dalla storia ufficiale e dai
testi scolastici. Inglese era il colonnello Giovanni Dunn, così
come inglesi furono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe
Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell’italiano
Specchi). Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt,
Tukory, Teloky, Magyarody, Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen.
La legione ungherese divenne preziosa per l’occupazione della
Sicilia e per tante battaglie. La "forza" dei "volontari" polacchi
aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i
turchi vi era anche il famoso avventuriero Kadir Bey. Fra i
bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza si deve ricordare
Wolff, al quale fu affidato il comando dei disertori tedeschi e
svizzeri, già al servizio dei Borbone. Vi fu pure l’apporto di
battaglioni di algerini (Zwavi) e di Indiani, messi a disposizione
di Garibaldi dal Governo di Sua Maestà britannica.
A Napoli, il
Re Francesco II, fraudolentemente consigliato, decretò a Portici
il 25 giugno il ripristino della Costituzione del 1848, con ampia
amnistia. Tra i consiglieri favorevoli alla concessione vi furono
il Conte d’Aquila e il Conte di Siracusa, zii del Re, che avevano
avuto tali suggerimenti da Napoleone III a seguito della missione
diplomatica di Giacomo De Martino a Parigi. I contrari furono i
ministri Troya, Scorza e Carrascosa. Quest’ultimo anzi affermò
che: "la Costituzione sarà la tomba della Monarchia". In occasione
del ripristino della Costituzione queste furono le parole di
Francesco II: "Desiderando dare a’ Nostri amatissimi sudditi un
attestato della nostra Sovrana benevolenza, ci siamo determinati
di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel
Regno, in armonia co‘ principii italiani e nazionali in modo da
garentire la sicurezza e la prosperità in avvenire, e da stringere
sempre più i legami che Ci uniscono a‘ popoli che la Provvidenza
Ci ha chiamati a governare". Ma la concessione della costituzione
fu veramente inopportuna in quel frangente, perché contribuì a
creare ancora più disordine, in quanto permise a molti
pericolosissimi fuoriusciti di rientrare nel Regno e di occupare
molti incarichi importanti nell’amministrazione del governo.
In quei
frangenti l’avvocato Liborio Romano s’incontrò a Napoli nel
Palazzo Salza, alla Riviera, con il conte Brenier console francese
a Napoli.
Il 26 giugno,
ancora su consiglio del suo governo, il giovane re Francesco II
stabilì, inoltre, che la nuova bandiera nazionale fosse quella
tricolore, rossa, bianca e verde, conservando nel mezzo le armi
della dinastia borbonica.
Nel frattempo,
ad iniziare proprio dal 26 giugno, partirono da Genova, La Spezia
e Livorno per la Sicilia numerose navi, con una media di una ogni
tre giorni, che fino al 21 agosto trasportarono in Sicilia altri
21.000 "volontari" piemontesi.
Francesco II
il 27 giugno nominò Capo del Governo Antonio Spinelli, che diede
l’incarico di prefetto di polizia al leccese Liborio Romano, già
in combutta con la camorra per preparare l’ingresso di Garibaldi
in Napoli, così come era avvenuto a Palermo con l’aiuto della
delinquenza locale.
Fu, dunque,
proprio con l’invasione piemontese che la delinquenza fece un
salto di qualità, trovando terreno fertile nell’alleanza con la
nuova classe politica che si andava affermando soprattutto
attraverso le speculazioni. Il conte d’Aquila venne nominato
comandante supremo dell’Armata di Mare. Il Ministero della guerra,
a cui era preposto l’onesto e anziano Ritucci, venne affidato al
generale Giuseppe Salvatore Pianell, che lasciò il Comando
Territoriale degli Abruzzi al generale De Benedictis.
Per effetto
del ripristino della costituzione, il 1° luglio vennero nominati
in ogni provincia nuovi intendenti, quasi tutti massoni .
Il Cavour,
intanto, allo scopo di intavolare defatiganti trattative con il
governo borbonico, aveva inviato a Napoli il diplomatico Visconti
Venosta. Subito dopo, il 3 luglio, si ebbero le prime
manifestazioni contro i "galantuomini" e la guardia nazionale a
Salerno e ad Avellino, dove significativamente il popolo
manifestava al grido di "Viva ‘o Rre Francesco" contro la
costituzione.
Per lo stesso
motivo anche a Vasto si ebbero violente sommosse da parte di
alcune centinaia di contadini armati di sole falci.
Il giorno 5
luglio il capitano di fregata Amilcare Anguissola, al ritorno da
una missione per il trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da
Messina a Milazzo, invece di rientrare a Messina, proseguì per
Palermo, dove consegnò la pirofregata Veloce al contrammiraglio
piemontese Carlo Pellion di Persano. Questi la cedette a
Garibaldi, che la fece ribattezzare Tuckery, ma su 144 uomini di
equipaggio i traditori che aderirono ai garibaldini furono solo
41.
Il Re
Francesco, allora, ordinò al capitano di vascello Rodriguez al
comando della pirofregata Tancredi di catturare la nave, dandogli
di rinforzo altre tre pirofregate, ma il conte d’Aquila fece
fallire tale decisione con defatiganti disposizioni.
Nacque da
questi episodi di tradimento l’esclamazione tipica dei napoletani:
"mannaggia ‘a Marina" che ancora oggi è diffusissima.
In Messina,
intanto, si concentravano oltre 24.000 soldati inviati dagli
Abruzzi e da Gaeta. Nella parte continentale del Regno, invece,
per effetto del ripristino della Costituzione, fu organizzata la
Guardia Nazionale in tutti i comuni, formandola con gli elementi
liberali più facinorosi. A causa dell’atmosfera politicamente
malsana e dei disordini verificatisi in Napoli, la Regina madre
decise di rifugiarsi a Gaeta.
Fino a questo
periodo, nel Regno delle Due Sicilie non vi erano stati che
trascurabili episodi di delinquenza comune. La marea della
delinquenza più pesante incominciò a montare con l’avvento dei
garibaldini. La stessa Sila, che divenne in seguito il perenne
ricettacolo del banditismo, fino al 1860 si poteva liberamente
percorrere senza tema d’incontrarne.
Nonostante i
ripetuti ordini del Re di inviare truppe verso Barcellona
(Messina), dove si erano concentrati 4.000 piemontesi e circa 600
ribelli, il Clary adduceva inutili pretesti per tenere fermi i
reggimenti. A Barcellona e a Milazzo la maggior parte degli
abitanti abbandonò le proprie case. Alla colpevole inerzia del
Clary si oppose Beneventano del Bosco, nel frattempo promosso
colonnello, che riuscì ad ottenere un minimo di tre battaglioni
del 1°, 8° e 9° Cacciatori per un totale di circa 2.600 uomini per
proteggere Milazzo, ma con l’ordine di non attaccare per primo. Il
Bosco uscì da Messina il 14 luglio con le sue truppe, dirigendosi
verso Milazzo.
A Napoli nel
frattempo giunsero il 16 luglio molti agenti provocatori inviati
da Cavour allo scopo di fomentare sommosse. Fu così che la camorra
iniziò a scatenarsi, protetta e addirittura inquadrata nella
polizia da Liborio Romano.
Il giorno 17,
in Sicilia, vi fu un primo scontro sulla strada costiera per
Barcellona, dove furono catturati circa cento piemontesi, trovati
con il foglio di congedo in tasca. Ad Archi vi fu un altro scontro
vittorioso contro i garibaldini del Medici, che furono dispersi.
Radunati tutti i suoi uomini, il Bosco si accinse alla difesa di
Milazzo. La decisa azione del Bosco, che aveva respinto una
richiesta d’abboccamento, spaventò il Medici che il giorno 18
chiese soccorso a Garibaldi. Costui arrivò il giorno 19 con oltre
4.000 piemontesi, sbarcando a Patti, mentre il Clary, che teneva
inutilizzate oltre 22.000 uomini in Messina, rispose negativamente
alle pressanti richieste di truppe da parte del Bosco, che era
sicuro di poter sgominare facilmente le bande garibaldine.
Il 20 luglio
vi fu una cruenta battaglia, dopo la quale i valorosi soldati
duosiciliani, che ebbero solo 120 caduti, mentre i piemontesi ne
ebbero 780, furono costretti per il mancato invio dei rinforzi,
dato il numero preponderante degli assalitori, a ritirarsi nel
forte di Milazzo. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi
comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei
cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morì
durante un assalto. Il forte, intanto, era mitragliato dalle navi
garibaldine, che tuttavia furono tenute distanti per le efficaci
cannonate dell’artiglieria organizzata rapidamente dal Bosco.
Un’altra
incredibile occasione persa, per la incredibile incapacità
militare (o tradimento) del Clary, di sgominare definitivamente le
orde garibaldine che si erano tutte concentrate a Milazzo e che,
quindi, sarebbero potute essere circondate e certamente battute
dalle numerosissime truppe lasciate inoperose a Messina. Questo
episodio è la dimostrazione concreta che Garibaldi aveva assaltato
Milazzo sicuro che nessuno lo avrebbe assalito alle spalle.
Il giorno 22
fu intimato al Bosco di cedere il forte, ma alla sua sprezzante
risposta, Garibaldi si rivolse direttamente al comando dell’Armata
di Mare a Napoli. Così furono inviate da Napoli tre fregate col
colonnello di Stato Maggiore Anzani, che, dopo aver concordato
rapidamente una capitolazione del Forte, fece imbarcare le eroiche
truppe del colonnello Bosco per trasferirle a Napoli.
Il 22 luglio,
su richiesta dello stesso Garibaldi, sbarcò in Sicilia il deputato
piemontese Agostino Depretis, spedito da Cavour in sostituzione
del La Farina, con il quale Garibaldi era entrato in forte
contrasto. Il giorno dopo, incontratosi con Garibaldi, questi lo
nomina Prodittatore con un decreto.
Il 24 luglio,
senza nemmeno aver accennato a combattere, il Clary dichiarava
impossibile la "difesa" della città e concordava con il Garibaldi
la resa delle truppe, che avrebbero evacuata la Sicilia, tranne
per la cittadella militare di Messina. Appresa la strabiliante
notizia, vi furono episodi di sommossa di alcuni soldati contro il
Clary, che dovette nascostamente fuggire a Napoli.
Il giorno 27,
la flotta del siciliano Vincenzo Florio si pose al servizio di
Garibaldi per il trasporto delle sue bande lungo la costa
siciliana e d’altri "volontari" da Genova. Intanto nel Napoletano
avvenivano numerose manifestazioni contro le nuove istituzioni
nate dalla concessa costituzione: guardie nazionali e i nuovi
esponenti dell’amministrazione.
Furono
sgombrate il 28 luglio anche le fortezze di Augusta e Siracusa,
dove si recò per l’esecuzione il generale Briganti. La Cittadella
di Messina fu affidata al valorosissimo e fedele generale Gennaro
Fergola. La guarnigione della Cittadella era formata da oltre
4.000 soldati e 200 ufficiali, che occupavano anche i forti S.
Salvatore, La Lanterna ed il Lazzaretto.
Nel frattempo,
il 29 luglio, Cavour, dopo aver organizzato con Ricasoli una
spedizione di armi e denaro nel Napoletano, ricevette a Torino
l’avvocato napoletano Nicola Nisco. Costui gli annunciò che poteva
fare pieno affidamento su Liborio Romano, che mediante il
controllo sulla polizia avrebbe facilmente fatto sollevare la
popolazione al momento opportuno e instaurato un governo
provvisorio. Al Cavour consegnò anche una lettera del generale
Alessandro Nunziante, che, avendo grande influenza sull’esercito,
si dichiarava disponibile a mettere la sua spada ai piedi del
sovrano sabaudo. Cavour, ormai sicuro di poter agire all’interno
stesso del governo borbonico, diede opportune disposizioni
all’ammiraglio Persano. Costui doveva partire da Palermo con la
nave Maria Adelaide e recarsi a Napoli, con la scusa di proteggere
la principessa sabauda moglie del conte di Siracusa, ma in realtà
per mettersi in contatto con il marchese Villamarina, ambasciatore
piemontese in Napoli, che aveva costituito una buona rete di
agenti incaricati di sollevare disordini al momento opportuno.
Nell’interno
della Sicilia, ormai abbandonata a se stessa, col pretesto di
perseguitare i funzionari del governo, molti sovversivi, a cui si
erano aggiunti numerosi delinquenti liberati dalle carceri,
commisero le più truci nefandezze. In Trecastagni, S. Filippo d’Argirò
e Castiglione, nella provincia di Catania, vi furono efferati
omicidi e saccheggi. Così pure nella provincia di Messina, a
Mirto, Alcara e Caronia, dove i garibaldini e i piemontesi si
scatenarono in violenze, omicidi e saccheggi. Furono saccheggiati
anche tutti i monasteri, vennero imposte taglie e rapinato ogni
genere di vettovaglie.
In Bronte, il
1° agosto vi fu il primo esempio di come agivano i "liberatori"
piemontesi. A Bronte esisteva la Ducea di Nelson, una specie di
feudo di 25.000 ettari concesso da Ferdinando I all’ammiraglio
Nelson, come ricompensa per gli aiuti forniti al Reame nel 1799.
Alle notizie delle avanzate garibaldine, i contadini insorsero
contro i padroni delle terre, aizzati dai settari che, dovendo
sollevare comunque dei tumulti, promettevano loro le terre secondo
i proclami garibaldini.
Essi insorsero
il 2 agosto, commettendo violenze nei confronti dei notabili,
saccheggiando e bruciandone le case. Furono uccisi una decina di
"galantuomini". Cosicché il 4 agosto furono inviati a Bronte
ottanta uomini della guardia nazionale, comandati dal questore
Gaetano de Angelis, i quali però fraternizzarono con gli insorti,
addirittura consentendo che venissero uccisi nella località detta
Scialandro altri quattro "galantuomini".
Garibaldi fu
immediatamente sollecitato, con numerosi dispacci, dal console
inglese che gli intimava di far rispettare la proprietà britannica
della Ducea, e anche perché erano iniziate delle rivolte simili a
Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, confinanti con le
proprietà inglesi. Fu così che per non danneggiare gli inglesi,
Garibaldi preoccupatissimo inviò il 6 agosto sei compagnie di
soldati piemontesi e due battaglioni cacciatori, l’Etna e l’Alpi,
al comando di Nino Bixio.
Queste orde
circondarono il paese, ma poiché i rivoltosi erano già scappati,
Bixio fece arrestare l’avvocato Nicolò Lombardo, ritenendolo
arbitrariamente il capo dei rivoltosi e poi facendolo passare
anche per reazionario borbonico, mentre invece era stato l’unico
che aveva cercato di pacificare gli animi di tutti. Lo stesso
giorno 6 agosto Bixio emise un decreto con il quale intimava la
consegna di tutte le armi, l’esautorazione delle autorità
comunali, la condanna a morte dei responsabili delle rivolte e una
tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla "pacificazione"
della cittadina.
Bixio si
rivelò in questa vicenda un feroce assassino. Per terrorizzare
ulteriormente i cittadini, uccise personalmente a sangue freddo un
notabile che stava protestando per i suoi metodi. Nei giorni
successivi raccolse più di 350 tipi di armi e incriminò altre
quattro persone, tra le quali un insano di mente. Il giorno 9 vi
fu un processo farsa che condannò a morte i cinque imprigionati,
che erano del tutto innocenti e che fece fucilare spietatamente il
giorno successivo.
Per
ammonizione, all’uso piemontese, i cadaveri furono lasciati
esposti al pubblico insepolti. Bixio ripartì il giorno dopo
portando con sé un centinaio di prigionieri presi
indiscriminatamente tra gli abitanti.
La Sicilia,
nel frattempo, venne posta praticamente in stato d’assedio dalla
flotta piemontese, con l’aiuto delle navi francesi ed inglesi, che
effettuarono un blocco dei porti e delle coste, causando il crollo
dei commerci marittimi e di ogni altra attività produttiva
dell’isola.
Nel frattempo,
il 3 agosto, una squadra navale piemontese con a bordo circa
tremila soldati, agli ordini dell’ammiraglio Carlo Pellion di
Persano, era entrata nella rada di Napoli - ove si trovavano già
navi francesi, inglesi e spagnole - con la scusa di proteggere la
contessa di Siracusa, nata Savoia-Carignano, come ordinato da
Cavour. A Napoli era arrivato anche il Nisco che fece appena in
tempo a parlare con Nunziante, il quale, essendo stato scoperto
del suo tradimento, la sera stessa abbandonò Napoli, facendo
perdere le sue tracce. Il Nisco, tuttavia, con l’appoggio del
Liborio Romano, riuscì a far sbarcare dal piroscafo Tanaro alcune
casse contenenti tremila fucili e relative munizioni, necessarie
per la rivolta.
Lo stesso 3
agosto in Sicilia il Depretis, fatto prodittatore da Garibaldi,
emanò un decreto con il quale impose lo Statuto piemontese quale
legge fondamentale per tutta l‘isola. Venne imposto a tutti i
pubblici funzionari di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele, pena
il licenziamento. Nell’isola intanto la forza occupante era
arrivata ad ammontare a circa 36.000 uomini. La maggior parte di
essi erano stranieri (vi erano addirittura indiani), circa 18.000
erano "volontari o disertori" piemontesi, qualche migliaio di
traditori siciliani. Insomma la feccia dei popoli.
Il 5 agosto il
conte di Siracusa, zio di Francesco II, si recò a bordo della
Maria Adelaide, dove apertamente (con disgusto degli stessi
ufficiali savoiardi) si pronunziò a favore dei Savoia.
Nei giorni
precedenti lo sbarco di Garibaldi sul continente , nelle Calabrie
erano stanziati circa ventimila soldati borbonici divisi in
quattro brigate: il generale Ghio in Monteleone (Vibo Valentia),
il generale Cardarelli in Cosenza, il generale Marra in Reggio ed
il generale Melendez con vari reparti scaglionati nella provincia
di Reggio. Comandante di tutte le forze era il generale
Giambattista Vial, barone di Santa Rosalia, che senza alcuna
ragione militare aveva disseminate le truppe in ampie zone.
Successivamente, a seguito di contrasti tra il generale Marra,
comandante della 3ª Brigata, che accusava il Vial di incapacità,
il Ministro della guerra, il massone Pianell, fece sostituire il
Marra con il generale Fileno Briganti, anch’egli massone. Nel
frattempo tutte le autorità civili delle Calabrie erano state
destituite dal Liborio Romano, che al loro posto aveva nominati
esponenti carbonari.
Il 6 agosto
Garibaldi lanciò un proclama e incominciò a prepararsi per lo
sbarco nelle Calabrie, facendo approntare circa 200 barcacce
dietro il Capo di Milazzo per il trasbordo delle sue orde. Il
generale Melendez avvisò di questi preparativi il ministro Pianell,
che non prese alcun provvedimento.
L’8 agosto
circa 150 garibaldini sbarcarono a Cannitello, dove, scambiata
qualche fucilata con alcuni soldati borbonici, riuscirono a
rifugiarsi nei boschi, protetti da elementi della Guardia
nazionale, rivelatisi così già ostili.
Il giorno 9 in
Sicilia furono imposte le leggi sarde sulla marina mercantile.
Il 12 agosto
Garibaldi s’imbarcò sul Washington per recarsi in Sardegna allo
scopo di farsi assegnare circa 9.000 uomini, che erano agli ordini
del Pianciani, il quale li aveva destinati ad invadere i territori
pontifici. Intanto, avvenivano altri modesti sbarchi a Bianco e a
Bovalino, mentre le fregate Fulminante e Ettore Fieramosca, che
incrociavano quel tratto di mare, ‘non videro’ alcun movimento di
battelli. Il comportamento del comandante del Fieramosca, capitano
Guillamat, indignò profondamente l’equipaggio, che lo chiuse nella
stiva insieme ad altri ufficiali, dirigendo poi la nave verso
Napoli. Ma qui gli ufficiali traditori furono liberati, mentre i
fedeli marinai furono rinchiusi nel Castel S. Elmo come
insubordinati.
Nelle Puglie
si ebbero dei moti popolari. Particolarmente gravi furono quelli a
Ginosa e a Laterza contro esponenti liberali, verso cui i
contadini reclamavano la restituzione delle terre demaniali e
l’abolizione della Costituzione.
La notte del
13 agosto, su ordine di Persano, la nave Tüköry, piena di 150
garibaldini al comando di Piola Caselli, partita da Palermo il
giorno prima, entrò furtivamente nel golfo di Napoli. Il Caselli,
in accordo col capitano massone Vacca, comandante del vascello
Monarca, tentò di abbordare quest’ultimo con alcune barche per
impossessarsene. Scoperto il movimento dalle sentinelle, che
reagirono con un fuoco infernale, una sola barca riuscì a stento a
rientrare sul Tüköry che si allontanò approfittando del buio della
notte, ma lasciando numerosi assalitori morti.
Il traditore
Vacca trovò rifugio sulla nave piemontese Maria Adelaide ferma
nella rada. A Napoli, in quei giorni, furono stampati e diffusi
apertamente numerosi fogli antiborbonici con evidenti inviti alla
rivolta, senza che dalla polizia fosse preso alcun provvedimento .
Il 15 agosto
un battaglione di bersaglieri piemontesi fu fatto arrivare
segretamente nel porto di Napoli e tenuto sotto coperta per essere
impiegato al momento opportuno.
Il 16 agosto
in Basilicata, a Corleto Perticara, alcuni settari manifestarono a
favore dell’unità d’Italia, contemporaneamente anche a Catanzaro
furono organizzate manifestazioni a favore dei garibaldini.
In Potenza, il
comandante dei gendarmi, capitano Salvatore Castagna, ebbe da un
prete, don Rocco Brienza, l’offerta di duemila piastre e il grado
di maggiore se avesse riconosciuto un governo provvisorio
rivoluzionario. Per il suo diniego fu poi perseguitato e dovette
rifugiarsi tra i monti, unitamente ai suoi gendarmi.
Il 17 agosto
in Sicilia furono emanati dei decreti, come quello del corso
legale della moneta piemontese, che in pratica significavano
l’annessione dell’isola al Piemonte.
In quel giorno
fu ucciso a Pantelleria il collaborazionista Antonio Ribera,
comandante della guardia nazionale, della cui morte i garibaldini
accusarono i giovanissimi nipoti perché filoborbonici. Questi
riuscirono tuttavia a sfuggire ai traditori e formarono da quel
momento, unitamente ad altri legittimisti, la banda insorgente dei
fratelli Ribera. A causa dei continui rastrellamenti, tuttavia, la
banda Ribera dopo qualche tempo dovette lasciare l’isola per
rifugiarsi a Malta.
Rientrato a
Palermo, la sera del 18 Garibaldi fece rotta per Giardini, vicino
Messina, sul piccolo piroscafo Franklin, mentre Bixio era sul
piroscafo più grande, il Torino.
Le due navi
trasportavano circa duemila uomini provenienti da Genova e che
furono fatti sbarcare la mattina dopo sulla spiaggia di Rombolo,
presso Melito di Porto Salvo. La località era stata scelta perché
alcuni traditori del luogo, i massoni Tommaso Nardella, giudice,
ed il sedicente colonnello Antonino Plutino, avevano provveduto a
far occupare l’ufficio telegrafico e gli uffici comunali, dove nei
giorni precedenti erano state depredate le casse comunali, con
alcuni garibaldini sbarcati il giorno 8 agosto. Il comando di quei
predoni era stato sistemato nel Casino Ramirez, già approntato dai
traditori il giorno prima.
Dopo lo sbarco
arrivarono le navi duosiciliane Fulminante e l’Aquila, comandate
dal Capitano Salazar. Questi, incontrato il Franklin (battente
bandiera americana) che si recava al Faro per chiedere aiuto per
il Torino, arenatosi accidentalmente sulla spiaggia, lo lasciò
passare, vedendolo vuota (ma a bordo c’era il Garibaldi).
In seguito,
visto sulla spiaggia il vuoto Torino, si limitò a incendiarlo ed a
cannoneggiare i garibaldini che si erano accampati nella pianura
di Rombolo. Garibaldi, avendo udito i colpi da lontano, si diresse
nuovamente verso Melito, dove sbarcò per ricongiungersi ai suoi.
Antonio Pagano
Direttore della
rivista Due Sicilie