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8 dicembre 1970

Il golpe Borghese

di Renzo Paternoster

 

 

 

Tanto si è scritto e tanto si è detto che, nella coscienza collettiva, il tentativo di colpo di stato noto come Golpe Borghese è diventato sinonimo di un maldestro tentativo di rivolta istituzionale messo in atto da un gruppo di sgangherati nostalgici. Niente di più che una buffonata. E invece non è così. L'insurrezione armata che si verifica nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 (la notte dell'Immacolata) è ancora oggi un altro dei tanti punti oscuri della storia repubblicana. Non è chiaro perché fu messo in atto, a cosa realmente mirasse e soprattutto perché fallì e chi lo fece fallire. Tutto ha inizio nella tarda serata del 7 dicembre quando gruppi di militanti dell'estrema destra si riuniscono in alcuni luoghi della capitale: nel quartiere di Montesacro, nei cantieri del costruttore Remo Orlandini, legato al SID di Vito Miceli; in pieno centro storico, nella sede di Avanguardia nazionale; attorno all'Università; in una palestra non distante dalla stazione Termini. Alle porte di Roma si è concentrata intanto anche una colonna armata di guardie forestali, mentre un gruppo di neofascisti è già penetrato nell'armeria del ministero dell'Interno. Il quartier generale del Golpe si è sistemato nel quartiere Nomentano. Ne fanno parte: il principe Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas, vero capo del complotto; il generale a riposo dell'Aeronautica Giuseppe Casero; il maggiore della polizia Salvatore Pecorella. Il piano prevede, oltre all'occupazione dei ministeri della Difesa e dell'Interno, della sede della RAI (da dove Borghese leggerà un proclama alla nazione), degli impianti telefonici e quelli di telecomunicazione, anche la mobilitazione totale dell'Esercito. Tutto, insomma è pronto, comprese le liste delle personalità politiche e sindacali da arrestare. Eppure il Golpe Borghese fallisce. Lo stesso principe nero riceve una telefonata da un misterioso generale (l'inchiesta della magistratura non chiarirà mai hi fosse) che ordina la sospensione del tentativo insurrezionale. Tutti a casa. Cosa è successo quella notte a Roma? Prova generale per un vero colpo di Stato? Avvertimento inviato ai politici sulla falsariga del Piano Solo di De Lorenzo? Oppure il classico doppio gioco: mostrare i muscoli e allo stesso eliminare l'ala dura del Partito del Golpe che da anni ormai cresce e si ramifica? Di quanto accadde a Roma nella notte dell'Immacolata una sola cosa è certa: i servizi segreti sapevano. Ed erano stati informati anche diversi uomini politici di governo. Lo proverà la documentazione che Andreotti consegnerà alla magistratura romana soltanto cinque anni dopo. Quella stessa magistratura che farà di tutto per insabbiare l'inchiesta giudiziaria e per trasformare il Golpe Borghese in un Golpe da operetta.

      Indice:

 

 

Rosso sangue per il terrorismo nero

 Il 25 aprile del 1969, con le bombe che esplosero alla Fiera Campionaria di Milano gli Italiani entrarono in una fase storica che sarebbe durata per più di un decennio: il terrorismo nero. L'anno prima c'era stato il Sessantotto, con le rivolte studentesche in tutto il mondo, seguite dall'Autunno caldo degli operai, con le loro idee di cambiamento delle condizioni di lavoro. Lo scossone provocato dal movimento di contestazione studentesca e di quella degli operai ebbe effetti destabilizzanti sull'assetto politico e sociale italiano. Sono gli anni di profonde trasformazioni e di grandi speranze collettive, che coinvolsero in un unico grande movimento tante persone di origini diverse. Certamente i giovani italiani diventarono un soggetto politico nuovo e, almeno per il momento, autonomo.
La sera del 25 aprile del 1969 a Milano, alle sette e alle nove, degli ordigni esplosero rispettivamente nel padiglione della Fiat alla Fiera Campionaria e all'Ufficio Cambi della
Banca Nazionale delle Comunicazioni, all'interno della stazione centrale. Si contarono per fortuna solo una ventina di feriti. Nella notte fra l'8 e il 9 agosto dello stesso anno si replicò, questa volta sui treni, nei vagoni di prima classe delle linee ferroviarie Pescara-Roma, Roma-Venezia, Roma-Lecce, Trieste-Roma, Milano-Venezia e viceversa, Trieste-Domodossola, Bari-Trieste. Su una decina di bombe, solo otto esplosero, causando anche questa volta solo feriti. Poi arrivò quel maledetto 12 dicembre 1969 che segnò per sempre l'inizio del terrore criminale. Quel giorno, alle 16.30, una bomba ad alto potenziale esplose all'interno della sede della Banca dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano. Si contarono 27 morti e 88 feriti. In quella stessa giornata, alcuni minuti prima della deflagrazione nella Banca dell'Agricoltura, un impiegato della Banca Commerciale Italiana trovò nei locali dell'istituto un'altra bomba di cui il sistema d'innesco non funzionò. Venti minuti più tardi, a Roma, un ordigno esplose nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro, facendo solo sedici feriti. Alle 17.22 e 17.30, sempre a Roma, esplosero altre bombe: una davanti all'Altare della Patria, l'altra all'entrata del museo del Risorgimento in piazza Venezia. Fortunatamente si contarono solo quattro feriti.

Gli anarchici come capo espiatorio

Per piazza Fontana e gli altri attentati fu subito creata una pista ad hoc: si volle far credere che la strage e le bombe di Milano e Roma fossero opera degli anarchici. Uno di loro il ferroviere Giuseppe Pinelli, dopo il fermo giudiziario e durante l'interrogatorio, volò inspiegabilmente da una finestra della questura di Milano (quella stessa Questura in cui uno dei dirigenti era il commissario Calabresi). Per lo Stato quella di Pinelli fu "una morte accidentale". Assieme a Pinelli fu fermato il ballerino Pietro Valpreda, che rimase in carcere innocente per oltre otto anni. Tuttavia il castello di sabbia costruito intorno alla pista anarchica ben presto crollò. Subentrò invece la pista nera, tenuta fuori dallo scenario opponendo e studiando ogni sorta d'espedienti.

Da qualche parte nell'estrema sinistra si ricavò dagli attentati, specie quello di piazza Fontana, materiale più che sufficiente per alimentare il sospetto e la paura di un rischio di "golpe neofascista". La strage, intesa anche come un atto di guerra contro le lotte e il movimento del Sessantotto, spinse le tensioni sociali che alimentavano la protesta di sinistra ad assumere più intensamente forme eversive e rivoluzionarie, come dimostra la personale esperienza di Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gruppi di Azione Partigiana (GAP).
Alle bombe di Milano, Roma e dei treni seguirono quelle del 22 luglio 1970 sul treno La Freccia del Sud (6 morti e 139 feriti), del 31 maggio 1972 a Peteano (3 morti e un ferito, tutti carabinieri), del 17 maggio 1973 davanti alla questura di Milano (4 morti), del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 94 feriti), del 4 agosto 1974 sul treno Italicus, a San Benedetto Val di Sambro (12 morti e un centinaio di feriti), del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (80 morti e centinaia di feriti).

Tutti questi attentati facevano indubbiamente parte di un "qualcosa" di concertato e oscuro, di cui già si percepiva la potenza, insomma l'inizio di un piano criminale ben organizzato. Qualcuno evidentemente credette di ripercorrere le strade sperimentate con successo da Hitler e dai nazisti con l'incendio del Reichstag: compiere stragi, pilotare le inchieste verso obiettivi depistanti per attribuirne la colpa alle sinistre, utilizzare il terrore per creare smarrimento e incertezza dei cittadini per dar vita ad un governo autoritario. Tutte quelle esplosioni, infatti, hanno rappresentato l'inizio della "strategia della tensione" operata dalla manovalanza del "terrorismo nero". E le stragi nere del periodo 1969-1974 non sono state altro che piccoli tasselli di un grande mosaico cospiratorio e golpista, oltre che criminale.

Le formazioni paramilitari o parallele alle Forze Armate

Nell'immediato dopoguerra, già dai primi anni della Repubblica, si costituirono svariate formazioni paramilitari o parallele alle Forze Armate (ad esempio Gladio) che avevano il ruolo di procedere in azioni di guerriglia in caso d'invasione da parte delle forze del "Patto di Varsavia" e soprattutto agire nel nord Italia specialmente nella pianura Padana contro il Partito Comunista Italiano che avrebbe sicuramente appoggiato l'offensiva sovietica. Parallelamente, per merito di vecchi nostalgici, sorsero le prime organizzazioni neofasciste italiane.
Il neofascismo italiano sino al 1968 si caratterizzò come un movimento certamente violento in alcune sue manifestazioni, con aggressioni squadriste o attentati ai monumenti dedicati alla Resistenza. Certo, avventure criminali ma non operazioni terroristiche. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento gli attentati rappresentarono il cambio di strategia. Così a partire dalla fine del 1969, alla reiterazione delle spedizioni squadriste con raid di violenza nelle università, nelle scuole e nelle piazze, si sovrappose drammaticamente l'esplosivo. Tendenzialmente in posizione critica nei riguardi delle contestazioni del Sessantotto, i gruppi eversivi di destra si appoggiavano sui valori di "autorità" e di "gerarchia sociale". L'ideale era in sostanza lo "Stato forte".
Fino alla metà degli anni Settanta del Novecento, lo scenario delle organizzazioni dell'estrema destra è dominato da Ordine Nuovo (On) e Avanguardia Nazionale (An). Le differenze tra le due organizzazioni riguardano unicamente l'atteggiamento che assumevano nella lotta politica. Ordine Nuovo prediligeva la strategia della rivoluzione a lungo termine, mentre Avanguardia Nazionale seguiva la strada dell'azione immediata.

Tutta la storia dell'estrema destra italiana attraversa per intero quella della cosiddetta "Prima Repubblica", intrecciandosi costantemente con molte vicende oscure italiane. Sino al 1974, quando ancora i neofascisti non colpivano i rappresentanti dello Stato, ci fu indubbiamente un rapporto privilegiato da parte degli estremisti di destra con una parte del potere. Parallelamente alla rete di collegamenti tra eversione nera e alcuni dirigenti dello Stato, si sviluppò anche una profonda attività di copertura da parte di una fazione dei servizi segreti italiani.

I rapporti tra l'eversione nera e un parte dei servizi segreti, risalgono già ai primi anni Sessanta del secolo scorso. In quel periodo l'organizzazione Avanguardia Nazionale fu coinvolta in un'operazione progettata da alcuni dirigenti dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno. L'operazione consisteva nell'affissione clandestina di alcuni "manifesti cinesi". In pratica fu organizzata una campagna d'attacco al Partito Comunista Italiano apparentemente proveniente dalla sua sinistra. Non solo, è stato appurato anche una "certa" collaborazione di servizi segreti di altri Paesi nel quadro NATO. Dagli atti dell'inchiesta condotta dal giudice milanese Guido Salvini, emerge il concorso fra ufficiali del Counter Intelligence Corp (il servizio segreto statunitense dell'Esercito), la CIA e il Comando delle Forze Alleate per il Sud Europa di Verona. Scrive nella sentenza il giudice Salvini: «[.] la presente istruttoria, oltre a far venire alla luce le modalità e i materiali esecutori di molti attentati, stava dirigendosi verso l'individuazione delle collusioni in tali attentati e delle attività di controllo del nostro Paese, negli anni della strategia della tensione, da parte delle strutture dell'Alleanza Atlantica».

Come le varie inchieste hanno appurato, in quegli anni le "deviazioni" non furono un'iniziativa personale di alcuni uomini, ma l'attuazione di ordini predefiniti provenienti da catene di comando "irregolari". Insomma, i neofascisti sono stati la manovalanza di un più grande organismo complesso e segreto, di un vero e proprio disegno eversivo fondato sulla creazione e sul mantenimento di un clima di disordine sociale insanguinato, in cui una parte del potere potesse trovare buon gioco.

Dalla monumentale inchiesta condotta dal giudice Salvini, durata oltre dieci anni, si rileva chiaramente che gli uomini delle organizzazioni eversive neofasciste degli anni della "tensione", non erano altro che manovalanza di una regia occulta. La CIA non solo aveva degli infiltrati nelle organizzazioni eversive nere, ma "incoraggiava" in qualche modo questi gruppi perché perseguivano lucidamente il medesimo scopo del governo statunitense: l'anticomunismo. L'ordinovista veneto Carlo Digilio era un infiltrato della CIA, il suo nome in codice era "Erodoto" (uno dei suoi referenti in Italia era il capitano David Carret, ufficiale statunitense in servizio nelle basi NATO di Vicenza e Verona. Il capitano David Carret è stato inquisito in Italia per spionaggio politico militare e concorso nella strage di piazza Fontana).

I depistaggi

I depistaggi sono stati il lato più oscuro e vergognoso della storia democratica dell'Italia del secolo scorso. Ogni qualvolta le indagini si approssimavano all'esistenza di una certa simbiosi tra eversione neofascista e alcune strutture dello Stato, che utilizzavano le stragi per finalità d'influenza della politica, veniva apposto incredibilmente il segreto di Stato. Scrisse Aldo Moro dalla "prigione del Popolo" delle Brigate Rosse: «E' doveroso alla fine rilevare che quello della strategia della tensione fu un periodo di autentica e alta pericolosità, con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise».

Come se non bastasse, il tragico bilancio della "strategia della tensione" s'incrocia con quello di altre misteriose tragedie su cui i vertici della Repubblica, dei servizi segreti e delle Forze Armate italiane hanno più di qualche segreto sepolto da qualche parte: aerei finiti in mare durante scenari di guerra, persone alla conoscenza di segreti che stranamente si suicidano, giornalisti strangolati e fatti sparire, piani di golpe progettati e mai realizzati, e così via. A questo punto è opportuno far entrare in scena anche il "Piano Tora Tora", un nuovo tentativo di colpo di Stato (dopo il progettato golpe del generale de Lorenzo). Il golpe fu fissato per l'Immacolata del 1970, ed era guidato dall'ex comandante fascista della "Decima Mas" nella Repubblica di Salò, il principe Junio Valerio Borghese

Il Fronte Nazionale e il golpe

Tutto ha inizio nella tarda serata del 7 dicembre, quando gruppi di militanti dell'estrema destra, militari e civili si radunano in alcuni luoghi di importanza strategica nella capitale, in Lombardia, nel Veneto, in Toscana, Umbria e Calabria. Questo gran numero d'uomini era stato raccolto e organizzato da Junio Valerio Borghese sotto la sigla Fronte Nazionale, in stretto collegamento con Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.

Il Fronte Nazionale fu costituito dal principe Borghese nel settembre 1968 con un regolarissimo atto notarile. Finalità dell'organizzazione era quella di perseguire qualsiasi azione utile alla difesa e al ripristino dei massimi valori della civiltà italiana. Il Fronte Nazionale fu costituito con una doppia struttura: una pubblica, denominata "Gruppo A", ed una occulta, chiamata "Gruppo B". Quest'ultima era composta di reparti irregolari armati da impiegare nell'ambito di una strategia di stabilizzazione attraverso la destabilizzazione: le azioni criminose portate a termine da questi reparti avrebbero determinato la richiesta da parte dell'opinione pubblica italiana un forte desiderio di ordine. Questo avrebbe generato l'intervento delle Forze Armate portando il Paese a destra.

A partire dal 1969, il Fronte Nazionale del principe Borghese aveva favorito la fondazione di gruppi clandestini armati, aveva stretto relazioni con uomini e settori delle Forze Armate, aveva coltivato rapporti con faccendieri e intermediari collegati all'amministrazione statunitense ed ai comandi Nato. Sin da questo periodo si erano già succedute riunioni segrete tenutesi in più parti d'Italia, con la partecipazione di non pochi esponenti del mondo industriale, finanziario, militare, politico e mafioso, in cui si cercarono alleanze e si abbozzò un organigramma golpista. Il 4 luglio 1970, invece, fu costituita una "Giunta nazionale". Nelle riunioni si decisero anche gli obiettivi strategici da occupare (il Ministero degli Interni, il Ministero della Difesa, la sede della televisione italiana, gli impianti telefonici e di radiocomunicazione), l'elenco delle persone da arrestare e il luogo della loro deportazione, il proclama alla Nazione da leggere in diretta televisiva.

La notte della Madonna del 1970

 Il piano "Tora Tora" (chiamato così in ricordo dell'attacco a sorpresa portato a termine dai giapponesi a Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941), più volte rinviato, scattò effettivamente nella notte fra il 7 e l'8 dicembre del 1970, nella cosiddetta notte della "Immacolata". Gruppi di congiurati si riunirono nel quartiere di

Montesacro, nei cantieri del costruttore Remo Orlandini (personaggio legato al SID); in pieno centro storico, nella sede di Avanguardia Nazionale; attorno all'Università; in una palestra non distante dalla stazione Termini. Contemporaneamente altri congiurati si riunirono in diverse città italiane. Un gruppo di neofascisti guidati dal terrorista nero Stefano Delle Chiaie, riuscì ad entrare nel Ministero dell'Interno, impossessandosi dall'armeria di duecento fucili a ripetizione. Un altro gruppo di neofascisti con alcuni ufficiali dell'esercito, era in attesa di ordini nella palestra dell'Associazione paracadutisti in via Eleniana, sempre a Roma. In questo luogo si attendeva la distribuzione delle armi, che doveva avvenire a seguito dell'ordine di Sandro Saccucci (un tenente dei paracadutisti stretto collaboratore di Borghese). Lo stesso Saccucci, che avrebbe dovuto assumere il comando del SID, avrebbe dovuto dirigere personalmente un gruppo di congiurati con il compito di arrestare gli uomini politici elencati nella lista approvata personalmente da Borghese. Infine una colonna di quattordici automezzi, con a bordo centonovantasette guardie forestali guidate dal colonnello Luciano Berti (già inquisito per apologia di collaborazionismo e ciò nonostante giunto ad alti gradi del Corpo forestale dello Stato) e proveniente da Cittàducale presso Rieti, arrivò a poche centinaia di metri dalla sede della RAI in via Teulada. Il generale Casero e il colonnello Lo Vecchio, i quali garantirono di avere l'appoggio del Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica (il generale Fanali), aspettavano il segnale per occupare il ministero della Difesa. A Milano il colonnello Spiazzi con un altro gruppo di congiurati avrebbe dovuto occupare Sesto San Giovanni. A Venezia civili e militari stazionavano nei pressi dell'Arsenale, in pratica nello spiazzo dinanzi al Comando della Marina Militare. Altri congiurati, sempre civili e militari, attendevano l'ordine a Verona, in Toscana, Umbria e a Reggio Calabria. In quest'ultimo paese sarebbero state distribuite ai cospiratori le divise militari dei carabinieri. Tutti i militanti furono dotati di un'arma corta e di una lunga.
Il quartier generale del Golpe si era sistemato nel quartiere Nomentano. Ne facevano parte tra gli altri: il principe Junio Valerio Borghese, vero capo del complotto; il generale a riposo dell'Aeronautica Giuseppe Casero; il maggiore della polizia Salvatore Pecorella.

Contemporaneamente a Milano il colonnello Spiazzi muoveva con un reparto di congiurati verso i sobborghi di Milano, con l'obiettivo di occupare Sesto San Giovanni, in esecuzione di un piano di mobilitazione reso operativo da una parola d'ordine.

Il proclama alla Nazione

L'epilogo del colpo di mano sarebbe giunto con la lettura di un proclama televisivo da parte del principe Borghese, al termine del quale l'intervento delle Forze Armate avrebbe suggellato il definitivo successo dell'insurrezione e l'avvio di una nuova fase politica per il Paese. Il contenuto del proclama sequestrato nel marzo del 1971 nello studio del Borghese era pressappoco questo:


Italiani, l'auspicata svolta politica, il lungamente atteso "colpo di Stato" ha avuto luogo.
La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, ha portato l'Italia sull'orlo dello sfacelo economico e morale, ha cessato di esistere. Nelle prossime ore con successivi bollettini, vi verranno indicati i provvedimenti più immediati ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione.
Le Forze Armate, le Forze dell'Ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione sono con noi; mentre, dall'altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli, per intendersi, che volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi.

Italiani, lo Stato che insieme creeremo, sarà un'Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera: il nostro glorioso Tricolore!

Soldati di Terra, di Mare e dell'Aria, Forze dell'Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria ed il ristabilimento dell'ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali; vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento, nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi.

Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso Tricolore vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d'amore: Italia! Italia! Viva l'Italia!

 

E' chiaro, l'unico modo per ottenere la legittimazione da una parte delle forze politiche risparmiate alla deportazione, era quella di dare autorevolezza ad un nuovo esecutivo senza sopprimere le istituzioni repubblicane ma solo limitarle di poteri in favore di un esecutivo più forte.

Il contrordine inspiegabile e inaspettato

Ad un certo punto della notte più lunga della Repubblica arrivò il contrordine: tutti a casa. L'insurrezione, già in fase di avanzata

esecuzione, fu improvvisamente interrotta e tutte le disposizioni già impartite furono annullate. Fu Borghese stesso a ricevere un ordine per telefono in base al quale bisognava interrompere il piano sovversivo. A tutt'oggi non si è ancora conosciuto chi diede quell'ordine a Borghese e per quali ragioni. Lo stesso Borghese rifiutò di spiegarle persino ai suoi più fidati collaboratori. Probabilmente qualcuno d'alto era venuto meno al piano golpista, oppure si era trattato unicamente di un atto dimostrativo. Anche l'inchiesta della magistratura non chiarirà mai chi fosse stato a fare quella telefonata.

Assieme all'ordine di abbandonare l'operazione, fu richiesto la restituzione delle armi sottratte all'armeria del Ministero degli Interni, per occultare qualsiasi prova della cospirazione. Ma quando, dopo il contrordine, si trattò di restituire anche le sei pistole mitragliatrici custodite in un armadio dell'armeria del Viminale, una risultò mancante, al punto che si dovette farne fare una copia in fretta e furia da rimettere al posto di quella sottratta, perché nessuno si accorgesse in seguito dell'accaduto.

Subito dopo il tentativo di golpe, il mondo fu messo a tacere. Per averne conoscenza pubblica si dovette aspettare un anno e mezzo, fino al 17 marzo 1971, quando l'edizione serale di "Paese Sera" strillò la notizia in prima pagina. Due giorni dopo, il 19 marzo, la procura della Repubblica intervenne sulle rivelazioni della stampa emanando un ordine di cattura per il principe Valerio Borghese, per il pesante reato di cospirazione contro lo Stato. Ma dopo le prime indiscrezioni uscite il 17 marzo, Borghese si era già reso irreperibile riparando in Spagna dove morì da latitante, nel 1974, in circostanze mai chiarite, forse avvelenato, come sostennero i suoi fedelissimi. Constatata l'irreperibilità di Borghese, il giorno 21 marzo, nella perquisizione ordinata dai magistrati dell'appartamento del principe, furono ritrovati gli organigrammi dell'apparato direttivo golpista e il proclama che avrebbe dovuto essere letto in diretta televisiva. Il ministro degli Interni dell'epoca, Restivo, dovette rispondere alla Camera sulle prime notizie divulgate dalla stampa, tra cui proprio l'occupazione della sede del suo ministero. Seguirono inevitabilmente interrogazioni al governo e polemiche accese.

Il danno e la beffa

Grazie alle abilissime manomissioni politico-giudiziarie avvenute nel corso degli anni e alla complessa opera d'insabbiamento dell'inchiesta, l'opinione pubblica italiana prese per attendibile la tesi del "golpe da operetta" coronata dalle sentenze della Corte d'Assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte d'Assise d'Appello del 14 novembre 1984 che condussero all'esito assolutorio dei congiuranti: in pratica il delitto di insurrezione armata contro lo Stato fu fatto cadere. In appello l'assoluzione fu definitiva e generale. Ufficialmente, quindi, il caso fu archiviato dalla magistratura come un fatto da operetta. Le condanne furono quindi inesistenti.

Con la sentenza del 27 novembre 1984, infatti, la Corte di Assise di Roma assolse le settantotto persone condotte in giudizio «perché il fatto non sussiste». Nelle motivazioni della sentenza, si affermava: «I cospiranti scesero in piazza per un'isolata manifestazione eclatante, ostile, di per sé inidonea a realizzare l'evento previsto [.]».

Il proscioglimento quindi fu così motivato: «molte persone aderirono al Fronte Nazionale perché illuse e

confuse da ingannevole pubblicità [...]. Nei loro confronti non sono state avanzate istanze punitive nella presunzione che l'iscrizione, il gesto isolato e sporadico, il sostegno "esterno", la convergenza spirituale di per sé rilevano, piuttosto che un permanente legame, un atteggiamento psicologico non incidente sulla "condizione" processuale degli interessati».

Tra le posizioni archiviate ve ne erano alcune riferibili a soggetti che negli anni successivi avrebbero fatto parte in vicende di rilievo dell'eversione di destra, quali Carmine Palladino, Giulio Crescenzi, Stefano Serpieri, Gianfranco Bertoli, Giancarlo Rognoni, Mauro Marzorati, Carlo Fumagalli, Nico Azzi. In più anche la posizione del generale Berti risulta inspiegabilmente non perseguibile, nonostante l'alto ufficiale condusse un'intera colonna di militari armati di tutto punto e muniti di manette, acquistate senza autorizzazione ministeriale appena pochi giorni prima, fino a poche centinaia di metri dalla sede della radiotelevisione.
Di quanto accadde a Roma in quella notte dell'Immacolata del 1970 una sola cosa è certa: i servizi segreti sicuramente sapevano. Lo proverà la documentazione che Andreotti consegnerà alla magistratura romana soltanto cinque anni dopo. Quella stessa magistratura che farà di tutto per insabbiare l'inchiesta giudiziaria e per trasformare il "Golpe Borghese" in una vicenda cospiratoria da operetta.

L'ombra della mafia

 E' stato appurato che il principe Borghese richiese la collaborazione della Mafia per la realizzazione del suo golpe. Molti anni più tardi, infatti, grazie alle rivelazioni di Luciano Liggio e Gaspare Mutolo e, poi, di Tommaso Buscetta e di Antonino Calderone, emersero i legami tra il progetto golpista di Borghese e l'organizzazione mafiosa Cosa Nostra.

Il 3 dicembre 1984, nel corso di un'audizione, Tommaso Buscetta riferì che durante i mondiali di calcio in Messico del 1970 la "cupola" mafiosa si riunì in Sicilia per discutere della proposta di partecipazione ad un "golpe", avanzata dal principe Borghese. Raccontò il pentito che il progetto di "golpe" prevedeva un ruolo attivo degli affiliati di Cosa Nostra, a cui sarebbe stata affidata la "gestione" del territorio compreso nel mandamento di ciascuna famiglia mafiosa, per "calmare e far vedere al popolo siciliano che noi eravamo d'accordo, ognuno per la sua sfera di influenza che avevamo nelle nostre terre".

La contropartita offerta dai cospiratori fu quella della revisione di molti processi in corso a carico di esponenti dell'organizzazione criminale. L'accettazione da parte di Cosa Nostra fu compromessa in seguito alla richiesta, da parte dei golpisti, di un elenco di tutti gli "uomini d'onore" partecipanti alle operazioni golpiste. Non solo, tutti gli uomini di Cosa Nostra, durante l'insurrezione dovevano rendersi riconoscibili agli altri golpisti mediante una fascia di colore verde da portare ben visibile al braccio. Secondo i pentiti di mafia l'insurrezione fu bloccata in extremis perché gli statunitensi avrebbero ritirato il loro appoggio in seguito alla presenza nel Mediterraneo di una flotta armata sovietica.

Una morte misteriosa

All'insaputa l'uno dell'altro due giornalisti italiani stavano indagando sul golpe Borghese, seppure da posti diversi: da Genova Camillo Arcuri e da Palermo Mauro De Mauro. Tutti e due furono costretti al silenzio. De Mauro per sempre, Arcuri solo per trent'anni.

Nel 1969 Camillo Arcuri era giornalista al quotidiano Il Giorno. Egli nel settembre di quell'anno ricevette un'informazione da una fonte confidenziale: Junio Valerio Borghese, ex capo della "Decima Mas" e ispiratore del movimento neofascista Fronte Nazionale, si era riunito in gran segreto con alcuni economisti genovesi nel castello di Capo Santa Chiara. Borghese stava progettando un colpo di Stato militare. Il giornalista diede il via ad una inchiesta giornalistica, cercando riscontri e approfondendo le informazioni in suo possesso. Arcuri scrisse un primo articolo, proponendolo alla redazione de Il Giorno. L'articolo non ricevette mai la necessaria autorizzazione ad essere pubblicato. Contemporaneamente Arcuri cominciò a ricevere strani messaggi che lo esortavano ad essere prudente, assieme ad anonime pressioni al silenzio. Ci sono voluti trent'anni per pubblicare quelle informazioni (vedi bibliografia). In quello stesso periodo anche Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano siciliano L'Ora, aveva ricevuto le stesse informazioni. Il giornalista stava lavorando su un servizio che, come egli stesso riferì, avrebbe "fatto scoppiare l'Italia". Mauro De Mauro scomparve misteriosamente la sera del 16 settembre 1970. Per anni gli inquirenti credettero che dietro l'assassinio del giornalista vi fosse la sua inchiesta sulla ricostruzione del misterioso incidente aereo in cui, nell'ottobre 1962, perse la vita Enrico Mattei, presidente dell'Ente Nazionale Idrocarburi. Solo recentemente si è scoperto che la ragione dell'eliminazione del giornalista andava ricercata nelle rivelazioni che De Mauro si accingeva a pubblicare sull'imminente golpe Borghese, in particolare sull'alleanza tra neofascisti e Cosa Nostra.

Non fu dunque un golpe da operetta

I progetti golpisti (da quello di Borghese a quello di Edgardo Sogno del 1974) erano strettamente collegati alle bombe e alle stragi nere. Queste possono essere quindi interpretate come azioni inserite in una strategia pianificata avente come unico scopo quello di portare il Paese ad un livello di non-governabilità dell'ordine pubblico, per comprovare l'inettitudine dello Stato democratico e favorire una modificazione dell'assetto istituzionale in senso autoritario.
E' sbagliato quindi definire quello di Borghese un golpe "tentato" e poi rientrato. Il risultato politico che voleva ottenere chi aveva organizzato la cospirazione fu raggiunto: congelamento della politica del "compromesso storico" di Aldo Moro, allontanamento del Partito Comunista Italiano dall'area di governo, garanzie di una totale fedeltà filo-atlantica e filo-americana.

La verità è che il golpe c'è stato ed è riuscito. Eccome!

BIBLIOGRAFIA
  • Servizi segreti. Tutte le deviazioni: dal piano "Solo" al golpe Borghese, dalla P2 alla strage di Bologna, dal caso Cirillo al super Sismi, a cura di P. Calderoni, Pironti, Napoli, 1986.
  • Stragi, trame nere e Servizi, di C. Palermo, Publiprint, Trento, 1994.
  • Servizi segreti. Tutte le deviazioni: dal piano "Solo" al golpe Borghese, dalla P2 alla strage di Bologna, dal caso Cirillo al super Sismi, a cura di P. Calderoni, Pironti, Napoli, 1986.
  • Il Grande Vecchio. Dodici giudici raccontano le loro inchieste sui grandi misteri d'Italia da Piazza Fontana a Gladio, di G. Barbacetto, Baldini & Castoldi, Milano, 1993.
  • I poteri occulti nella Repubblica. Mafia, camorra, P2, stragi impunite, di Autori Vari, Marsilio, Venezia, 1994.
  • Minacce alla democrazia, di F. Ferraresi, Feltrinelli, Milano, 1995
  • La destra in armi: neofascisti italiani tra ribellismo ed eversione, di G. Cingolati, Editori Riuniti, Roma, 1996.
  • Il lato oscuro del potere, di G. De Lutiis, Editori Riuniti, Roma, 1996.
  • Alleanza Atlantica e stragista, di M. Notarianni, in Liberazione, 11 febbraio 1998.
  • Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla bomba al "Manifesto", di Daniele Biancchessi, Mursia, Milano, 2002.
  • Colpo di Stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese, il caso Mattei e la morte di De Mauro, di C. Arcuri, Rizzoli, Milano, 2004.

 

 

tratto da:

http://www.storiain.net/arret/num104/artic3.asp

 

 

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Ultimo aggiornamento:

 29 ottobre 2006