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I giovani ricercatori:
Oreste Caroppo
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M O N O G R A F
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Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago
Maltese nell’età del bronzo.
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Nel
Salento la soluzione di uno dei più grandi misteri della storia del
Mediterraneo arcaico: l’estinzione della ‘civiltà dei templi’ di Malta!
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Dietro la semplicità dei megaliti salentini si celano genti evolute e
ben organizzate, protagoniste nell’età del bronzo dei traffici
commerciali nel cuore del Mediterraneo!
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Antichi legami
tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.
Confrontando le espressioni del megalitismo salentino in
particolare dolmen e menhir, ascrivibili all’età del bronzo, con
analoghi monumenti presenti nel resto del mondo, molto
interessante si rivela la forte somiglianza tipologica con i
dolmen e i menhir dell’Arcipelago Maltese. Una somiglianza che
coinvolge anche alcuni di quegli aspetti, che nel megalitismo
salentino si possono considerare più peculiari e che sono frutto
della evoluzione subita localmente dalla ‘cultura delle grandi
pietre’. Si tratta di aspetti autoctoni del Salento, poiché
sin ora non riscontrati nelle altre realtà megalitiche, note e
studiate.
Nell’Arcipelago Maltese, le cui due isole principali sono Malta e
Gozo, si contano oggi alcune decine di dolmen. Questi sono molto
simili ai salentini per dimensioni, aspetto e soluzioni
costruttive; non solo, i lastroni di copertura presentano a volte
una scanalatura sul bordo, o fori passanti, particolari che si
ritrovano nei dolmen salentini i cui lastroni mostrano talvolta
scanalature, che vi corrono intorno a mo’ di canalette (ad esempio
nel dolmen Stabile-Quattro Macine e nello Sferracavalli), fori
passanti (ad esempio nel dolmen Scusi e nel Peschio), ma anche
coppelle (come nel dolmen Noa), vere e proprie bacinelle (come sul
lastrone del dolmen Specchia) e fenditure tagliate sul margine (ad
esempio nel dolmen Specchia stesso).
Nell’arcipelago si son ritrovati anche alcuni menhir, del tipo a
pilastro squadrato in forma parallelepipeda simile alla tipologia
di menhir più diffusa nel Salento.
Confronto
tra menhir salentini e menhir maltesi:
Menhir Il-Hagra tad-Dawwara, sull’isola di Gozo,
nell’arcipelago di Malta.
É un blocco parallelepipedo di calcare, alto 4,50
m, e con sezione di 61cm per 64 cm. Un menhir in tutto simile ai
menhir del Salento.
Il Menhir Il-Hagra tad-Dawwara, è stato trovato nel
1935 sotto 2,7 m di terra e sopra un pavimento in ciottolo di
circa 300 metri quadri, che fa ipotizzare un’area sacra al cui
centro si innalzava il monolite.
Su una delle sue facce si possono notare nella foto
alcuni fori ciechi.
Il particolare dei fori si ritrova anche su altri
menhir dell’arcipelago. Ad esempio, un foro cieco a sezione
circolare si osserva su una delle facce maggiori del menhir
Is-Salib sull’isola Malta, un monolite squadrato a sezione
grossomodo rettangolare, e rastremato rozzamente nella parte
superiore.
Si tratta di un particolare che stiamo ritroviamo
anche su numerosi menhir salentini, dove talvolta si osservano
sulle facce, fori ciechi di sezione grossomodo quadrata o
circolare e persino veri e propri fori passanti.
Son solito chiamare questi fori ciechi o passanti, ’l’occhio
del menhir’ , ma è questo un interessantissimo particolare del
megalitismo salentino cui dedicherò un intervento ulteriore!
Menhir Grassi a Carpignano Salentino. É un blocco
parallelepipedo di calcare compatto alto 4 m, e con sezione 50 cm
per 21 cm. Si noti la perfetta somiglianza di questo tipico menhir
salentino con il menhir maltese mostrato.
Confronto tra dolmen salentini e dolmen maltesi:
Dolmen, nelle campagne di Corigliano d’Otranto, che
ebbi personalmente il piacere di scoprire durante le campagne di
ricerca del 1993. Si tratta di un grande dolmen composito formato
da quattro celle adiacenti, sormontate da altrettanti lastroni.
L’interessantissimo sito
in cui sorge questa struttura, una necropoli dell’età del bronzo, ricca un tempo di dolmen e piccoli tumuli
sepolcrali, è stato recentemente danneggiato, e il dolmen stesso,
rischia di essere oggi criminosamente abbattuto, se le autorità
comunali non interverranno al più presto!
Dolmen Ta_Qadi sull’isola di Malta. Si noti la
strettissima somiglianza tipologica tra questa struttura dolmenica
maltese e quella del dolmen salentino di Corigliano, tanto forte
da rendere superflui i commenti.
Osserviamo
addirittura il medesimo uso di piccole zeppe di pietra tra i conci
soprapposti a formare i pilastri di sostegno, posizionate
opportunamente al fine di conferire ai massi poco rifiniti, la
corretta inclinazione o per colmare gli interstizi.
Il Dolmen nella foto è una struttura ubicata tra le
rovine del tempio di Ta-Qadi. Si tratta probabilmente di uno dei
tanti templi di pietra della civiltà neolitica e calcolitica dell’arcipelago maltese. Il dolmen fu lì costruito dai nuovi
conquistatori dell’età del bronzo per sfruttare la disponibilità
in loco di materiale lapideo ottenibile dal tempio e forse anche
perchè quei luoghi sacri, benché abbandonati, conservarono la loro
aurea di sacralità anche nei secoli successivi.
Interpretazione dei dati archeologici.
Nel Salento, forse, la soluzione di uno dei più grandi misteri
della storia del Mediterraneo arcaico: l’estinzione della ‘civiltà
dei templi’ di Malta!
I megaliti maltesi risalenti all’età del bronzo, presentano
analogie troppo forti di forme e quindi di pensiero, con i coevi
megaliti salentini, perchè si possa escludere, che nell’età del
bronzo e forse ancor prima, si svilupparono tra quelle isole nel
cuore del Mediterraneo e l’antico Salento, intensi rapporti,
pacifici o violenti che furono.
Rapporti che potrebbe contenere la chiave di risoluzione di uno
dei più grandi misteri della storia del Mediterraneo arcaico.
Prima
della costruzione dei dolmen e menhir maltesi (come già ricordato
coevi ai Salentini e risalenti all’età del Bronzo), prosperava
nell’arcipelago una fiorente ed evoluta civiltà, che aveva
costruito numerosi, imponenti ed elaborati templi di pietra con
annesse strutture ipogee, dedicati al culto della Dea Madre.
Misteriosamente e senza grosse avvisaglie di declino, nel 2200 a.
C., dopo circa 1500 anni di tranquilla prosperità, la civiltà dei
templi entrò in crisi e i luoghi sacri vennero repentinamente
abbandonati. Nello studio archeologico dei sedimenti sembra quasi
come se la popolazione fosse scomparsa dall’isola all’improvviso!
Quali tragici eventi provocarono l’estinzione di quella cultura?
Forse una bellicosa popolazione impugnante armi di rame e bronzo,
sbarcò su quelle isole, e sterminò, disperse o sottomise quelle
genti, non avvezze alla guerra, e che erano vissute pacificamente
nell’arcipelago, isolate e protette dal mare.
Tracce di incendi nei templi raccontano forse quella tragica
invasione!
I
maltesi non conoscevano ancora il bronzo, che permetteva la
realizzazione di resistenti e micidiali armi atte alla offesa.
Altri popoli invece, nelle aree continentali, si stavano sempre
più specializzando nell’uso sanguinario della nuova tecnologia
metallurgica, e dunque nell’arte della guerra attraverso cui
impossessarsi facilmente di terre, bestiame e ricchezze di altre
comunità!
Poco dopo il 2200 a.C. compaiono a Malta i primi megaliti di
influsso salentino, segno inequivocabile dello stanziamento
nell’arcipelago di genti provenienti dalla Penisola Salentina.
Nuovi conquistatori di una terra quasi ormai deserta, gli arcaici
salentini, vi introdussero la loro cultura e costruirono dolmen e
innalzarono menhir come facevano in Puglia le popolazioni da cui
provenirono.
Ma si trattò davvero di un invasione cruenta? Furono gli stessi
salentini gli autori di quell’efferato attacco alla civiltà
neolitica maltese o questi si insediarono in isole già deserte, a
seguito delle violente scorrerie di altri predoni del
Mediterraneo, oppure la popolazione era stata decimata da una
virulenta epidemia o da un violento cataclisma, come alcuni dati
geologici sembrano suggerire?
Domande cui solo l’archeologia e forse lo studio più profondo
della mitologia e della linguistica, potrà rispondere!
CONCLUSIONI
Dietro la semplicità dei megaliti salentini si
celano genti evolute e ben organizzate, protagoniste nell’età del
bronzo dei traffici commerciali nel cuore del Mediterraneo!
Indipendentemente dalle domande ancora senza risposta, resta una
certezza: i costruttori dei megaliti salentini non erano solo
pastori e agricoltori, ma avevano una padronanza non indifferente
nell’arte della navigazione, erano dediti ai commerci e armati con
spade di bronzo e alabarde di rame, non disdegnavano certo la
guerra di rapina e di conquista!
I numerosissimi insediamenti che punteggiavano nell’età del bronzo
la costa della Puglia e in particolare del suo lembo meridionale,
attestano una forte propensione verso il mare e i traffici
marittimi, di quei popoli.
Le mire espansionistiche dei salentini verso l’arcipelago maltese
non sono una scelta casuale, ma frutto di un calcolo preciso. Non
è certo la prospettiva di impadronirsi di pascoli e terre fertili,
o di importanti giacimenti minerari, che può spiegare
l’occupazione di quelle piccole isole, peraltro sensibilmente
lontane dalla costa. L’esiguità del suolo coltivabile e il clima,
almeno oggi, molto secco, sono infatti fattori poco favorevoli
all’agricoltura, come all’ allevamento, e il suolo dell’arcipelago è inoltre privo di risorse minerarie economicamente
interessanti!
Occupare l’arcipelago maltese al centro del Mediterraneo, voleva
dire prendere possesso di un punto strategico, fondamentale per
controllare i traffici tra Mediterraneo Occidentale e Orientale.
Dal Salento passava l’importante ‘via dell’ambra’, una rotta
commerciale che risaliva l’Adriatico e che portava nei paesi
mediterranei, la sacra ambra dai vitrei, caldi riflessi solari e
dalle ‘magiche’ proprietà elettriche, proveniente dai Paesi
Baltici e il raro stagno estratto sui monti metalliferi della
Boemia, indispensabile perchè legato al rame, metallo di più
facile reperimento, permetteva la produzione del bronzo, lega
appunto di rame e stagno.
Sin da epoche più antiche lungo l’Adriatico si svolgeva il
traffico della selce estratta sul Gargano.
Figura 6: si noti la centralità delle due aree, Salento e Malta,
nel Bacino del Mediterraneo. Centralità da cui si comprende l’interesse economico di natura commerciale che derivava dal dominio
di entrambi i territori; quello stesso interesse che mosse i salentini dell’età del Bronzo, ad insediarsi nelle isole maltesi,
e forse a decimare la popolazione isolana eneolitica.
L’interesse dei popoli salentini verso le rotte occidentali era
molto antico e derivava dalla necessità di rifornirsi della
ossidiana estratta nelle isole Eolie.
Sviluppatasi in questo contesto, la ‘civiltà dei megaliti
salentina’, ebbe modo di entrare in contatto con numerose culture,
e prosperare anche attraverso l’attività del commercio.
La volontà di estendere il dominio proprio al cuore del
Mediterraneo, e le capacità belliche e comunque strategiche e
logistiche che l’insediamento a Malta rivela, ci presentano un
popolo salentino meno arretrato e disorganizzato di quanto si era
fin ora soliti credere; un popolo che certamente esercitava già
un controllo diretto sui traffici della ’via dell'ambra’, che
passavano necessariamente attraverso il Canale d’Otranto.
Malta poteva diventare una importante base per estendere i
commerci e la ricerca di rame e delle stagno verso il Mediterraneo
Occidentale, in un epoca, quella del bronzo, in cui la domanda di
questi metalli stava crescendo esponenzialmente.
Le tribù iberiche commerciavano lo stagno, estratto nelle isole
Cassiteridi nel Mar del Nord, cosicché i salentini impossessandosi
di Malta e conservando il controllo del Canale d’Otranto,
potevano controllare le due principali vie di approvvigionamento
di stagno per il Mediterraneo Orientale e l’Egeo: la ‘via
dell’ambra’ e le rotte verso la Penisola Iberica.
Oreste Caroppo. |
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Considerazioni finali sulla numerosità dei menhir pugliesi |
Più estendo le mie ricerche più mi
accorgo con meraviglia della impressionante densità di menhir, che un
tempo doveva rivestire il territorio e di cui le cospicue testimonianze di
oggi, costituiscono solo la punta di un iceberg se paragonate a quella
antica moltitudine. Una densità che rivaleggia perfettamente con quella di
altre realtà megalitiche più famose nel mondo. Una densità tanto alta che
deve indirizzare la ricerca verso uno studio topografico attento al fine
di svelare quali significati e relazioni si nascondono dietro questa
vastità ed estensione del complesso fenomeno megalitico pugliese! |
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Antichi sacrifici all’ombra dei menhir
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<<Da
lato al menhir, si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri
giganteschi>>
Una
segnalazione molto singolare, risalente alla seconda metà del ‘800, ci
permetterà di far luce sugli antichi riti, che si svolgevano all’ombra dei
menhir di Puglia, e fornirà indirettamente un primo dato relativo alla
datazione minima, almeno di uno di essi.
Accenneremo inoltre, al rapporto che nell’età del ferro le popolazioni
japige, avevano con gli antichi menhir della loro terra e con il culto
betilico, che aveva portato le più antiche popolazioni della regione a
erigere quei possenti megaliti.
Nota: principali toponimi e nomi etnici della Puglia
in età del ferro. |
Japigia
è il nome antico della Puglia e deriva da quello delle popolazioni
che la abitarono nell’età del ferro, gli japigi, che si
possono dividere in messapi e apuli. I messapi
(detti anche salentini o sallentini o anche calabri),
abitavano il Salento, il lembo meridionale della regione,
identificabile grossomodo, con le attuali province di Lecce,
Brindisi e Taranto e chiamato in antichità anche Messapia o
Calabria.. Gli apuli si dividevano in peuceti o
peucezi, che abitavano la Peucezia, la parte centrale
della regione tra la Penisola Salentina e il Tavoliere delle Puglie
e i dauni che abitavano la Daunia più a Nord,
comprendente grossomodo il Tavoliere, il promontorio del Gargano e
l’Appennino Dauno. Gli japigi comprendono popolazioni
culturalmente e anche etnicamente con forti legami tra loro, nate
dall’unione delle genti che popolavano la regione in età del
bronzo, gli ausoni con gruppi di illiri, greci
e cretesi giunti nei secoli tra la fine dell’età del bronzo
e gli inizi dell’età del ferro. In età del ferro la vicina regione
Basilicata era abitata dai lucani, chiamati anche enotri
. Questi vivevano in quelle terre già in età del bronzo ed erano
etnicamente e culturalmente vicini al sostrato più antico delle
genti di Puglia, gli ausoni. |
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Cratere apulo a figure rosse del IV sec. a. C., Museo d’Arte di
Filadelfia. Scena di sacrificio. É rappresentato un tipico sacrificio
della Puglia del IV sec. a. C., che vede nel caso specifico una
pecora offerta in olocausto.
Foto tratta da
www.museum.upenn.edu |
Lo
studioso che ci fornisce il prezioso dato è Luigi Maggiulli, un noto
avvocato di Muro Leccese, appartenente ad una delle più facoltose famiglie
di quella città e grande appassionato di antichità e storia patria.
Vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, può essere ritenuto il primo vero
iniziatore degli studi sul megalitismo nell’entroterra otrantino.
Nella
sua “Monografia su Muro Leccese” edita in Lecce dalla Tipografia Editrice
Salentina nel 1871, nel paragrafo sugli ‘Antichi Monumenti’ della sua
città, il Maggiulli descrive un menhir che ancor oggi possiamo osservare
nel territorio di Muro, il Menhir Croce Sant’Antonio. Questa suggestiva
pietrafitta si colloca con i suoi 4,20 m di altezza, tra i più alti menhir
di Terra d’Otranto.
Sorge
in contrada Zicche, al centro di un crocevia, in un largo detto ‘Largo
Sant’Antonio’.
Relativamente a questo monumento lo studioso aggiunge l’importantissima
notizia:
<<da
lato -cioè di fianco al monolite- si dissotterrarono dei sepolcri con
scheletri giganteschi>>.
Il
Maggiulli aveva poco prima raccontato dei numerosi sepolcri, che si
rinvenivano nel territorio della città; molti di essi dice, erano ‘cavati
nel monte’, cioè scavati nel banco di roccia affiorante, e
probabilmente, anche scavati nel banco roccioso, erano quelli nel Largo
Sant’Antonio.
Muro
è un antica città messapica, il cui nome originario o almeno la
contrazione di questo, era ‘MIOS’, come possiamo dedurre dalla lettura
della ‘mappa di Soleto’, un frammento di vaso fittile dipinto di nero,
usato come base per scrittura (un ‘ostrakon’), con incisa una antica mappa
del Salento, risalente al V sec. a. C., e ritrovato recentemente
perfettamente in stato, in uno scavo archeologico condotto nella non
lontana città messapica di Soleto.
Possenti mura del IV secolo a. C. ancora circondano l’antico abitato di
Muro. I numerosi sepolcri descritti dal Maggiulli, erano tombe messapiche,
che ancor oggi lì si rinvengono numerose.
Quelli però trovati in Largo Sant’Antonio avevano qualcosa di anomalo,
contenevano <<scheletri giganteschi>>.
Si
trattava di ossa molto grandi, che dovettero impressionare la gente del
villaggio, che favoleggiò fossero le reliquie dei giganti, che avevano
innalzato i menhir e i grandi macigni squadrati, che costituivano i resti
delle ciclopiche mura messapiche.
Il
Maggiuli però non accenna a nessuna suppellettile o corredo funebre
ritrovato nei ‘sepolcri’ intorno al menhir Croce Sant’Antonio, mentre
sappiamo che nei normali sepolcri messapici qualche suppellettile si
rinviene quasi sempre, poiché i messapi erano soliti accompagnare i
defunti nel loro viaggio nell’aldilà, con un corredo funebre
proporzionale alle capacità economiche del trapassato e della sua
famiglia, e differenziato a seconda del sesso, dell’età, della posizione
sociale e dell’attività svolta dall’uomo accolto nella tomba.
Rivalutando con maggiore rigore scientifico i dati a disposizione e alla
luce della maggiore conoscenza, che oggi abbiamo sulle caratteristiche
anatomiche ed etniche dei messapi e delle antiche genti del Salento,
possiamo certamente escludere che si trattasse di resti umani.
Al
più in verità, potremmo pensare che si trattasse dei resti di un raro
individuo malato, affetto da gigantismo, ma i sepolcri con <<scheletri
giganteschi>> in largo Sant’Antonio erano più di uno, poiché lo studioso
parla al plurale (<<sepolcri>>, <<scheletri>>), e il gigantismo è una
patologia così rara da permetterci di escludere, che tutte quelle buche
fossero tombe di ammalati di gigantismo!
Le
ossa scambiate per scheletri di giganti, erano molto più presumibilmente,
ossa di animale, forse cavallo o bue, e gli scavi nella roccia in
prossimità del menhir Sant’Antonio, interpretati per analogia con le
tombe ‘scavate nel monte’, come sepolcri, altri non erano invece, che
fosse legate ai sacrifici che si officiavano all’ombra del menhir.
Lì si
offrivano in olocausto alle divinità e forse anche agli spiriti dei
defunti animali di grosse dimensioni; il sangue, il grasso e le ossa erano
riversate nella fossa, le parti più prelibate erano fatte oggetto di pasto
rituale. Presso i greci sappiamo ad esempio, che era consuetudine offrire
agli dei solo il grasso e le ossa degli animali sacrificati, in
particolare dei tori veniva offerto l’osso della coscia.
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Menhir Croce Sant'Antonio, nel largo omonimo a Muro
Leccese.
Si noti la presenza di un edicola votiva nei pressi
del menhir, oggi scomparsa, certamente ospitava un affresco di Sant’Antonio, il santo cui era dedicato quel largo, crocicchio di strade.
Si tratta di un edicola del tipo molto diffuso nell’entroterra otrantino: edicola monolitica ospitante di solito un affresco a
motivo religioso, chiamata in vernacolo, ‘cunneddha’, diminutivo di
‘icona’, termine greco che significa "immagine sacra".
Porre un
edicola vicino ad un menhir è uno dei molteplici modi in cui i
menhir salentini furono cristianizzati.
Qui inoltre
la cristianizzazione si evidenzia nel nome stesso del menhir,
chiamato dai locali "croce".
Foto
biblioteca di Luigi Maggiulli
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Sacrificio
di un toro rappresentato su un mosaico romano del II-III sec. d. C.
Ostia antica.
Foto tratta
da
www.ostiantica.it |
L’usanza di versare il sangue delle vittime sacrificali per terra affinché
fosse assorbito da questa, e in particolare il grasso e le ossa in fosse
scavate nelle aree sacre, è una pratica diffusissima nel mondo antico e
anche in Terra d’Otranto, come rivelano ad esempio gli scavi archeologici
condotti presso insediamenti e luoghi di culto dei messapi. In questo
modo le parti liquide e solide erano affidate alla terra e offerte al
mondo ctono, degli inferi, ai defunti che alla dimensione sotterranea son
legati, e dunque almeno ‘archetipicamente’, alla Dea Mater, la Terra,
Signora della vita e per contro anche della morte; il fumo degli arrosti
sacri saliva invece al cielo ed era offerto agli dei celesti e al Padre
Supremo, il Dio del Cielo e del Sole. Si bruciavano, in quei riti pagani,
anche foglie e rametti di piante aromatiche, affinché il profumo di queste
salisse al cielo (e il termine ‘profumo’, derivato dal latino, ricorda
etimologicamente queste antiche pratiche, e vuol dire infatti
letteralmente: odore emesso ‘attraverso il fumo’).
Il
menhir ponte eretto tra il cielo verso cui si protende e la terra in cui è
confitto, era il monumento perfetto all’ombra del quale celebrare questi
riti di ricongiunzione degli uomini col mondo divino.
Compiere riti di sacrificio all’ombra del menhir è una pratica ovvia e
scontata.
Approfondendo il culto betilico e i suoi aspetti più profondi,
psico-antropologici, si giunge a questa previsione; non solo, la studio
approfondito di quei culti molto lontani dal nostro modo di pensare, la
conoscenza delle religioni antiche e della mitologia, mi permettono di non
escludere persino riti ben più cruenti, che prevedevano il sacrificio di
esseri umani! Punti che affronteremo solo dopo aver introdotto i concetti
basilari del ‘culto betilico’.
Il
ritrovamento degli <<scheletri giganteschi>> e delle fosse sacrificali
dunque non meraviglia, ma mostra solo come in effetti il menhir, dalle
molteplici valenze simboliche e pratiche, era percepito in antichità come
‘colonna betilica’.
I
significati archetipi del menhir ovvero della colonna, quale legame tra
cielo e terra, l’uomo e il divino e l’uomo e il territorio, la
correlazione spaziale con quelle che ci appaiono quali fosse sacrificali,
e l’unicità di queste nel territorio di Muro Leccese, ci convincono, in
mancanza ahinoi, di alcuno scavo archeologico serio ai piedi dei menhir
salentini, della correlazione temporale: fosse sacrificali-menhir, che non
esclude essere il menhir ancora più antico.
Non
possiamo certamente stabilire, in assenza di ulteriori dati, l’età a cui
risalivano quei sacrifici di Largo Sant’Antonio. Si tratterebbe di un dato
cronologico, che fornirebbe un'importante indicazione sulla "età minima"
del monolite.
Possiamo però con certezza escludere, che quei riti cruenti, siano
successivi alla affermazione del cristianesimo nel Salento, che iniziò a
diffondersi per altro molto presto, se come raccontano le leggende, fu
davvero l’apostolo Pietro a predicare il Verbo di Cristo in terra
salentina.
Con
il raggiungimento della piena evangelizzazione del Salento, cessarono
tutti quei riti pagani che prevedevano il sacrificio di animali agli Dei.
Approssimativamente possiamo dunque dire che i riti sacrificali
testimoniati in Largo Sant’Antonio, non sono successivi al IV-V secolo d.
C., e di conseguenze lo stesso dobbiamo ipotizzare per quel grande menhir
lì ubicato.
Dunque se non già all’età del bronzo, quei sacrifici di grossi animali
risalgono almeno alla prima età del ferro, o all’epoca messapica o a
quella romana!
Nel
culto messapico e apulo della colonna, l’eco
della religione dei menhir
Tutta
la cultura japigia è intrisa del "culto della colonna e della
stele", certamente
derivato, come credo, dall’incontro del gusto estetico ellenico con il
‘culto del menhir’, trasmesso agli japigi (messapi e apuli) dal sostrato
autoctono dell’età del bronzo di cultura megalitica, che si integrò e fuse
con le genti illiriche, cretesi e greche, che si stabilirono nel Salento
agli albori della civiltà messapo-apula (fine età del bronzo-inizi età del
ferro).
In
tutta la Puglia, presso gli japigi, ritroviamo un culto particolare per la
pietra, quale oggetto privilegiato di contatto dell’uomo col divino;
pietra appunto come il menhir, disposta verticalmente e a volte persino
conficcata nel terreno, ora come stele monolitica, ora come semplice
colonna con capitello senza alcuna architrave o funzione architettonica,
ora come pietra informe, ora squadrata o rifinita in altro modo,
semplice o arricchita da decorazioni, petroglifi graffiti o a rilievo,
pigmenti e iscrizioni incise, ora figurata, ora scolpita in statua-stele
antropomorfa.
Un culto per
la pietra, così radicato che si diffuse come mostreremo persino nelle
colonie magno-greche, che più di altre gravitavano nel mondo Japigio, la
dorica Taranto, e l’achea Metaponto, e che con differenziazioni locali
ritroviamo in tutta la Puglia dalla Daunia fin nelle ultimi propaggini del
Salento e con continuità dal IX-VIII sec. fin nell’epoca romana.
Tipica colonna votiva messapica. Ricostruzione sulla
base del ritrovamento di un capitello a Cavallino. Estratto da un
lavoro del Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi
di Lecce |
Cratere
apulo a figure rosse
(recipiente
per mescere il vino con acqua),
alto 80 cm.
Puglia 320-330 a. C.
Si noti al
centro è rappresentata una colonna
semplice
decorata con nastri, e bende,
posta su un
alto basamento.
Foto
tratta da
www.museum.upenn.edu |
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Un argomento
di estremo interesse, che approfondirò in un prossimo intervento, e che è
necessario trattare per comprendere i legami col più antico megalitismo
pugliese, di tutti quei culti dell’età del ferro a ‘matrice litolatra’
(cioè includenti una sorta di venerazione per la pietra), che deve essere
sempre considerata alla luce delle molteplici valenze magico-religiose,
che la pietra assume. Non solo, procedendo a ritroso, lo studio del ‘culto
del cippo’ e ‘della colonna’ in età del ferro, meglio
documentato dalle fonti e dall’archeologia, dà in parte la possibilità di
far luce anche sui riti e sulla religione più antica, oscura e complessa,
praticata in Puglia in età del bronzo e ancor prima, e che quei culti
stessi originò.
La vicinanza del menhir Sant’Antonio, con l’area messapica di Muro,
le pratiche rituali che si svolgevano ai suoi piedi e la sua
correlazione con vetuste strade di una certa importanza già in epoca
in antica, mi spinge ad accennar qui, al ‘culto messapico della
colonna’ (presente anche presso gli apuli come la produzione
vascolare apula rivela), rimandando per ora il non meno rilevante e
della medesima natura e genesi, ’culto della stele’.
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In spazi aperti messapi e apuli, innalzavano colonne agli dei,
semplici pilastri con capitello. Al di sopra vi si posizionavano una
statua di divinità o un grosso vaso o un braciere o un elemento
litico decorativo in forma di triangolo isoscele o qualche altro
oggetto. Talvolta la colonna era semplice e non accoglieva nulla in
sommità, a conferma dell’importanza a se dell’elemento ‘colonna’.
Due capitelli di queste colonne sono stati repertati a Cavallino e a
Ugento, due importanti città messapiche.
Hanno
entrambi abaco ornato con rosette a rilievo. Il capitello di
Cavallino ha echino particolarmente schiacciato e collarino con
foglie schematizzate.
La colonna
a cui apparteneva il capitello ugentino, accoglieva sopra una
pregevole statua bronzea di Zeus, ritrovata quasi integra e fatta
risalire al 530 a. C. La statua rientra nella produzione dell’arte
tarantina, e probabilmente come fanno supporre alcuni particolari
stilistici, fu fusa a Ugento da maestranze tarantine o fu realizzata
su precisa commissione e con le accortezze e le caratteristiche
richieste dagli ugentini, nelle botteghe della colonia dorica. |
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Hydria apula a figure rosse (vaso per acqua). Puglia.
Si noti al centro la colonna su basamento, ornata con bende.
Foto tratta da
www.arsantiqua-online.com |
La colonna era ornata con nastri e ghirlande, come possiamo dedurre
dall’arte figurativo-vascolare ritrovata in Puglia, e soprattutto in
quella di fattura ‘apula’, e si elevava in spazi sacri generalmente
recintati e privi di copertura, proprio in modo da sottolineare il
valore della colonna quale ponte tra cielo e terra, secondo i
medesimi valori archetipi, che avevano ispirato già molti secoli
prima l’erezione dei menhir. |
Come si
può dedurre dai ritrovamenti archeologici di materiale vascolare,
altari e altri reperti associabili ai medesimi contesti cultuali,
intorno al pilastro, si svolgevano, riti e cerimonie, che
prevedevano libagioni, offerte di primizie ed ex-voto di vario tipo,
statuine, vasellame, piramidette (vasi da telaio fittili) con in
greco incise formule di dedica, vasi miniaturistici, fibule, ecc.
Ai piedi della colonna, i messapi sacrificali animali ai loro dei.
Nelle aree sacre si son ritrovati anche altari costituiti da blocchi
di calcare a pareti lisciate e spigoli arrotondati, con tracce di
combustione, effetto dei fuochi accesi per bruciare foglie e rametti
aromatici o vari prodotti della terra offerti al mondo divino o
anche per arrostire le sacre carni dei sacrifici. Altri altari
avevano semplici decori e a volte riportavano incise in greco o
messapico, formule dedicatorie col nome della divinità invocata e a
cui era consacrato l’altare o dell’offerente. Vi erano altari per
i sacrifici e lo sgozzamento degli animali offerti in olocausto, di
dimensioni variabili a seconda delle bestie, che vi si immolavano e
a volte anche vasche monolitiche scavate in blocchi di calcare con
foro nel fondo. Vi si versavano dentro le offerte e i liquidi sacri,
come il sangue e il vino delle libagioni, che percolavano poi nella
terra con cui la vasca monolitica era forse a contatto.
Si usavano a tal fine anche vasi appositamente preparati, con un
foro nel fondo, e che venivano posati o seminterrati nel terreno. |
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Riproduzione
grafica di una vasca con ampio foro sul fondo, di età arcaica,
usata a mo’ di altare, recuperata a Cavallino nel corso degli
scavi degli anni ’60 e ’70.
É scavata in un blocco parallelepipedo di
calcare locale di altezza 10 cm, e base 18,5 cm X 29,5 cm. É
decorata da una scanalatura sottile che corre lungo il bordo.
Vi si versava il sangue dei sacrifici e le libagioni, e i
liquidi, attraverso il foro, percolavano nel terreno con cui
era forse posta in contatto. |
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Nota:
animali e altri prodotti della terra sacrificati agli dei e ai
defunti presso i messapi.
I messapi
presso i quali ritroviamo una notevole complessità e varietà di
culti, sacrificavano ai loro dei, quasi ogni animali selvatico e
domestico, persino il cane. Tra gli animali di stazza maggiore, non
solo il cervo, il maiale, il cinghiale e il comune bue, ma anche il
cavallo di cui erano grandi allevatori. Come racconta uno scrittore
latino nel II sec. d. C. (Festo in “Sul significato delle parole”),
i ‘sallentini’, consacrato un cavallo a ‘Giove Menzana’ (‘menzana’,
vuol dire ‘cavallo’ in messapico), lo gettavano vivo nel fuoco!
Inoltre,
come sempre nella ritualità del mondo antico, anche presso i messapi
non erano offerti solo animali a dei e spiriti dei morti, ma ogni
altro frutto della terra, sia liquido, come acqua, latte, miele,
olio, e il vino delle libagioni, sia solido, come semi di cereali,
legumi, frutta, ortaggi ecc., poteva essere oggetto di offerta
rituale. Non solo, sempre al fine di rivolgere l’offerta sia alle
divinità celesti sia a quelle terrestri, una parte anche di queste
offerte, era gettata nel fuoco, perchè bruciasse ed evaporasse, per
salire in alto come fumo, l’altra era deposta su un supporto o
direttamente a terra o gettata in fosse. |
Gli antichi
menhir per i messapi erano sacre
colonne erette dagli antenati
I riti che si svolgevano ai piedi delle colonne messapiche, non
erano dissimili da quelli che si celebravano ai piedi del menhir
Sant’Antonio, e certamente di altri menhir salentini.
Ora però è impossibile dire se fossero dei messapi o di genti più
antiche, le fosse sacrificali scambiate dal Maggiulli per sepolcri.
E quand’anche fossero stati i messapi ad officiare sotto il menhir,
quei riti sacrificali, analoghi a quelli celebrati sotto le loro
‘colonne votive’, questo non ci stupirebbe.
Consideriamo infatti che alcuni menhir sorgevano addirittura
all’interno della cinta muraria di città messapiche o in prossimità
di queste, spesso lungo importanti assi viari e incroci
(caratteristiche di ubicazione proprie ad esempio dei menhir di Muro
Leccese e analoghe a quelle che ritroveremo per le stele messapiche,
cippi (=stele) che la stessa Muro ha restituito numerose).
Se non furono proprio gli stessi salentini dell’età del ferro ad
erigere qualcuno di questi menhir, non possiamo non sottolineare
come quei monoliti non furono distrutti e abbattuti sotto tutta la
civiltà messapica.
Questo ci permette di capire quanto la sacralità di quelle antiche
pietre fosse percepita ancora in Puglia presso gli japigi.
Un altro
dato sempre fornito dal Maggiulli, conferma ancor più questa
continuità di culto o mera percezione di sacralità nei confronti del
menhir in età del ferro. |
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necropoli e
resti delle mura dell’antica città messapica di Manduria. Foto
tratta dal sito www.salentopoint.com |
Menhir Trice,
Muro Leccese.
Foto tratta
da
www.stonepages.com |
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Nel medesimo paragrafo sopra citato, il Maggiulli ricorda, che in
Largo Trice, sorgevano agli inizi del secolo scorso, tre menhir
vicini tra loro, di cui almeno uno collocato sopra un basamento di
roccia naturale <<scheggiato grossolanamente col piccone>>; oggi ne
rimane solo uno, il più grande dei tre, alto 4 m. Tutta l’area
intorno a questi fu adibita a necropoli in epoca messapica, e lo
studioso ottocentesco infatti ricorda che <<alla base - dei menhir
- si ritrovarono nei passati tempi molti sepolcri scavati nel
monte>>.
Questa associazione antico menhir-necropoli messapica, suffragata
nel largo Trice a Muro dall’archeologia moderna, ci fa capire quale
alto significato i vetusti menhir avessero presso i salentini della
prima età del ferro, di epoca classica, e poi ellenistica, tanto da
collocare attorno agli antichi pilastri eretti dagli avi salentini,
le loro dimore ultraterrene!
Una sacralità che i salentini non smisero mai di percepire anche in
epoca romana e nella successiva epoca cristiana, quando introdotti
come ‘croci’ e colonne votive nella nuova fede, i menhir
continuarono ad essere oggetto di culto in forme, rituali e
terminologie nuove, ma sempre riconducibili e fondate sulle stesse
universali basi psico-antropologiche e magico-religiose. |
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Influssi maltesi nei menhir del Salento |
L’anomala sezione del menhir Cutura
Il menhir Cutura, ubicato sulla provinciale Palmariggi-Giuggianello
(vedi il mio intervento di segnalazioni “Il Menhir Cutura”), è
costituito da un blocco monolitico a sezione grossomodo quadrata.
Viene meno un elemento molto diffuso tra i menhir salentini a
pilastro squadrato, che è la sezione spiccatamente rettangolare. Le
dimensioni della sezione del menhir Cutura, 59cm per 61cm, con un
rapporto,
(lato
min./lato max)=0,97(=59/61) vicino all’unità,, ci ricordano quelle
di un menhir maltese, il menhir Il-Hagra tad-Dawwara sull’isola di
Gozo (vedi tra i miei interventi:
“Confronto tra menhir salentini e menhir maltesi” in “Antichi
legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo”),
di forma parallelepipeda, con sezione di 61cm per 64 cm, per
un rapporto, (lato min./lato max)=di
0,95 (=61/64).
Altri menhir salentini squadrati aventi facce molto ampie, da 50 a
72 cm, non sono rari, ma non si osserva in nessuno di essi un
rapporto tra le dimensioni dei lati della sezione tanto vicino
all’unità, quanto per il menhir Cutura; si pensi ad esempio al
menhir Malcantone di Uggiano la Chiesa, di forma grossomodo
parallelepipeda a sezione rettangolare con lato maggiore di
lunghezza record 72cm, ma con il lato minore misurante circa 48 cm,
per un rapporto solo di 0,67 (=48/72).
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Figura 1: Menhir San Giovanni Malcantone in agro di Uggiano la
Chiesa. Altezza 4m, sezione 70cm per 48cm. Si osservi l’alto
basamento roccioso naturale o
rozzamente rifinito, su cui si eleva il menhir. Foto tratta da
www.stonepages.com .
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Il menhir Cutura, mostra come nel Salento tra i menhir a pilastro
squadrato, accanto a quelli a sezione rettangolare, ne esistevano
alcuni, come il Cutura appunto, a sezione quasi quadrata.
É questo un ulteriore elemento di similitudine tra menhir salentini
e maltesi! Anche i menhir a pilastro squadrato dell’arcipelago
maltese hanno infatti talvolta sezione rettangolare (come il menhir
Is-Salib, sull’isola di Malta), talaltra sezione quadrata (come il
Menhir Il-Hagra tad-Dawwara sull’isola di Gozo).
Analisi delle decorazioni a forellini
sulle facce del Menhir Cutura
Descrizione dei
decori a forellini sulle superfici del menhir Cutura.
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Figura 2: faccia a SE del menhir Cutura. Si notano piccoli fori
sulla superficie. Foto O. Caroppo.
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Sulle facce a SE e a SW si osservano numerosi forellini; le
superfici della pietra anche in corrispondenza di questi sono ben
levigate e protette da una patina di antichi licheni.
La densità di forellini è più alta sulla faccia a SW. Qui in maniera
più evidente, si osserva un fitto ricamo di buchetti casuali e
adiacenti l’un l’altro. I forellini hanno diametri medi da 1,5cm a
3cm e profondità fino a 2cm.
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Figura 3: faccia a SW del menhir Cutura. Si osservi il ricamo
di buchetti della superficie. Appare in alto una croce greca
incisa, e ancor più in alto a destra, un grosso foro sullo
spigolo a S. Per ulteriori dati sul menhir, vedi la
segnalazioni “Il Menhir Cutura”. Foto O. Caroppo. |
Discussione
sull’origine antropica delle bucherellature della pietra.
Se ipotizziamo che i numerosi forellini
siano riconducibili ad un semplice processo erosivo naturale
comportante carie della pietra, dobbiamo ammettere che questo si è
compiuto in età antica, dato che oggi, tale erosione(?) appare ormai
stabilizzata; quelle superfici son infatti ricoperte e protette da
una patina di antichi licheni.
Sulle altre due facce del menhir non si
osservano queste carie. Essendo la natura della pietra la stessa, il
menhir è un blocco monolitico, per spiegare tale azione
differenziata degli agenti esogeni, si dovrebbero introdurre ipotesi
meteorologiche sulla direzione e intensità dei venti, che alla luce
dell’orografia del territorio, e del clima del Salento si rivelano
subito poco plausibili!
Lungo i piani di taglio in sommità, in
testa, lungo gli spigoli smussati e arrotondati, così come lungo la
smussatura dello spigolo S tra le due facce cariate, non si
riscontrano forellini né alcuna rete di questi, come invece sulle
due più ampie superfici del blocco descritte.
Per questo motivo dovremmo ritenere le
smussature successive. Ciò nonostante ci meraviglia il fatto che il
medesimo processo erosivo(?) non abbia poi interessato anche le
smussature e le altre superfici in testa essendo la natura delle
pietra la medesima!
Per risolvere la questione analizziamo
quei processi erosivi che caratterizzano la pietra di cui è composto
il menhir Cutura, il calcare locale salentino detto volgarmente
‘pietra leccese’, e che conferisce alla pietra un aspetto cariato
paragonabile a quello del menhir Cutura.
La ‘pietra leccese’ è un calcare
argillo-magnesifero, cioè una roccia sedimentaria, composta
principalmente da calcite (carbonato di calcio, CaCO3).
Si è formata in seguito alla
cementificazione di micro-granuli rocciosi, sedimentati sul fondo di
mari o lagune, durante l’era geologica nota come miocene ( il
miocene si estende in un arco di tempo geologico compreso tra 26 a
5,2 milioni di anni fa).
La ‘pietra leccese’ è un materiale litico
di facile lavorazione appena estratto dalla cava.
Esposta però all'aria e agli agenti
esogeni per qualche anno, indurisce sensibilmente; su di essa si
impiantano alcune specie di licheni, che la ricoprono con una crosta
formata da calcare e materia organica, che dà alla roccia grande
resistenza agli agenti atmosferici e alla carie.
Se la pietra leccese viene però
sottoposta a grandi pressioni, si microfessura e si sfalda con
facilità.
Si osserva questo sulle superfici dei
blocchi di pietra leccese usati nei muri portanti e collocati nei
piani bassi delle abitazioni dove il carico è maggiore.
La pressione causa delle
micro-fessurazioni che favoriscono, l’azione disgregante operata da:
1)
microrganismi e agenti esogeni,
quali:
a)
vento,
b)
dilatazioni e contrazioni causate dall'escursione termica diurna e
stagionale,
c)
dilatazione dei film d'acqua
che infiltrati nelle fessure della pietra sotto forma di umidità,
congelano nei mesi invernali e
d)
carsismo, l’erosione provocata da acque meteoriche acide poiché
contenenti acido carbonico, prodottosi a seguito dell'assorbimento
nelle gocce d'acqua piovana di anidride carbonica (CO2),
presente nell'atmosfera; l’acido carbonico (H2CO3),
converte il carbonato di calcio (CaCO3), costituente
principale della roccia calcarea e composto poco solubile in acqua,
in bicarbonato Ca(HCO3)2 , che è invece molto
solubile in acqua, con conseguente erosione della pietra.
L’effetto finale sono superfici cariate
che si presentano rugose, friabili e ‘farinose’ al tatto. La pietra
gradualmente si trasforma in sabbia sciolta e il processo procede
inesorabilmente coinvolgendo strati della pietra sempre più interni,
mentre lo spessore della pietra si assottiglia.
Le carie si sviluppano sui blocchi
sottoposti alla medesima pressione in maniera differenziata, a
seguito del diverso grado di cementazione naturale della pietra,
della diversa composizione della stessa e della differente
percentuale di fossili o altre 'impurità' presenti nella roccia. Per
questo nei piani bassi degli edifici si osservano blocchi fortemente
aggrediti accanto ad altri meno cariati o quasi totalmente integri
(vedi foto).
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Figura 4: esempio di muro in pietra leccese eroso da carie e
posto al piano terra di un edificio. Si tratta nello specifico
di un palazzo del settecento nel centro storico di Maglie, in
provincia di Lecce. Qui la pietra usata per le costruzioni è
il calcare locale detto appunto ‘pietra leccese’. Si consideri
che ogni blocco di pietra leccese è alto circa 30 cm. Foto O.
Caroppo.
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Si osservi come le carie prodotte da
questo tipo di erosione, l'unica della pietra leccese che potremmo
chiamare in causa per spiegare l’aspetto delle superfici del menhir
Cutura, sono in realtà ben differenti dalle forature ricamate sul
monolite.
La rete dei fori è nella tipologia di
‘carie da pressione’, molto irregolare, come si può osservare nel
caso in figura. Si evidenziano, sui blocchi meno aggrediti,
forellini di varie dimensioni e forme, distanziati tra loro; la
superficie è percorsa da venature di erosione. Sui blocchi
fortemente aggrediti, più che semplici fori, appaiono numerosi
‘avallamenti’ anche molto ampi e sempre di forme e dimensioni molto
variabili e irregolari.
Di contro il ricamo di fori sul menhir
evidenzia decisamente una maggiore regolarità.
Nell’erosione da pressione poi tutte le
superfici del blocco esposte all’esterno son interessate da carie,
che coinvolgono pertanto anche eventuali spigoli, mentre le erosioni
sulla faccia a SW del menhir si presentano quasi come incorniciate;
si sviluppano solo in un riquadro interno alla faccia con bordi alla
base e in sommità (dove è incisa la croce greca), praticamente
intatti. Sui lati della zona ricamata a forellini son assenti i
fori sia sulle superfici grossolanamente smussate, sia su residue
porzioni laterali non intaccate dalla smussatura.
Le creste tra i forellini nelle aree
rugose interessate dal ricamo di fori del monolite, sono alla stessa
altezza delle superfici non bucherellate, presenti sulle medesime
facce.
Queste osservazioni insieme all’aspetto
non friabile ma compatto delle superfici bucherellate del menhir,
portano inevitabilmente alle seguenti conclusioni.
Conclusioni
dell’analisi sull’origine della rete di forellini e sul significato
della croce greca, presenti sul monolite:
quella che oggi può apparire come mera
opera erosiva, è invece ciò che rimane di un’antica e originaria
decorazione megalitica delle superfici, fatta di numerosissimi,
adiacenti e casuali fori realizzati con un trapano arcaico o con uno
strumento a battente conico o martellando su un punteruolo.
Le forature appaiono prive di asperità,
levigate da secoli di esposizione agli agenti esogeni.
Forse anche le altre superfici avevano
simili decorazioni, ma certamente meno pronunciate della faccia a SW
tanto da essere asportate nei secoli, dall’opera erosiva degli
agenti esterni .
Possiamo ipotizzare questo con maggiore
probabilità per il lato a SE, dove nonostante la levigatura delle
superfici operata dalle intemperie, compaiono tracce di
numerosissimi forellini, soprattutto nella porzione media e
inferiore. Quello che però possiamo sostenere con più certezza, è
che, come ancor oggi è possibile notare, la decorazione a forellini
riguardava la faccia SW. Questa era forse già in origine la faccia
più significativa del bethilos, come il suo decoro rivelerebbe.
Proprio a causa di questo poi, fu su di essa e non sulle altre
facce, che venne inciso un segno cruciforme, probabilmente in epoca
cristiana per cristianizzare quel monumento e i suoi pagani
ornamenti.
Già sui menhir pugliesi, anche non
decorati, appaiono segni cruciformi, come anche su menhir maltesi e
francesi, attendibilmente croci di cristianizzazione; e croci si
ritrovano incise col medesimo intento cristianizzante, anche su
pareti rocciose e rocce in aree di arcaica valenza religiosa,
antichi luoghi di culto o sepoltura, soprattutto in corrispondenza
di graffiti di origine ‘pagana’; si osserva questo diffusamente in
Puglia come in altre località italiane, ad esempio su rocce
dell’Arco Alpino interessate da manifestazioni di arte rupestre.
Nel menhir Cutura, la croce sintetizza i
due intenti, quello di cristianizzare il menhir in quanto monumento
pagano e quello di cristianizzarne i decori, che nell’arte antica
sottendevano profondi intenti magico-religiosi.
Confronto con
decori tipici dei megaliti maltesi della ‘civiltà dei templi’
|
Figura 5: Accesso ad una camera interna, ‘sancta sanctorum’, nel
tempio di Mnajdra a Malta. la
costruzione del tempio risale al 3600-3300 a.C.
Si notino le particolari decorazioni a trapanature delle
superfici della grandi pietre. Foto tratta da..
www.myrine.at
.
|
Il tipo di decorazione del menhir Cutura,
unico esempio per ora documentato su un menhir pugliese a pilastro
squadrato, non trova al momento alcuna significativa comparazione
con le altre rare forme di arte megalitica pugliese.
Un primo confronto è stato fatto con le
decorazioni, che si rinvengono sulle stele antropomorfe e sui cippi
pugliesi, italiani ed europei di epoca neolitica, calcolitica e
dell’età del bronzo e del ferro. Questi talvolta presentano ampie
superfici decorate con motivi semplici e ricorsivi, ma si tratta
quasi sempre di rombi o triangoli, o altri elementi geometrici
ripetuti con estrema regolarità, mai di fori adiacenti con posizioni
caotiche, come sul menhir Cutura.
Prendendo in considerazione le diverse
espressioni artistiche note dell’arte megalitica europea e
mediterranea, l’unico e interessantissimo confronto che possiamo
fare è con l’arte decorativa dei templi megalitici maltesi,
risalenti all'epoca neolitica e calcolitica, ed espressione della
cultura autoctona dell’arcipelago indicata come ‘civiltà dei templi’
( 3600-2200 a.C.).
Nel tempio di pietra di Mnajdra ad
esempio o nel poco distante tempio di Hagar Qim sull’isola di Malta,
molte delle superfici dei blocchi e delle lastre megalitiche
presentano una decorazione di piccole adiacenti trapanature, che
conferisce loro un aspetto paragonabile a quello riscontrato sul
megalite oggetto di questo studio.
E proprio con l’arcipelago maltese, la
cultura megalitica salentina presenta fortissimi legami.
Significativi elementi suggeriscono
l’esistenza di antiche relazioni tra l’arcipelago maltese e il
Salento, successive al 2400 a. C. ed evidenziate soprattutto dalle
somiglianze strutturali e costruttive tra alcuni dolmen salentini e
quelli delle isole maltesi e tra i menhir delle due aree.
|
|
Figura 6: altare decorato con numerosi
fori ciechi, con scolpito l’ albero della vita. Tempio di Hagar
Qim,
la cui costruzione risale al 3600-3300 a.C., (Malta). Foto
tratta da
www.wurzelwerk.at . |
Figura 7: Menhir Cutura. Particolare del lato Sud-Ovest,
porzione bassa. Si noti la somiglianza del decoro a fori sui due
manufatti mostrati nelle foto. Foto di O. Caroppo. |
L’archeologia ha dimostrato che prima del
definitivo e improvviso tramonto, datato intorno al 2400-2100 a. C.,
la civiltà maltese dei templi visse una fase di lento declino, forse
a causa di un aumento del clima secco, che comportò minore fertilità
dei suoli, scarsità di cibo ed acqua potabile ed aumento delle
malattie.
Segni evidenti di incendi e distruzioni
nei templi, permettono di ipotizzare però che il colpo di grazia fu
inflitto a quella millenaria cultura, da una grande invasione di
genti provenienti con tutta probabilità dalla penisola salentina.
Oltre agli evidenti cambiamenti
culturali, anche l’analisi approfondita degli scheletri
dissotterrati negli scavi archeologici, ha permesso di rivelare la
presenza nell’arcipelago in età del bronzo, di genti in
discontinuità etnica con i maltesi costruttori dei templi di
pietra. Si è potuto evincere questo in particolare dalle differenti
proporzioni craniche. Mentre i maltesi di epoca calcolitica erano
brachicefali, i costruttori dei dolmen maltesi di tipologia
salentina erano invece dolicocefali.
Nota:
-
Brachicefalia: conformazione del cranio con prevalenza del
diametro trasversale su quello longitudinale.
-
Dolicocefalia: conformazione del cranio con prevalenza del
diametro longitudinale su quello trasversale.
Sebbene non sappiamo con certezza assoluta se i salentini si
insediarono in un arcipelago ormai quasi del tutto desolato dopo
l’improvviso e misterioso tramonto della civiltà calcolitica maltese
o se furono proprio questi a far strage della popolazione autoctona,
dobbiamo comunque ritenere che tra i nuovi arrivati e le sparute
genti superstiti, si realizzò nel tempo una profonda integrazione e
fusione, con sviluppo di una comunità che potremmo definire
salentino-maltese, e che dominò l’arcipelago almeno fino al 1500 a.
C.
La cultura che si sviluppo nell’arcipelago sulle ceneri della
civiltà precedente e con il nuovo apporto etnico e culturale
salentino, è definita ‘Tarxien Cemetery Culture’ (circa 2400-1500
a. C.).
L’ipotesi di un’occupazione salentina delle isole maltesi successiva
alla scomparsa della civiltà neolitica ed eneolitica dei grandi
templi, fu avanzata per la prima volta sulla base delle analogie
dolmeniche, dall’archeologo Evans
J.D. nel 1956 (Evans
J.D. ‘The
Dolmens of Malta and Origins of the Tarxien Cemetery Culture’,
"Proceed.
Prehist. Soc.", vol.XXII :85-110, 1956).
Gli antichi templi di pietra o ipogei furono abbandonati, ma la loro
sacralità rimase alta agli occhi dei nuovi occupanti, tanto che nei
luoghi di culto templari, le nuove genti eressero talvolta i loro
dolmen, di tipologia salentina; come avvenne ad esempio sulle rovine
del tempio di Ta_Qadi sull’isola di Malta. (Vedi tra i miei
interventi: “Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese
nell’età del bronzo”).
È pertanto probabile che la meravigliata
osservazione dei decori delle grandi pietre del tempio di Mnajdra e
di Hagar Qim, con superfici bucherellate con miriadi di fori vicini,
realizzati con un arcaico trapano, abbia ispirato la decorazione a
piccoli forellini, che osserviamo sul menhir Cutura.
La fusione con le genti autoctone favorì
ulteriormente la predisposizione dei salentini dell’età del bronzo a
recepire elementi propri dell’antica cultura maltese.
|
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Figura 8: ingresso al ‘sancta sanctorum’ del tempio di Mnajdra.
Si osservino le superfici decorate da fori disposti casualmente
o secondo linee ondulate affiancate tra loro a riempire tutto lo
spazio della superficie litica. Foto
tratta da
www.wurzelwerk.at . |
Figura 9: Menhir Cutura. Particolare lato Sud-Ovest, porzione
intermedia. Si noti la somiglianza del decoro a fori con quello
presente nel tempio maltese. Foto di O. Caroppo.
|
Conclusioni:
Influssi maltesi sui menhir salentini
Influssi della cultura maltese si
osservano nel menhir Cutura, non solo nei decori, ma anche nella
forma e nelle dimensioni, che ci hanno portato a stabilire un più
stretto legame di questo megalite con il menhir maltese di Il-Hagra
tad-Dawwara, sull’isola di Gozo, anziché con i più classici menhir
del Salento.
Il contatto con la civiltà maltese
comportò per la cultura megalitica salentina, non solo
l’introduzione di forme particolari di decorazione, ma influenzò
anche e soprattutto come spiegherò meglio in un ulteriore
intervento, l’evoluzione stessa del menhir pugliese verso la sua
caratteristica e peculiare forma geometrica a pilastro squadrato, a
partire da forme arcaiche più grezze e poco rifinite.
I reciproci influssi che in età del
bronzo si ebbero tra le popolazioni che vivevano nell’arcipelago e
quelle pugliesi, dopo l’insediamento in Malta di genti salentine,
rivela come gli immigrati provenienti dal Salento, mantennero
continui contatti con la terra d’origine; solo relazioni forti e
prolungate di natura economica e culturale, possono infatti spiegare
le influenze maltesi sul megalitismo salentino e pugliese, che
stiamo sottolineando.
Importanza del Menhir Cutura
Tutte le precedenti riflessioni ispirate
dalla scoperta e dallo studio del menhir Cutura, e numerose altre
che presto riporterò sulla particolare altezza della pietra e sulla
struttura di bacinelle e canalette, che si osserva in testa al
menhir, ci convincono della grande importanza di questo monolite,
per svelare i misteri che ancora circondano il culto betilico
salentino di età protostorica.
La vicinanza di una piccola specchia
accanto al menhir, ci ha indotto poi a sospettare che si tratti dei
resti di un tumulo sepolcrale, cui il menhir era associato. Lo scavo
archeologico del sito potrebbe così aiutarci a far luce su uno dei
molteplici aspetti della complessa religione dei menhir, quello del
legame con la ritualità legata alla morte e al rapporto con i
defunti.
L’importanza di proteggere il sito e
procedere ad uno scavo archeologico, è pertanto di primaria
necessità.
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|
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Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir
salentini |
Ispirati dall’osservazione dei numerosi forellini ciechi scavati sul
menhir Cutura, stiamo procedendo ad uno studio più attento delle
superfici dei menhir salentini, alla ricerca di antichi petroglifi,
fori e decori. Riportiamo alcuni dei risultati sin ora ottenuti.
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Analisi delle superfici del Menhir Franite in agro di Maglie
Su due menhir in agro di Muro Leccese, il menhir Sant’Antonio e il
Menhir Miggiano, tracce di antiche picchettature ormai moto erose,
sembra si possano distinguere ancora sulle loro superfici verticali.
Le osservazioni più interessanti e significative in tal senso, son
però quelle fatte sul menhir Franite in agro di Maglie. Il menhir
detto anche ‘Cruce-muzza’, è un pilastro squadrato alto
4,30 m , con sezione rettangolare
di dimensioni 44 cm per 34 cm.
Le sue superfici maggiori si son mostrate punteggiate quasi
interamente da numerose picchettature; forse un’antica decorazione
megalitica fatta non con fori ciechi adiacenti, ma con picchettature
casuali e distanziate, che comunque coinvolgono tutta la superficie.
Le picchettature hanno mediamente forma sub-circolare o più
frequentemente sub-ellittica con asse maggiore orizzontale. Hanno
grossomodo forma di coppelle profonde da 5 a 10 millimetri, con asse
maggiore di circa 3 cm e asse minore di 2 cm circa. Si osservano,
anche numerosi, alcuni forellini di dimensioni molto variabili.
Ulteriori dati sulle possibili interpretazione di queste
picchettature sulla superficie del menhir e sugli altri segni e
croci incisi sulle sue facce, saranno esposti in un mio studio
monografico sul Menhir Franite, e in una discussione approfondita
sui petroglifi cruciformi presenti sui menhir pugliesi.
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Analisi delle superfici del Menhir Croce Sant’Antonio in agro di
Muro Leccese
Il menhir ha grossomodo forma di parallelepipedo con sezione
rettangolare di 49 cm per 34 cm, e considerevole altezza di 4,20 m.
Oltre a ormai tenui e poco leggibili picchettature erose dal tempo e
osservabili ad occhio nudo solo con opportuna inclinazione dei raggi
del sole, in particolari ore del dì e condizioni meteo, si osservano
sulle sue superfici, segni di trapanature ben più evidenti; alcuni
fori di dimensioni maggiori e altri più piccoli, nonché alcune quasi
impercettibili file di forellini molto erosi. Si segnalano due fori
di pochi centimetri di diametro e profondi alcuni centimetri, posti
alla base della faccia minore a NNW. Fori più piccoli, profondi un
centimetro o poco meno e dello stesso diametro, si osservano un po’
dovunque sparsi sulla pietra.
Un foro rettangolare cieco si osserva sulla faccia maggiore a WSW a
circa 1,1 m dalla sommità, una sorta di “occhio del menhir” (un foro
particolarmente evidente che osserviamo in molti monoliti salentini
e persino su alcuni menhir maltesi, circolare, sub-circolare o
quadrato, di solito su una delle facce maggiori). Il menhir sul lato
maggiore a WSW, presenta una frattura in sommità che taglia in
maniera netta la bacinella presente in testa al menhir. Questa
appare profonda oltre 20 cm. Mostra pareti dritte e base concava,
ampia circa 20 cm.
Ma osservando attentamente le superfici appaiono tracce tenui di
forellini allineati in file anche molto lunghe, che si estendono
verticalmente e con ondulazioni lungo il menhir. Servirebbero però
esami più attenti con tecniche di analisi ottica, delle superfici
ormai molto erose e coperte da uno spesso strato di licheni.
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Figura 12: Menhir Croce Sant’ Antonio in agro
di Muro Leccese. Nella foto a sinistra (vista del monolite da
E ), si indica nel cerchietto rosso la porzione di menhir
sulla faccia maggiore a ENE interessata dalla doppia fila di
forellini, e mostrata nella foto a sinistra. (Foto
O. Caroppo)
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Si
distingue nettamente un singolare allineamento di forellini disposti
su due file parallele verticali leggermente incurvate (vedi foto).
Sono
profondi un centimetro o poco meno e hanno diametro all’incirca di
un centimetro.
Si
osservano nitidamente sei forellini sulla
fila di destra e quattro su quella di sinistra, disposti alla stessa
altezza dei corrispettivi quattro fori più in alto della fila di
sinistra. Forse il tratto in duplice fila punteggiata, faceva parte
di una sequenza più lunga di forellini altrove, sul menhir ormai
molto erosa.
I
forellini del gruppo osservato sono tutti dello stesso diametro
anche se i bordi sono variamente arrotondati da erosione delle
superficie e parzialmente e in maniera differenziata coperti da
spessi strati di licheni. I fori non son adiacenti ma leggermente
distanziati tra loro.
Abbiamo eseguito un attento confronto con i fori realizzati nel
calcare da vari animali locali (microrganismi, insetti, uccelli
ecc.) che ci ha ulteriormente confermato l’origine antropica dei
dieci forellini di questo petroglifo.
Si
trattava di un elemento decorativo o di un particolare petroglifo
con qualche valore simbolico legato al culto betilico.
Sul menhir non si notano
croci incise evidenti, eccezion fatta per una incisione tenue e
recentissima, che riproduce una piccola croce
nella parte bassa della faccia minore a NNW. |
Analisi delle superfici del menhir Bagnolo in agro di Bagnolo del
Salento
Il
Menhir ‘Bagnolo’, ubicato alla periferia di Bagnolo del Salento,
ha grossomodo forma di parallelepipedo con sezione rettangolare di
46 cm per 31 cm, e considerevole altezza di 4,10 m.
Anche questo monolite ha svelato interessanti sorprese una volto
sottoposto a questa analisi.
Sulle sue superfici si osservano vari piccoli fori poco profondi ed
erosi.
Il particolare più interessante è stato individuato sulla faccia
minore a NNE; si tratta di una fila verticale leggermente sinuosa di
piccoli fori strettamente adiacenti gli uni agli altri. Forse un
antico petroglifo. I fori profondi pochi millimetri hanno diametro
non superiore al centimetro (vedi foto).
Sulle superfici del menhir si osservano alcuni petroglifi a croce
molto interessanti, fatti con soli piccoli forellini più profondi di
quelli del petroglifo qui più attentamente descritto, e leggermente
distanziati tra loro. Tratteremo di questi in un intervento
specifico sui petroglifi cruciformi incisi sui menhir pugliesi.
Sulla faccia maggiore a WNW, si osserva molto in basso, quasi
centralmente, un ampio foro cieco quadrangolare, forse legato alla
stessa tipologia del grosso foro, che ritroviamo su numerosi menhir
e che stiamo classificando come l’occhio del menhir.
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Figura
13: nella figura a sinistra, menhir Bagnolo, è indicata col
cerchietto rosso la posizione del petroglifo, mostrato
ingrandito nella foto a destra, e ubicato sulla faccia minore
del menhir orientata a NNE; la faccia che compare in ombra
nella foto a sinistra. Foto O. Caroppo. |
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Considerazioni finali
La stessa ricerca sarà estesa ad altri menhir salentini.
Erosi nei secoli dagli agenti esterni, fori, coppelle e
picchettature sui menhir, erano certo più numerosi e diffusi di
quanto oggi appare.
La maggiore conservazione dei fori sulle pietre dei templi maltesi è
imputabile alla maggiore consistenza del calcare dell’arcipelago
(calcare a globigerina e l’ancor più consistente calcare corallino),
rispetto alla ‘pietra leccese’, nonché alla minore piovosità ed
escursione termica che si registra in quelle isole, dal clima ancor
più secco di quello salentino e ancor più mite, per la forte azione
stabilizzatrice sul clima che il mare comporta e per la maggiore
vicinanza all’area tropicale, implicata dalla minore latitudine.
Non escludo, che oltre alle croci di cristianizzazione e a segni
cruciformi forse di più antica origine, che si osservano ancor oggi
sui menhir pugliesi, un tempo vi fossero effigiati su questi anche
altri petroglifi di valenza decorativo-simbolica, come sulle stele
figurate degli japigi dell’età del ferro (messapiche e daune in
particolare, quest’ultime solitamente antropomorfe), o sulle
stele-statue antropomorfe di epoca eneolitica e dell’età del bronzo
(come ad esempio sulle stele calcolitiche
del foggiano ritrovate in località
Sterparo Nuovo a pochi chilometri da Castelluccio dei
Sauri e Bovino, del III millennio a. C.).
É probabile che nell’intervento di cristianizzazione, oltre a
incidere graffiti cruciformi e/o ad apporvi croci in sommità, sui
menhir che vennero risparmiati dalla mera distruzione, si procedette
anche alla cancellatura di antichi petroglifi e di epigrafi di epoca
messapica o romana, che forse così come facevano sulle loro stele
votive e sepolcrali, le popolazioni japige e poi japigio-romane
incisero anche sui vetusti e venerati menhir.
La lingua simbolica di quei petroglifi dalle valenze
magico-religiose e le epigrafi in messapico, greco, o latino, che
invocavano spesso divinità dei pantheon pagani, non potevano essere
tollerate nella riconversione cristiana dei menhir. Iscrizioni e
graffiti furono perciò abrasi o divelti grossolanamente. Alcune
antiche deturpazioni, che si osservano oggi sulle facce dei menhir
salentini, potrebbero essere il segno di quegli interventi di ‘evangelizzazione’.
Le nuove tecnologie di analisi ottica ed elaborazione informatica,
messe a disposizione dell’archeologia, potrebbero svelare i misteri
ancora celati sulle superfici dei numerosissimi menhir salentini,
risparmiate dal tempo e dai cristiani, prima che l’erosione, il
vandalismo e l’incuria consegnino all’oblio tutto questo
importantissimo patrimonio culturale!
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Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it) |
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