<<Da
lato al menhir, si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri
giganteschi>>
Una
segnalazione molto singolare, risalente alla seconda metà del ‘800, ci
permetterà di far luce sugli antichi riti, che si svolgevano all’ombra dei
menhir di Puglia, e fornirà indirettamente un primo dato relativo alla
datazione minima, almeno di uno di essi.
Accenneremo inoltre, al rapporto che nell’età del ferro le popolazioni
japige, avevano con gli antichi menhir della loro terra e con il culto
betilico, che aveva portato le più antiche popolazioni della regione a
erigere quei possenti megaliti.
Nota: principali toponimi e nomi etnici della Puglia
in età del ferro. |
Japigia
è il nome antico della Puglia e deriva da quello delle popolazioni
che la abitarono nell’età del ferro, gli japigi, che si
possono dividere in messapi e apuli. I messapi
(detti anche salentini o sallentini o anche calabri),
abitavano il Salento, il lembo meridionale della regione,
identificabile grossomodo, con le attuali province di Lecce,
Brindisi e Taranto e chiamato in antichità anche Messapia o
Calabria.. Gli apuli si dividevano in peuceti o
peucezi, che abitavano la Peucezia, la parte centrale
della regione tra la Penisola Salentina e il Tavoliere delle Puglie
e i dauni che abitavano la Daunia più a Nord,
comprendente grossomodo il Tavoliere, il promontorio del Gargano e
l’Appennino Dauno. Gli japigi comprendono popolazioni
culturalmente e anche etnicamente con forti legami tra loro, nate
dall’unione delle genti che popolavano la regione in età del
bronzo, gli ausoni con gruppi di illiri, greci
e cretesi giunti nei secoli tra la fine dell’età del bronzo
e gli inizi dell’età del ferro. In età del ferro la vicina regione
Basilicata era abitata dai lucani, chiamati anche enotri
. Questi vivevano in quelle terre già in età del bronzo ed erano
etnicamente e culturalmente vicini al sostrato più antico delle
genti di Puglia, gli ausoni. |
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Cratere apulo a figure rosse del IV sec. a. C., Museo d’Arte di
Filadelfia. Scena di sacrificio. É rappresentato un tipico sacrificio
della Puglia del IV sec. a. C., che vede nel caso specifico una
pecora offerta in olocausto.
Foto tratta da
www.museum.upenn.edu |
Lo
studioso che ci fornisce il prezioso dato è Luigi Maggiulli, un noto
avvocato di Muro Leccese, appartenente ad una delle più facoltose famiglie
di quella città e grande appassionato di antichità e storia patria.
Vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, può essere ritenuto il primo vero
iniziatore degli studi sul megalitismo nell’entroterra otrantino.
Nella
sua “Monografia su Muro Leccese” edita in Lecce dalla Tipografia Editrice
Salentina nel 1871, nel paragrafo sugli ‘Antichi Monumenti’ della sua
città, il Maggiulli descrive un menhir che ancor oggi possiamo osservare
nel territorio di Muro, il Menhir Croce Sant’Antonio. Questa suggestiva
pietrafitta si colloca con i suoi 4,20 m di altezza, tra i più alti menhir
di Terra d’Otranto.
Sorge
in contrada Zicche, al centro di un crocevia, in un largo detto ‘Largo
Sant’Antonio’.
Relativamente a questo monumento lo studioso aggiunge l’importantissima
notizia:
<<da
lato -cioè di fianco al monolite- si dissotterrarono dei sepolcri con
scheletri giganteschi>>.
Il
Maggiulli aveva poco prima raccontato dei numerosi sepolcri, che si
rinvenivano nel territorio della città; molti di essi dice, erano ‘cavati
nel monte’, cioè scavati nel banco di roccia affiorante, e
probabilmente, anche scavati nel banco roccioso, erano quelli nel Largo
Sant’Antonio.
Muro
è un antica città messapica, il cui nome originario o almeno la
contrazione di questo, era ‘MIOS’, come possiamo dedurre dalla lettura
della ‘mappa di Soleto’, un frammento di vaso fittile dipinto di nero,
usato come base per scrittura (un ‘ostrakon’), con incisa una antica mappa
del Salento, risalente al V sec. a. C., e ritrovato recentemente
perfettamente in stato, in uno scavo archeologico condotto nella non
lontana città messapica di Soleto.
Possenti mura del IV secolo a. C. ancora circondano l’antico abitato di
Muro. I numerosi sepolcri descritti dal Maggiulli, erano tombe messapiche,
che ancor oggi lì si rinvengono numerose.
Quelli però trovati in Largo Sant’Antonio avevano qualcosa di anomalo,
contenevano <<scheletri giganteschi>>.
Si
trattava di ossa molto grandi, che dovettero impressionare la gente del
villaggio, che favoleggiò fossero le reliquie dei giganti, che avevano
innalzato i menhir e i grandi macigni squadrati, che costituivano i resti
delle ciclopiche mura messapiche.
Il
Maggiuli però non accenna a nessuna suppellettile o corredo funebre
ritrovato nei ‘sepolcri’ intorno al menhir Croce Sant’Antonio, mentre
sappiamo che nei normali sepolcri messapici qualche suppellettile si
rinviene quasi sempre, poiché i messapi erano soliti accompagnare i
defunti nel loro viaggio nell’aldilà, con un corredo funebre
proporzionale alle capacità economiche del trapassato e della sua
famiglia, e differenziato a seconda del sesso, dell’età, della posizione
sociale e dell’attività svolta dall’uomo accolto nella tomba.
Rivalutando con maggiore rigore scientifico i dati a disposizione e alla
luce della maggiore conoscenza, che oggi abbiamo sulle caratteristiche
anatomiche ed etniche dei messapi e delle antiche genti del Salento,
possiamo certamente escludere che si trattasse di resti umani.
Al
più in verità, potremmo pensare che si trattasse dei resti di un raro
individuo malato, affetto da gigantismo, ma i sepolcri con <<scheletri
giganteschi>> in largo Sant’Antonio erano più di uno, poiché lo studioso
parla al plurale (<<sepolcri>>, <<scheletri>>), e il gigantismo è una
patologia così rara da permetterci di escludere, che tutte quelle buche
fossero tombe di ammalati di gigantismo!
Le
ossa scambiate per scheletri di giganti, erano molto più presumibilmente,
ossa di animale, forse cavallo o bue, e gli scavi nella roccia in
prossimità del menhir Sant’Antonio, interpretati per analogia con le
tombe ‘scavate nel monte’, come sepolcri, altri non erano invece, che
fosse legate ai sacrifici che si officiavano all’ombra del menhir.
Lì si
offrivano in olocausto alle divinità e forse anche agli spiriti dei
defunti animali di grosse dimensioni; il sangue, il grasso e le ossa erano
riversate nella fossa, le parti più prelibate erano fatte oggetto di pasto
rituale. Presso i greci sappiamo ad esempio, che era consuetudine offrire
agli dei solo il grasso e le ossa degli animali sacrificati, in
particolare dei tori veniva offerto l’osso della coscia.
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Menhir Croce Sant'Antonio, nel largo omonimo a Muro
Leccese.
Si noti la presenza di un edicola votiva nei pressi
del menhir, oggi scomparsa, certamente ospitava un affresco di Sant’Antonio, il santo cui era dedicato quel largo, crocicchio di strade.
Si tratta di un edicola del tipo molto diffuso nell’entroterra otrantino: edicola monolitica ospitante di solito un affresco a
motivo religioso, chiamata in vernacolo, ‘cunneddha’, diminutivo di
‘icona’, termine greco che significa "immagine sacra".
Porre un
edicola vicino ad un menhir è uno dei molteplici modi in cui i
menhir salentini furono cristianizzati.
Qui inoltre
la cristianizzazione si evidenzia nel nome stesso del menhir,
chiamato dai locali "croce".
Foto
biblioteca di Luigi Maggiulli
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Sacrificio
di un toro rappresentato su un mosaico romano del II-III sec. d. C.
Ostia antica.
Foto tratta
da
www.ostiantica.it |
L’usanza di versare il sangue delle vittime sacrificali per terra affinché
fosse assorbito da questa, e in particolare il grasso e le ossa in fosse
scavate nelle aree sacre, è una pratica diffusissima nel mondo antico e
anche in Terra d’Otranto, come rivelano ad esempio gli scavi archeologici
condotti presso insediamenti e luoghi di culto dei messapi. In questo
modo le parti liquide e solide erano affidate alla terra e offerte al
mondo ctono, degli inferi, ai defunti che alla dimensione sotterranea son
legati, e dunque almeno ‘archetipicamente’, alla Dea Mater, la Terra,
Signora della vita e per contro anche della morte; il fumo degli arrosti
sacri saliva invece al cielo ed era offerto agli dei celesti e al Padre
Supremo, il Dio del Cielo e del Sole. Si bruciavano, in quei riti pagani,
anche foglie e rametti di piante aromatiche, affinché il profumo di queste
salisse al cielo (e il termine ‘profumo’, derivato dal latino, ricorda
etimologicamente queste antiche pratiche, e vuol dire infatti
letteralmente: odore emesso ‘attraverso il fumo’).
Il
menhir ponte eretto tra il cielo verso cui si protende e la terra in cui è
confitto, era il monumento perfetto all’ombra del quale celebrare questi
riti di ricongiunzione degli uomini col mondo divino.
Compiere riti di sacrificio all’ombra del menhir è una pratica ovvia e
scontata.
Approfondendo il culto betilico e i suoi aspetti più profondi,
psico-antropologici, si giunge a questa previsione; non solo, la studio
approfondito di quei culti molto lontani dal nostro modo di pensare, la
conoscenza delle religioni antiche e della mitologia, mi permettono di non
escludere persino riti ben più cruenti, che prevedevano il sacrificio di
esseri umani! Punti che affronteremo solo dopo aver introdotto i concetti
basilari del ‘culto betilico’.
Il
ritrovamento degli <<scheletri giganteschi>> e delle fosse sacrificali
dunque non meraviglia, ma mostra solo come in effetti il menhir, dalle
molteplici valenze simboliche e pratiche, era percepito in antichità come
‘colonna betilica’.
I
significati archetipi del menhir ovvero della colonna, quale legame tra
cielo e terra, l’uomo e il divino e l’uomo e il territorio, la
correlazione spaziale con quelle che ci appaiono quali fosse sacrificali,
e l’unicità di queste nel territorio di Muro Leccese, ci convincono, in
mancanza ahinoi, di alcuno scavo archeologico serio ai piedi dei menhir
salentini, della correlazione temporale: fosse sacrificali-menhir, che non
esclude essere il menhir ancora più antico.
Non
possiamo certamente stabilire, in assenza di ulteriori dati, l’età a cui
risalivano quei sacrifici di Largo Sant’Antonio. Si tratterebbe di un dato
cronologico, che fornirebbe un'importante indicazione sulla "età minima"
del monolite.
Possiamo però con certezza escludere, che quei riti cruenti, siano
successivi alla affermazione del cristianesimo nel Salento, che iniziò a
diffondersi per altro molto presto, se come raccontano le leggende, fu
davvero l’apostolo Pietro a predicare il Verbo di Cristo in terra
salentina.
Con
il raggiungimento della piena evangelizzazione del Salento, cessarono
tutti quei riti pagani che prevedevano il sacrificio di animali agli Dei.
Approssimativamente possiamo dunque dire che i riti sacrificali
testimoniati in Largo Sant’Antonio, non sono successivi al IV-V secolo d.
C., e di conseguenze lo stesso dobbiamo ipotizzare per quel grande menhir
lì ubicato.
Dunque se non già all’età del bronzo, quei sacrifici di grossi animali
risalgono almeno alla prima età del ferro, o all’epoca messapica o a
quella romana!
Nel
culto messapico e apulo della colonna, l’eco
della religione dei menhir
Tutta
la cultura japigia è intrisa del "culto della colonna e della
stele", certamente
derivato,
come credo, dall’incontro del gusto estetico ellenico con il
‘culto del menhir’, trasmesso agli japigi (messapi e apuli) dal sostrato
autoctono dell’età del bronzo di cultura megalitica, che si integrò e fuse
con le genti illiriche, cretesi e greche, che si stabilirono nel Salento
agli albori della civiltà messapo-apula (fine età del bronzo-inizi età del
ferro).
In
tutta la Puglia, presso gli japigi, ritroviamo un culto particolare per la
pietra, quale oggetto privilegiato di contatto dell’uomo col divino;
pietra appunto come il menhir, disposta verticalmente e a volte persino
conficcata nel terreno, ora come stele monolitica, ora come semplice
colonna con capitello senza alcuna architrave o funzione architettonica,
ora come pietra informe, ora squadrata o rifinita in altro modo,
semplice o arricchita da decorazioni, petroglifi graffiti o a rilievo,
pigmenti e iscrizioni incise, ora figurata, ora scolpita in statua-stele
antropomorfa.
Un culto per
la pietra, così radicato che si diffuse come mostreremo persino nelle
colonie magno-greche, che più di altre gravitavano nel mondo Japigio, la
dorica Taranto, e l’achea Metaponto, e che con differenziazioni locali
ritroviamo in tutta la Puglia dalla Daunia fin nelle ultimi propaggini del
Salento e con continuità dal IX-VIII sec. fin nell’epoca romana.
Tipica colonna votiva messapica. Ricostruzione sulla
base del ritrovamento di un capitello a Cavallino. Estratto da un
lavoro del Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi
di Lecce |
Cratere
apulo a figure rosse
(recipiente
per mescere il vino con acqua),
alto 80 cm.
Puglia 320-330 a. C.
Si noti al
centro è rappresentata una colonna
semplice
decorata con nastri, e bende,
posta su un
alto basamento.
Foto
tratta da
www.museum.upenn.edu |
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Un argomento
di estremo interesse, che approfondirò in un prossimo intervento, e che è
necessario trattare per comprendere i legami col più antico megalitismo
pugliese, di tutti quei culti dell’età del ferro a ‘matrice litolatra’
(cioè includenti una sorta di venerazione per la pietra), che deve essere
sempre considerata alla luce delle molteplici valenze magico-religiose,
che la pietra assume. Non solo, procedendo a ritroso, lo studio del ‘culto
del cippo’ e ‘della colonna’ in età del ferro, meglio
documentato dalle fonti e dall’archeologia, dà in parte la possibilità di
far luce anche sui riti e sulla religione più antica, oscura e complessa,
praticata in Puglia in età del bronzo e ancor prima, e che quei culti
stessi originò.
La vicinanza del menhir Sant’Antonio, con l’area messapica di Muro,
le pratiche rituali che si svolgevano ai suoi piedi e la sua
correlazione con vetuste strade di una certa importanza già in epoca
in antica, mi spinge ad accennar qui, al ‘culto messapico della
colonna’ (presente anche presso gli apuli come la produzione
vascolare apula rivela), rimandando per ora il non meno rilevante e
della medesima natura e genesi, ’culto della stele’.
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In spazi aperti messapi e apuli, innalzavano colonne agli dei,
semplici pilastri con capitello. Al di sopra vi si posizionavano una
statua di divinità o un grosso vaso o un braciere o un elemento
litico decorativo in forma di triangolo isoscele o qualche altro
oggetto. Talvolta la colonna era semplice e non accoglieva nulla in
sommità, a conferma dell’importanza a se dell’elemento ‘colonna’.
Due capitelli di queste colonne sono stati repertati a Cavallino e a
Ugento, due importanti città messapiche.
Hanno
entrambi abaco ornato con rosette a rilievo. Il capitello di
Cavallino ha echino particolarmente schiacciato e collarino con
foglie schematizzate.
La colonna
a cui apparteneva il capitello ugentino, accoglieva sopra una
pregevole statua bronzea di Zeus, ritrovata quasi integra e fatta
risalire al 530 a. C. La statua rientra nella produzione dell’arte
tarantina, e probabilmente come fanno supporre alcuni particolari
stilistici, fu fusa a Ugento da maestranze tarantine o fu realizzata
su precisa commissione e con le accortezze e le caratteristiche
richieste dagli ugentini, nelle botteghe della colonia dorica. |
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Hydria apula a figure rosse (vaso per acqua). Puglia.
Si noti al centro la colonna su basamento, ornata con bende.
Foto tratta da
www.arsantiqua-online.com |
La colonna era ornata con nastri e ghirlande, come possiamo dedurre
dall’arte figurativo-vascolare ritrovata in Puglia, e soprattutto in
quella di fattura ‘apula’, e si elevava in spazi sacri generalmente
recintati e privi di copertura, proprio in modo da sottolineare il
valore della colonna quale ponte tra cielo e terra, secondo i
medesimi valori archetipi, che avevano ispirato già molti secoli
prima l’erezione dei menhir. |
Come si
può dedurre dai ritrovamenti archeologici di materiale vascolare,
altari e altri reperti associabili ai medesimi contesti cultuali,
intorno al pilastro, si svolgevano, riti e cerimonie, che
prevedevano libagioni, offerte di primizie ed ex-voto di vario tipo,
statuine, vasellame, piramidette (vasi da telaio fittili) con in
greco incise formule di dedica, vasi miniaturistici, fibule, ecc.
Ai piedi della colonna, i messapi sacrificali animali ai loro dei.
Nelle aree sacre si son ritrovati anche altari costituiti da blocchi
di calcare a pareti lisciate e spigoli arrotondati, con tracce di
combustione, effetto dei fuochi accesi per bruciare foglie e rametti
aromatici o vari prodotti della terra offerti al mondo divino o
anche per arrostire le sacre carni dei sacrifici. Altri altari
avevano semplici decori e a volte riportavano incise in greco o
messapico, formule dedicatorie col nome della divinità invocata e a
cui era consacrato l’altare o dell’offerente. Vi erano altari per
i sacrifici e lo sgozzamento degli animali offerti in olocausto, di
dimensioni variabili a seconda delle bestie, che vi si immolavano e
a volte anche vasche monolitiche scavate in blocchi di calcare con
foro nel fondo. Vi si versavano dentro le offerte e i liquidi sacri,
come il sangue e il vino delle libagioni, che percolavano poi nella
terra con cui la vasca monolitica era forse a contatto.
Si usavano a tal fine anche vasi appositamente preparati, con un
foro nel fondo, e che venivano posati o seminterrati nel terreno. |
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Riproduzione
grafica di una vasca con ampio foro sul fondo, di età arcaica,
usata a mo’ di altare, recuperata a Cavallino nel corso degli
scavi degli anni ’60 e ’70.
É scavata in un blocco parallelepipedo di
calcare locale di altezza 10 cm, e base 18,5 cm X 29,5 cm. É
decorata da una scanalatura sottile che corre lungo il bordo.
Vi si versava il sangue dei sacrifici e le libagioni, e i
liquidi, attraverso il foro, percolavano nel terreno con cui
era forse posta in contatto. |
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Nota:
animali e altri prodotti della terra sacrificati agli dei e ai
defunti presso i messapi.
I messapi
presso i quali ritroviamo una notevole complessità e varietà di
culti, sacrificavano ai loro dei, quasi ogni animali selvatico e
domestico, persino il cane. Tra gli animali di stazza maggiore, non
solo il cervo, il maiale, il cinghiale e il comune bue, ma anche il
cavallo di cui erano grandi allevatori. Come racconta uno scrittore
latino nel II sec. d. C. (Festo in “Sul significato delle parole”),
i ‘sallentini’, consacrato un cavallo a ‘Giove Menzana’ (‘menzana’,
vuol dire ‘cavallo’ in messapico), lo gettavano vivo nel fuoco!
Inoltre,
come sempre nella ritualità del mondo antico, anche presso i messapi
non erano offerti solo animali a dei e spiriti dei morti, ma ogni
altro frutto della terra, sia liquido, come acqua, latte, miele,
olio, e il vino delle libagioni, sia solido, come semi di cereali,
legumi, frutta, ortaggi ecc., poteva essere oggetto di offerta
rituale. Non solo, sempre al fine di rivolgere l’offerta sia alle
divinità celesti sia a quelle terrestri, una parte anche di queste
offerte, era gettata nel fuoco, perchè bruciasse ed evaporasse, per
salire in alto come fumo, l’altra era deposta su un supporto o
direttamente a terra o gettata in fosse. |
Gli antichi
menhir per i messapi erano sacre
colonne erette dagli antenati
I riti che si svolgevano ai piedi delle colonne messapiche, non
erano dissimili da quelli che si celebravano ai piedi del menhir
Sant’Antonio, e certamente di altri menhir salentini.
Ora però è impossibile dire se fossero dei messapi o di genti più
antiche, le fosse sacrificali scambiate dal Maggiulli per sepolcri.
E quand’anche fossero stati i messapi ad officiare sotto il menhir,
quei riti sacrificali, analoghi a quelli celebrati sotto le loro
‘colonne votive’, questo non ci stupirebbe.
Consideriamo infatti che alcuni menhir sorgevano addirittura
all’interno della cinta muraria di città messapiche o in prossimità
di queste, spesso lungo importanti assi viari e incroci
(caratteristiche di ubicazione proprie ad esempio dei menhir di Muro
Leccese e analoghe a quelle che ritroveremo per le stele messapiche,
cippi (=stele) che la stessa Muro ha restituito numerose).
Se non furono proprio gli stessi salentini dell’età del ferro ad
erigere qualcuno di questi menhir, non possiamo non sottolineare
come quei monoliti non furono distrutti e abbattuti sotto tutta la
civiltà messapica.
Questo ci permette di capire quanto la sacralità di quelle antiche
pietre fosse percepita ancora in Puglia presso gli japigi.
Un altro
dato sempre fornito dal Maggiulli, conferma ancor più questa
continuità di culto o mera percezione di sacralità nei confronti del
menhir in età del ferro. |
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necropoli e
resti delle mura dell’antica città messapica di Manduria. Foto
tratta dal sito www.salentopoint.com |
Menhir Trice,
Muro Leccese.
Foto tratta
da
www.stonepages.com |
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Nel medesimo paragrafo sopra citato, il Maggiulli ricorda, che in
Largo Trice, sorgevano agli inizi del secolo scorso, tre menhir
vicini tra loro, di cui almeno uno collocato sopra un basamento di
roccia naturale <<scheggiato grossolanamente col piccone>>; oggi ne
rimane solo uno, il più grande dei tre, alto 4 m. Tutta l’area
intorno a questi fu adibita a necropoli in epoca messapica, e lo
studioso ottocentesco infatti ricorda che <<alla base - dei menhir
- si ritrovarono nei passati tempi molti sepolcri scavati nel
monte>>.
Questa associazione antico menhir-necropoli messapica, suffragata
nel largo Trice a Muro dall’archeologia moderna, ci fa capire quale
alto significato i vetusti menhir avessero presso i salentini della
prima età del ferro, di epoca classica, e poi ellenistica, tanto da
collocare attorno agli antichi pilastri eretti dagli avi salentini,
le loro dimore ultraterrene!
Una sacralità che i salentini non smisero mai di percepire anche in
epoca romana e nella successiva epoca cristiana, quando introdotti
come ‘croci’ e colonne votive nella nuova fede, i menhir
continuarono ad essere oggetto di culto in forme, rituali e
terminologie nuove, ma sempre riconducibili e fondate sulle stesse
universali basi psico-antropologiche e magico-religiose. |
Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it)
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