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Oreste Caroppo

                  15-12-06                         

  

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"Antiche pietre"

 
MONOGRAFIE
Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.
Antichi sacrifici all’ombra dei menhir  
Influssi maltesi nei menhir del Salento.

Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini

Studi sui menhir a pilastro squadrato pugliesi e più in generale sul culto betilico

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Antichi sacrifici all’ombra dei menhir

 

 

 
 
 

 

Antichi sacrifici all’ombra dei menhir

 

<<Da lato al menhir, si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri giganteschi>>

Una segnalazione molto singolare, risalente alla seconda metà del ‘800, ci permetterà di far luce sugli antichi riti, che si svolgevano all’ombra dei menhir di Puglia, e fornirà indirettamente un primo dato relativo alla datazione minima, almeno di uno di essi.

Accenneremo inoltre, al rapporto che nell’età del ferro le popolazioni japige, avevano con gli antichi menhir della loro terra e con il culto betilico, che aveva portato le più antiche popolazioni della regione a erigere quei possenti megaliti.

Nota: principali toponimi e nomi etnici della Puglia in età del ferro.

Japigia è il nome antico della Puglia e deriva da quello delle popolazioni che la abitarono nell’età del ferro, gli japigi, che si possono dividere in messapi  e apuli. I messapi (detti anche salentini o sallentini o anche calabri), abitavano il Salento, il lembo meridionale della regione, identificabile grossomodo, con le attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto e chiamato in antichità anche Messapia  o Calabria.. Gli apuli si dividevano in peuceti o peucezi, che abitavano la Peucezia, la parte centrale della regione tra la Penisola Salentina e il Tavoliere delle Puglie  e i dauni che abitavano la Daunia più a Nord,  comprendente grossomodo il Tavoliere, il promontorio del Gargano e l’Appennino Dauno. Gli japigi comprendono popolazioni culturalmente e anche etnicamente con forti legami tra loro, nate dall’unione delle genti che popolavano la regione in età del bronzo, gli ausoni con gruppi di illiri, greci e cretesi giunti nei secoli tra la fine dell’età del bronzo e gli inizi dell’età del ferro.  In età del ferro la vicina regione Basilicata era abitata dai lucani, chiamati anche enotri . Questi vivevano in quelle terre già in età del bronzo ed erano etnicamente e culturalmente vicini al sostrato più antico delle genti di Puglia, gli ausoni.

Cratere apulo a figure rosse del IV sec. a. C.,  Museo d’Arte di Filadelfia. Scena di sacrificio. É rappresentato un tipico sacrificio della Puglia del IV sec. a. C., che vede nel caso specifico una pecora offerta in olocausto.

Foto tratta da www.museum.upenn.edu

Lo studioso che ci fornisce il prezioso dato è  Luigi Maggiulli, un noto avvocato di Muro Leccese, appartenente ad una delle più facoltose famiglie di quella città e grande appassionato di antichità e storia patria.

Vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, può essere ritenuto il primo vero iniziatore degli studi sul megalitismo nell’entroterra otrantino.

Nella sua “Monografia su Muro Leccese” edita in Lecce dalla Tipografia Editrice Salentina nel 1871, nel paragrafo sugli ‘Antichi Monumenti’ della sua città, il Maggiulli descrive un menhir che ancor oggi possiamo osservare nel territorio di Muro, il Menhir Croce Sant’Antonio. Questa suggestiva pietrafitta si colloca con i suoi 4,20 m di altezza, tra i più alti menhir di Terra d’Otranto.

Sorge in contrada Zicche, al centro di un crocevia, in un largo detto ‘Largo Sant’Antonio’.

Relativamente a questo monumento lo studioso aggiunge l’importantissima notizia:

<<da lato -cioè di fianco al monolite- si dissotterrarono dei sepolcri con scheletri giganteschi>>.

Il Maggiulli aveva poco prima raccontato dei numerosi sepolcri, che si rinvenivano nel territorio della città; molti di essi dice, erano ‘cavati nel  monte’, cioè scavati nel banco di roccia affiorante, e probabilmente, anche scavati nel banco roccioso, erano quelli nel Largo Sant’Antonio.

Muro è un antica città messapica, il cui nome originario o almeno la contrazione di questo, era ‘MIOS’, come possiamo dedurre dalla lettura della ‘mappa di Soleto’, un frammento di vaso fittile dipinto di nero, usato come base per scrittura (un ‘ostrakon’), con incisa una antica mappa del Salento, risalente al V sec. a. C., e ritrovato recentemente perfettamente in stato, in uno scavo archeologico condotto nella non lontana città messapica di Soleto.

Possenti mura del IV secolo a. C. ancora circondano l’antico abitato di Muro. I numerosi sepolcri descritti dal Maggiulli, erano tombe messapiche, che ancor oggi lì si rinvengono numerose.

Quelli però trovati in Largo Sant’Antonio avevano qualcosa di anomalo, contenevano <<scheletri giganteschi>>.

Si trattava di ossa molto grandi, che dovettero impressionare la gente del villaggio, che favoleggiò  fossero le reliquie dei giganti, che avevano innalzato i menhir e i grandi macigni squadrati, che costituivano i resti delle ciclopiche mura messapiche.

Il Maggiuli però non accenna a nessuna suppellettile o corredo funebre ritrovato nei ‘sepolcri’ intorno al menhir Croce Sant’Antonio, mentre sappiamo che nei normali sepolcri messapici qualche suppellettile si rinviene quasi sempre, poiché i messapi erano soliti accompagnare i defunti nel loro viaggio nell’aldilà, con un corredo funebre proporzionale alle capacità economiche del trapassato e della sua famiglia, e differenziato a seconda del sesso, dell’età, della posizione sociale e dell’attività svolta dall’uomo accolto nella tomba.

Rivalutando con maggiore rigore scientifico i dati a disposizione e alla luce della maggiore conoscenza, che oggi abbiamo sulle caratteristiche anatomiche ed etniche dei messapi e delle antiche genti del Salento, possiamo certamente escludere che si trattasse di resti umani.

Al più in verità, potremmo pensare che si trattasse dei resti di un raro individuo malato, affetto da gigantismo, ma i sepolcri con <<scheletri giganteschi>> in largo Sant’Antonio erano più di uno, poiché lo studioso parla al plurale (<<sepolcri>>, <<scheletri>>), e il gigantismo è una patologia così rara da permetterci di escludere, che tutte quelle buche fossero tombe di ammalati di gigantismo!

Le ossa scambiate per scheletri di giganti, erano molto più presumibilmente, ossa di animale, forse cavallo o bue, e gli scavi nella roccia in prossimità del menhir Sant’Antonio, interpretati per analogia con le tombe ‘scavate nel monte’, come sepolcri, altri non erano invece, che fosse legate ai sacrifici che si officiavano all’ombra del menhir.

Lì si offrivano in olocausto alle divinità e forse anche agli spiriti dei defunti animali di grosse dimensioni; il sangue, il grasso e le ossa erano riversate nella fossa, le parti più prelibate erano fatte oggetto di pasto rituale. Presso i greci sappiamo ad esempio, che era consuetudine offrire agli dei solo il grasso e le ossa degli animali sacrificati, in particolare dei tori veniva offerto l’osso della coscia.

 

Menhir Croce Sant'Antonio, nel largo omonimo a Muro Leccese.

Si noti la presenza di un edicola votiva nei pressi del menhir, oggi scomparsa, certamente ospitava un affresco di Sant’Antonio, il santo cui era dedicato quel largo, crocicchio di strade. Si tratta di un edicola del tipo molto diffuso nell’entroterra otrantino: edicola monolitica ospitante di solito un affresco a motivo religioso, chiamata in vernacolo, ‘cunneddha’, diminutivo di ‘icona’, termine greco che significa "immagine sacra".

Porre un edicola vicino ad un menhir è uno dei molteplici modi in cui i menhir salentini furono cristianizzati.

Qui inoltre la cristianizzazione si evidenzia nel nome stesso del menhir, chiamato dai locali "croce".

 Foto biblioteca di Luigi Maggiulli

Sacrificio di un toro rappresentato su un mosaico romano del II-III sec. d. C. Ostia antica.

Foto tratta da www.ostiantica.it

L’usanza di versare il sangue delle vittime sacrificali per terra affinché fosse assorbito da questa, e in particolare il grasso e le ossa in fosse scavate nelle aree sacre, è una pratica diffusissima nel mondo antico e anche in Terra d’Otranto, come rivelano ad esempio gli scavi archeologici condotti presso insediamenti e luoghi di culto dei messapi.  In questo modo le parti liquide e solide erano affidate alla terra e offerte al mondo ctono, degli inferi, ai defunti che alla dimensione sotterranea son legati, e dunque almeno ‘archetipicamente’,  alla Dea Mater, la Terra, Signora della vita e per contro anche della morte; il fumo degli arrosti sacri saliva invece al cielo ed era offerto agli dei celesti e al Padre Supremo, il Dio del Cielo e del Sole. Si bruciavano, in quei riti pagani, anche foglie e rametti di piante aromatiche, affinché il profumo di queste salisse al cielo (e il termine ‘profumo’, derivato dal latino, ricorda etimologicamente queste antiche pratiche, e vuol dire infatti letteralmente: odore emesso ‘attraverso il fumo’).

Il menhir ponte eretto tra il cielo verso cui si protende e la terra in cui è confitto, era il monumento perfetto all’ombra del quale celebrare questi riti di ricongiunzione degli uomini col mondo divino.

Compiere riti di sacrificio all’ombra del menhir è una pratica ovvia e scontata.

Approfondendo il culto betilico e i suoi aspetti più profondi, psico-antropologici, si giunge a questa previsione; non solo, la studio approfondito di quei culti molto lontani dal nostro modo di pensare, la conoscenza delle religioni antiche e della mitologia, mi permettono di non escludere persino riti ben più cruenti, che prevedevano il sacrificio di esseri umani! Punti che affronteremo solo dopo aver introdotto i concetti basilari del ‘culto betilico’.

Il ritrovamento degli <<scheletri giganteschi>> e delle fosse sacrificali dunque non meraviglia, ma mostra solo come in effetti il menhir, dalle molteplici valenze simboliche e pratiche, era percepito in antichità come ‘colonna  betilica’.

I significati archetipi del menhir ovvero della colonna, quale legame tra cielo e terra, l’uomo e il divino e l’uomo e il territorio, la correlazione spaziale con quelle che ci appaiono quali fosse sacrificali, e l’unicità di queste nel territorio di Muro Leccese, ci convincono, in mancanza ahinoi, di alcuno scavo archeologico serio ai piedi dei menhir salentini, della correlazione temporale: fosse sacrificali-menhir, che non esclude essere il menhir ancora più antico.

Non possiamo certamente stabilire, in assenza di ulteriori dati, l’età a cui risalivano quei sacrifici di Largo Sant’Antonio. Si tratterebbe di un dato cronologico, che fornirebbe un'importante indicazione sulla "età minima" del monolite.

Possiamo però con certezza escludere, che quei riti cruenti, siano successivi alla affermazione del cristianesimo nel Salento, che iniziò a diffondersi per altro molto presto, se come raccontano le leggende, fu davvero l’apostolo Pietro a predicare il Verbo di Cristo in terra salentina.

Con il raggiungimento della piena evangelizzazione del Salento, cessarono tutti quei riti pagani che prevedevano il sacrificio di animali agli Dei.

Approssimativamente possiamo dunque dire che i riti sacrificali testimoniati in Largo Sant’Antonio, non sono successivi al IV-V secolo d. C., e di conseguenze lo stesso dobbiamo ipotizzare per quel grande menhir lì ubicato.

Dunque se non già all’età del bronzo, quei sacrifici di grossi animali risalgono almeno alla prima età del ferro, o all’epoca messapica o a quella romana!

 

Nel culto messapico e apulo della colonna, l’eco della religione dei menhir

 

Tutta la cultura japigia è intrisa del "culto della colonna e della stele", certamente derivato, come credo, dall’incontro del gusto estetico ellenico con il ‘culto del menhir’, trasmesso agli japigi (messapi e apuli) dal sostrato autoctono dell’età del bronzo di cultura megalitica, che si integrò e fuse con le genti illiriche, cretesi e greche, che si stabilirono nel Salento agli albori della civiltà messapo-apula (fine età del bronzo-inizi età del ferro).

In tutta la Puglia, presso gli japigi, ritroviamo un culto particolare per la pietra, quale oggetto privilegiato di contatto dell’uomo col divino; pietra appunto come il menhir, disposta verticalmente e a volte persino conficcata nel terreno, ora come stele monolitica, ora come semplice colonna con capitello senza alcuna architrave o funzione architettonica, ora come pietra informe, ora squadrata o rifinita in altro modo, semplice o arricchita da decorazioni, petroglifi graffiti o a rilievo, pigmenti e iscrizioni incise, ora figurata, ora scolpita in statua-stele antropomorfa.

Un culto per la pietra, così radicato che si diffuse come mostreremo persino nelle colonie magno-greche, che più di altre gravitavano nel mondo  Japigio, la dorica Taranto, e l’achea Metaponto, e che con differenziazioni locali ritroviamo in tutta la Puglia dalla Daunia fin nelle ultimi propaggini del Salento e con continuità dal IX-VIII sec. fin  nell’epoca romana.

Tipica colonna votiva messapica. Ricostruzione sulla base del ritrovamento di un capitello a Cavallino. Estratto da un lavoro del Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi di Lecce

Cratere apulo a figure rosse

(recipiente per mescere il vino con acqua),

alto 80 cm. Puglia 320-330 a. C.

Si noti al centro è rappresentata una colonna

semplice decorata con nastri, e bende,

posta su un alto basamento.

 

Foto tratta da www.museum.upenn.edu

 

Un argomento di estremo interesse, che approfondirò in un prossimo intervento, e che è necessario trattare  per comprendere i legami col più antico megalitismo pugliese, di tutti quei culti dell’età del ferro a ‘matrice litolatra’ (cioè includenti una sorta di venerazione per la pietra), che deve essere sempre considerata alla luce delle molteplici valenze magico-religiose, che la pietra assume. Non solo, procedendo a ritroso, lo studio del ‘culto del cippo’ e ‘della colonna’ in età del ferro, meglio documentato dalle fonti e dall’archeologia, dà in parte la possibilità di far luce anche sui riti e sulla religione più antica, oscura e complessa, praticata in Puglia in età del bronzo e ancor prima, e che quei culti stessi originò.

La vicinanza del menhir Sant’Antonio, con l’area messapica di Muro, le pratiche rituali che si svolgevano ai suoi piedi e la sua correlazione con vetuste strade di una certa importanza già in epoca in antica, mi spinge ad accennar qui, al ‘culto messapico della colonna’  (presente anche presso gli apuli come la produzione vascolare apula rivela), rimandando per ora il non meno rilevante e della medesima natura e genesi, ’culto della stele’.

In spazi aperti messapi e apuli, innalzavano colonne agli dei, semplici pilastri con capitello. Al di sopra vi si posizionavano una statua di divinità o un grosso vaso o un braciere o un elemento litico decorativo in forma di triangolo isoscele o qualche altro oggetto. Talvolta la colonna era semplice e non accoglieva nulla in sommità, a conferma dell’importanza a se dell’elemento ‘colonna’. Due capitelli di queste colonne sono stati repertati a Cavallino e a Ugento, due importanti città messapiche.  Hanno entrambi abaco ornato con rosette a rilievo. Il capitello di Cavallino ha echino particolarmente schiacciato e collarino con foglie schematizzate. La colonna a cui apparteneva il capitello ugentino, accoglieva sopra una pregevole statua bronzea di Zeus, ritrovata quasi integra e fatta risalire al 530 a. C. La statua rientra nella produzione dell’arte tarantina, e probabilmente come fanno supporre alcuni particolari stilistici, fu fusa a Ugento da maestranze tarantine o fu realizzata su precisa commissione e con le accortezze e le caratteristiche richieste dagli ugentini, nelle botteghe della colonia dorica.

Hydria apula a figure rosse (vaso per acqua). Puglia. Si noti al centro la colonna su basamento, ornata con bende. Foto tratta da www.arsantiqua-online.com

La colonna era ornata con nastri e ghirlande, come possiamo dedurre dall’arte figurativo-vascolare ritrovata in Puglia, e soprattutto in quella di fattura ‘apula’,  e si elevava in spazi sacri generalmente recintati e privi di copertura, proprio in modo da sottolineare il valore della colonna quale ponte tra cielo e terra, secondo i medesimi valori archetipi, che avevano ispirato già molti secoli prima l’erezione dei menhir.

Come si può dedurre dai ritrovamenti archeologici di materiale vascolare, altari e altri reperti associabili ai medesimi contesti cultuali, intorno al pilastro, si svolgevano, riti e cerimonie, che prevedevano libagioni, offerte di primizie ed ex-voto di vario tipo, statuine, vasellame, piramidette (vasi da telaio fittili) con in greco incise  formule di dedica, vasi miniaturistici, fibule, ecc.  Ai piedi della colonna, i messapi  sacrificali animali ai loro dei. Nelle aree sacre si son ritrovati anche altari costituiti da blocchi di calcare a pareti lisciate e spigoli arrotondati, con tracce di combustione, effetto dei fuochi accesi per bruciare foglie e rametti aromatici o vari prodotti della terra offerti al mondo divino o anche per arrostire le sacre carni dei sacrifici. Altri altari avevano semplici decori e a volte riportavano incise in greco o messapico, formule dedicatorie col nome della divinità invocata e a cui era consacrato l’altare o dell’offerente. Vi erano altari per i sacrifici e lo sgozzamento degli animali offerti in olocausto, di dimensioni variabili a seconda delle bestie, che vi si immolavano e a volte anche vasche monolitiche scavate in blocchi di calcare con foro nel fondo. Vi si versavano dentro le offerte e i liquidi sacri, come il sangue e il vino delle libagioni, che percolavano poi nella terra con cui la vasca monolitica era forse a contatto.

Si usavano a tal fine anche vasi appositamente preparati, con un foro nel fondo, e che venivano posati o seminterrati nel terreno.

 

Riproduzione grafica di una vasca con ampio foro sul fondo, di età arcaica, usata a mo’ di altare, recuperata a Cavallino nel corso degli scavi degli anni ’60 e ’70.

É scavata in un blocco parallelepipedo di calcare locale di altezza 10 cm, e base 18,5 cm X 29,5 cm. É decorata da una scanalatura sottile che corre lungo il bordo. Vi si versava il sangue dei sacrifici e le libagioni, e i liquidi, attraverso il foro, percolavano nel terreno con cui era forse posta in contatto.

 

Nota: animali e altri prodotti della terra sacrificati agli dei e ai defunti presso i messapi.

I messapi presso i quali ritroviamo una notevole complessità e varietà di culti, sacrificavano ai loro dei, quasi ogni animali selvatico e domestico, persino il cane. Tra gli animali di stazza maggiore, non solo il cervo, il maiale, il cinghiale e il comune bue, ma anche il cavallo di cui erano grandi allevatori. Come racconta uno scrittore latino nel II sec. d. C. (Festo in “Sul significato delle parole”), i ‘sallentini’, consacrato un cavallo a ‘Giove Menzana’ (‘menzana’, vuol dire ‘cavallo’ in messapico), lo gettavano vivo nel fuoco!

Inoltre, come sempre nella ritualità del mondo antico, anche presso i messapi non erano offerti solo animali a dei e spiriti dei morti, ma ogni altro frutto della terra, sia liquido, come acqua, latte, miele, olio, e il vino delle libagioni, sia solido, come semi di cereali, legumi, frutta, ortaggi ecc., poteva essere oggetto di offerta rituale. Non solo, sempre al fine di rivolgere l’offerta sia alle divinità celesti sia a quelle terrestri, una parte anche di queste offerte, era gettata nel fuoco, perchè bruciasse ed evaporasse, per salire in alto come fumo, l’altra era deposta su un supporto o direttamente a terra o gettata in fosse.

 

Gli antichi menhir per i messapi erano sacre colonne erette dagli antenati

I riti che si svolgevano ai piedi delle colonne messapiche, non erano dissimili da quelli che si celebravano ai piedi del menhir Sant’Antonio, e certamente di altri menhir salentini.

Ora però è impossibile dire se fossero dei messapi o di genti più antiche, le fosse sacrificali scambiate dal Maggiulli per sepolcri.

E quand’anche fossero stati i messapi ad officiare sotto il menhir, quei riti sacrificali, analoghi a quelli celebrati sotto le loro ‘colonne votive’, questo non ci stupirebbe.

Consideriamo infatti che alcuni menhir sorgevano addirittura all’interno della cinta muraria di città messapiche o in prossimità di queste, spesso lungo importanti assi viari e incroci (caratteristiche di ubicazione proprie ad esempio dei menhir di Muro Leccese e analoghe a quelle che ritroveremo per le stele messapiche, cippi (=stele) che la stessa Muro ha restituito numerose).

 Se non furono proprio gli stessi salentini dell’età del ferro ad erigere qualcuno di questi menhir, non possiamo non sottolineare come quei monoliti non furono distrutti e abbattuti sotto tutta la civiltà messapica.

Questo ci permette di capire quanto la sacralità di quelle antiche pietre fosse percepita ancora in Puglia presso gli  japigi.

Un altro dato sempre fornito dal Maggiulli, conferma ancor più questa continuità di culto o mera percezione di sacralità nei confronti del menhir in età del ferro.

necropoli e resti delle mura dell’antica città messapica di Manduria. Foto tratta dal sito  www.salentopoint.com

Menhir Trice, Muro Leccese.

Foto tratta da www.stonepages.com

 

 

Nel medesimo paragrafo sopra citato, il Maggiulli ricorda, che in Largo Trice, sorgevano agli inizi del secolo scorso, tre menhir vicini tra loro, di cui almeno uno collocato sopra un basamento di roccia naturale <<scheggiato grossolanamente col piccone>>; oggi ne rimane solo uno, il più grande dei tre, alto 4 m. Tutta l’area intorno a questi fu adibita a necropoli in epoca messapica, e lo studioso ottocentesco  infatti ricorda che  <<alla base - dei menhir - si ritrovarono nei passati tempi molti sepolcri scavati nel monte>>.

 Questa associazione antico menhir-necropoli messapica, suffragata nel largo Trice a Muro dall’archeologia moderna, ci fa capire quale alto significato i vetusti menhir avessero presso i salentini della prima età del ferro, di epoca classica, e poi ellenistica, tanto da collocare attorno agli antichi pilastri eretti dagli avi salentini, le loro dimore ultraterrene!

Una sacralità che i salentini non smisero mai di percepire anche in epoca romana e nella successiva epoca cristiana, quando introdotti come ‘croci’ e colonne votive nella nuova fede, i menhir continuarono ad essere oggetto di culto in forme, rituali e terminologie nuove, ma sempre riconducibili e fondate sulle stesse universali basi psico-antropologiche e magico-religiose.

Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it)

 

 

ALTRE MONOGRAFIE:

  • Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini
 

 

Ultimo aggiornamento

15 dicembre 2006  

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