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Oreste Caroppo

                  24-12-06                         

  

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"Antiche pietre"

 
MONOGRAFIE
Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo.
Antichi sacrifici all’ombra dei menhir  
Influssi maltesi nei menhir del Salento.

Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini

Studi sui menhir a pilastro squadrato pugliesi e più in generale sul culto betilico

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Studi sui menhir a pilastro squadrato pugliesi

e più in generale sul culto betilico.

Studio approfondito del menhir Vicinanze I in agro di Giurdignano.

 

 

 

INDICE:

 

 

   Altri interventi:

 

 

 

M O N O G R A F I E

 

 
 

Studi sui menhir a pilastro squadrato pugliesi

e più in generale sul culto betilico.

Studio approfondito del menhir Vicinanze I in agro di Giurdignano.

 
 

Introduzione

In questo scritto presentiamo le nuove scoperte fatte nel Salento, durante lo studio del menhir Vicinanze I, in agro di Giurdignano, in provincia di Lecce.

Particolarmente degna di nota è la scoperta di un ampio petroglifo inciso sulla faccia maggiore orientale del monolite, rappresentante una semi-raggiera, presumibilmente di raggi solari. Essa individua un punto di fuoco esterno alla pietra, che ha suggerito uno studio archeoastronomico del sito; quest’ultimo ha permesso di avanzar l’ipotesi, sostenuta da numerosi riscontri, della presenza di un sistema calendariale per misurare lo scorrere del tempo.

Si è proceduto ad un’analisi attenta dell’area circostante, che ha rivelato la  interessante presenza di bacinelle e grotticelle scavate nella roccia.

Sul menhir si son individuate microcoppelle incise sulle superfici e un foro cieco, quello che abbiamo solitamente chiamato “occhio del menhir”.

 Si è discussa la “gradonatura in testa” osservata nel monolite e la presenza di bacinelle o buche scavate sulla sommità di alcune pietrefitte a pilastro  squadrato.

Lo studio delle croci incise sulla pietrafitta di Vicinanze e dei processi di cristianizzazione dei menhir, ha permesso di individuare la presenza di un antico e interessantissimo petroglifo rappresentante il menhir stesso.

Tutto il sito e l’impianto decorativo del menhir è stato sottoposto ad attento studio ed interpretazione.

Partendo da queste analisi del Vicinanze I, si son estesi risultati e considerazioni allo studio degli altri menhir pugliesi; di questi si son indagati gli aspetti magico-religiosi e funzionali.

Si è proceduto ad un fertile confronto con i monoliti e l’arte megalitica e rupestre della tradizione europea e mediterranea (Sardegna, Puglia, Liguria, Arco Alpino, Arcipelago Maltese, Grecia ecc.) e con le religioni, i sacri betili e l’arte delle civiltà orientali della “mezza luna fertile”, (Fenicia e colonie fenice, Egitto, Mesopotamia, ebrei, nabatei, arabi ecc.).

Attraverso l’analisi di molteplici dati, si è scoperta una trama sottile, archetipa, universalmente diffusa, alla quale inizio ad accennare in questi scritti, che ha permesso un approfondimento nella comprensione del pensiero religioso e guidato verso una migliore lettura del megalitismo salentino e pugliese.

Per superare i limiti della distribuzione cartacea nella divulgazione di questi studi, ho optato per una loro contemporanea divulgazione informatica.

 

Note sulla storia delle mie ricerche illustrate in questo intervento.

 

Figura 1: Menhir Vicinanze I, visto da SE.

Si noti la rientranza della pietra, nella parte superiore.

La foto risale alla seconda metà del ‘900. Ai piedi della stele si osserva la presenza di materiale lapideo informe; quest’ultimo è stato asportato negli anni successivi alla realizzazione di questa foto

 

 

 

Riporto qui alcuni dei miei studi sul megalitismo pugliese e sul menhir Vicinanze I più in particolare. Per quest’ultimo i rilievi presentati, si avvalgono dei dati e di materiale fotografico, raccolti nei giorni 7/05/2006 e 12/06/2006, nonché in altri sopralluoghi effettuati nei mesi seguenti.

 

La scoperta del singolare petroglifo a semi-raggiera, di cui diremo, risale alla prima escursione del 7 maggio. L’ipotesi del petroglifo betilico, di cui anche tratteremo, era maturata un po’ di tempo prima, durante precedenti miei studi e indagini sui megaliti di Giurdignano.

 

 

 

Nota sulla terminologia di “menhir a pilastro squadrato” adottata:

indichiamo con la notazione abbreviata “menhir a p.s.”, la tipologia di “menhir a pilastro squadrato”, diffusa in territorio pugliese e riscontrata anche nell’arcipelago maltese. Si tratta cioè di monoliti eretti verticalmente e confitti nel suolo, aventi con buona, o in prima, approssimazione, forma, generalmente per effetto di sagomatura artificiale, di parallelepipedo. Forma che può interessare completamente il menhir, o un’ampia porzione del suo fusto; quest’ultima precisazione per includere quei pochi menhir squadrati, che presentano varianti morfologiche, di solito nella parte sommitale.

Ubicazione del menhir Vicinanze I

Il menhir Vicinanze I è ubicato in agro di Giurdignano, in contrada Vicinanze, da cui trae il nome. Sorge, come diversi menhir a p.s. salentini, in corrispondenza di un incrocio, un quadrivio per la precisione.

Il vicino Mare Adriatico, dista dal sito del megalite, solo 6 km, se si considera il tratto di costa più prossimo, che ricade ad ENE, nell’insenatura di Otranto.

 

Coordinate geografiche del menhir Vicinanze I.

Latitudine:  40° 7'21.47"N

Longitudine: 18°25'27.72"E

Altezza sul livello del mare 75 m.

Storia recente del menhir Vicinanze I

Da sempre noto alle genti del luogo, il menhir Vicinanze I, ha attratto l’interesse del mondo scientifico, solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, quando sotto l’ influsso della fervida e scientificamente florida “atmosfera positivista”, si scoprì l’esistenza del fenomeno megalitico in terra di Puglia. É chiamato Vicinanze I per distinguerlo da un secondo menhir a p.s, che sorge nella medesima contrada.

Nel XX secolo si è provveduto ad un rinforzo della pietrafitta; probabilmente si temeva per la sua stabilità e si è pensato di intervenire ponendo un anima di metallo nel cuore della pietra nella parte centrale del suo fusto. Si realizzò, pertanto, sulle pareti maggiori centralmente ad esse, uno scasso rettangolare verticale, forse passante da lato a lato. Le sue dimensioni son di 1 m per 11 cm, ed inizia ad un altezza dal suolo di circa 1,5 m. Lo spazio interno ricolmo di cemento contiene dei perni di acciaio. Si deduce questo anche dall’osservazione di un tondino di ferro, che giunge in superficie nella parte basale dello scasso sul lato occidentale del menhir. Questo contatto diretto con l’ambiente esterno dell’anima in ferro collocata nel cemento e nel cuore della pietra, facilita l’alterazione chimica, corrosione, dell’anima stessa. Fortunatamente il colore assunto dal cemento impiegato, non differisce molto da quello della pietra.

Un intervento di restauro (?), di cui non conosco la necessità e che purtroppo ha asportato anche parte dei petroglifi presenti sulle facce maggiori del menhir, non in maniera tale però da impedire la lettura complessiva dell’impianto decorativo.

Gli interstizi alla base, tra buca e monolite, son stati riempiti con grigio cemento, presenza anacronistica e cromaticamente deturpante.

Il sito è stato ripulito dal Comune di Giurdignano, con l’uso di finanziamenti europei, nel 2004; l’area è stata recintata con una staccionata di legno, composta da tronchi grezzi  (scelta saggia del materiale impiegato, che ben si abbina all’arcaicità del luogo), e si è provveduto al rifacimento dei vicini muretti a secco. Purtroppo si è ricorso anche all’impiego di cemento, per fortuna, almeno, in maniera molto esigua. Si è arricchita l’area anche con una esteticamente discutibile segnaletica.

Descrizione del monolite Vicinanze I.

  • Forma e dimensioni, materiale in cui è realizzato, buca in cui è infisso.

Il menhir Vicinanze I, è un blocco monolitico squadrato in forma di parallelepipedo, in prima approssimazione molto regolare.

La sua sezione orizzontale, di forma rettangolare, misura circa 42 cm per 28 cm; sono queste dunque le larghezze delle facce della stele.

Ai piedi del menhir Vicinanze I, la presenza di recente cemento, rende difficoltosa la lettura della forma della buca  scavata nel banco di roccia affiorante, in cui affonda la parte basale del megalite, probabilmente si tratta di una buca rettangolare di dimensioni solo poco più grandi del monolite, e orientata grossomodo come questo.

Le superfici del bethilos son ricoperte da licheni.

É collocato in un banco roccioso affiorante di locale calcare conchiglifero (calcareniti plio-pleistoceniche), geologicamente differente dal calcare in cui è cavato il menhir, riconducibile quest’ultimo alla varietà di calcare miocenico giallo paglierino, di composizione argillo-magnesifera, noto volgarmente come “pietra leccese”, e che affiora in superficie in aree più addentrate nell’entroterra salentino. Nella stessa “pietra leccese”, sono cavati gran parte dei menhir a pilastro squadrato del Salento.

 Il monolite si innalza dal livello del suolo per circa 3,73 m.

Nei primi del ‘900, alla base, era rincalzato con grosse pietre, come ricorda lo studioso Cosimo De Giorgi nel 1916. Quelle pietre sono state asportate nel corso del ‘900, dato che di esse oggi non resta traccia, e il menhir appare normalmente confitto nel banco roccioso.

 Per le dimensioni e l’orientazione della pietrafitta ci siamo rifatti direttamente alle misurazioni effettuate da Cosimo De Giorgi, meticoloso e validissimo scienziato positivista salentino, e da lui riportate in un suo articolo, pubblicato sulla "Rivista Storica Salentina",  nel numero di nov.-dic. del 1916 e intitolato "I Menhir della Provincia di Lecce"; qui oltre  ai dati metrici, l‘orientamento, l’ubicazione del menhir Vicinanze I, il materiale di cui è costituito, e alcune osservazioni sulla presenza di massi alla base, e di una croce graffita sulla faccia ad Est,lo studioso non aggiunge null’altro.

Riportiamo per esteso la parte dell’articolo dedicata dal De Giorgi al Menhir Vicinanze I.

 

  Menhir Vicinanze, I. 

 

Dimensioni:

Altezza m. 3,73 – Facce adiacenti : 0,42 per 0,28.

Orientazione c.s. da N a S.

É di pietra leccese ed è rincalzato e orientato alla base con grosse pietre. Sulla faccia volta ad Est vi è graffita una croce.

 

In “orientazione c.s. da N a S” credo “c.s.” voglia dire “come sopra”, e in riferimento a quanto scritto dallo studioso nel suo articolo per altri menhir prima di giungere ad analizzare il menhir Vicinanze I, la frase significa “orientazione della faccia più larga da N a S”. Come si deduce dagli studi del De Giorgi, l’orientazione da lui valutata nei menhir a p.s. e a sezione orizzontale rettangolare, quella che lui dice “orientazione della faccia maggiore”, è la direzione dell’asse maggiore del rettangolo della sezione orizzontale, e non quella individuata dalla retta ortogonale alla faccia, o semiretta ortogonale alla faccia e uscente rispetto alla pietra, che si cita di solito come la direzione verso cui “guarda” o “è affacciata” o “rivolta” la faccia verticale considerata in un menhir a p.s.

 

Descrizione della parte superiore della pietrafitta Vicinanze I

  • gradonatura in testa

Nella parte superiore, gli ultimi dieci centimetri circa, si presentano rientranti  a causa di una risega, una scanalatura a gradino, che corre tutto intorno al menhir e che comporta una diminuzione dello spessore della parte sommitale. Chiamo questo particolare, che compare in alcuni menhir salentini a p.s., “gradonatura in testa”.

 

Interpretazione della gradonatura in testa del menhir Vicinanze I e considerazioni sulla morfologia sommitale del bethilos arcaico salentino

Figura 2: vista da NNW del gradone in testa al menhir. Il bordo superiore si presenta irregolare in alcuni tratti. Probabilmente, è scavata superiormente una bacinella di forma parallelepipeda a sezione rettangolare, con lato maggiore parallelo alla faccia maggiore del menhir, caratteristica comune a numerosissimi menhir integri a pilastro squadrato del circondario; il gradone da così maggiore rilevanza alla  cavità che si apre al suo interno. 

Per il momento avanziamo alcune mere ipotesi sulla funzione e sul significato della morfologia a gradone, che caratterizza la sommità di alcuni menhir salentini a pilastro squadrato.

Le proprietà meccaniche della pietra leccese e la perfezione degli squadri, che si osservano in testa al menhir Vicinanze I, permettono di affermare con certezza la natura antropica dell’intervento di scanalatura. Questa precisazione si rende necessaria perché l’azione erosiva meteorica e da abrasione meccanica, comporta nei monoliti squadrati, da molti secoli esposti direttamente agli agenti atmosferici e al contatto con uomini, mezzi umani, tronchi di alberi, arbusti ecc. un danneggiamento più consistente degli spigoli, meno resistenti, rispetto alle aree interne delle superfici; motivo per cui anche gli spigoli in testa si presentano danneggiati, spesso ancor più degli spigoli laterali. I motivi del maggior danneggiamento, che si osserva generalmente in testa, rispetto ai fianchi delle pietrefitte (fenomeno evidente nell’aspetto odierno degli antichi menhir sagomati in forma di parallelepipedo), sono:

  • l’angolo di incidenza medio della pioggia, che in testa risulta essere più ortogonale;

  • la presenza di possibili fori e bacinelle in sommità, che riducono lo spessore e dunque la  resistenza degli orli superiori;

  • le scariche elettriche di fulmini, che attratti dai menhir per l’“effetto punta”, tendono a colpire in primis la testa dei megaliti provocando l’esplosione di porzioni superiori, quando non la rottura dell’intero monolite.

Nell’ipotesi che la scanalatura in testa sia successiva all’epoca di innalzamento del menhir, si può pensare, che servisse per accogliervi ad incastro, una lastra con un incavo in corrispondenza. Si sa di lastre  poste su menhir, probabilmente per fungere da basi per poggiavi sopra, in epoca cristiana, una croce o la statua di un Santo, di Cristo o della Madonna, secondo una pratica molto diffusa nel Salento e non solo, per cristianizzare i pagani menhir, (in più rari casi, si scolpiva una croce a tutto tondo nel corpo stesso del menhir nella parte sommitale). Si è ipotizzato fosse questa l’origine di una lastra poggiata orizzontalmente sul menhir Franite in agro di Maglie, presente ancora nei primi del ‘900 (la sua descrizione e l’ipotesi sulla sua funzione si devono allo studioso Cosimo De Giorgi). Una lastra orizzontale si osserva ancora oggi sul menhir  Mensi di Giuliano, frazione di Castrignano del Capo.

Figura 3: Menhir Mensi a Giuliano, frazione di Castrignano del Capo.

Il De Giorgi nel suo articolo sopra citato, riferisce che al menhir MaterDomini, pietrafitta a p.s. di Pisignano (frazione di Vernole), fu aggiunta “in cima una lastra lapidea per collocarvi-sopra- una croce”.

Figura: 3b: Stesso elemento e con la stessa funzione pare fosse presente anche su un menhir ubicato nella piazza di  Acquarica di Lecce (frazione di Vernole), come si desume dalla foto qui presentata, che ritrae il megalite prima della sua rimozione, avvenuta sulla fine degli anni ’50.

 

Par riconoscervi sulla lastra sommitale il gambo superstite di una diruta croce lapidea.

 

 

Per ulteriori informazioni sui menhir di Vernole: http://www.pinodenuzzo.com/pietre/Vernole.htm

 

Un’altra possibile ipotesi, sempre in merito ad un’origine cristiana della scanalatura in cima, la ricaviamo dal De Giorgi.

Sull’oramai distrutto menhir di “Tafagnano”, o “de lu barone” detto, menhir a p.s. ubicato nell’agro di Lizzanello, il De Giorgi, che lo vide ancora in piedi, nel suo articolo sopra citato, descrive la presenza di croci “scolpite con l’accetta”. Vi si legge anche di una “scanalatura” “in cima”, che secondo il parere dello studioso, fu praticata quando il monolite fu convertito in colonna votiva cristiana, probabilmente, sempre secondo il De Giorgi, non solo scolpendo le croci, ma anche “sovrapponendovi” in testa “una croce lapidea”. Dalle parole dello studioso, poiché non fa qui menzione ad alcuna mensola cui collegare la scanalatura, par di dedurre che egli la interpretasse come volta a realizzare una gradonatura esteticamente funzionale ad esaltare la presenza della croce. Talvolta croci votive cristiane erano erette su strutture gradonate rappresentanti nella lettura simbologica cristiana il “Golgota” (o “Calvario” nella traduzione latina), l’altura su cui fu crocifisso, a Gerusalemme, Cristo, secondo i Vangeli; tale allora il possibile significato cristiano della risega sommitale.  

 Nel menhir Celimanna di Supersano, menhir a p.s., si osserva una lieve smussatura artificiale degli spigoli, che interessa anche gli spigoli in testa, dove conferisce una accennata forma trapezoidale alla sommità del bethilos.

Figura 7: Zoom sulla sommità del menhir, vista da Sud

Figura 8: Sommità del menhir vista da Sud, con sovrapposizione di linee, che idealizzano la struttura del trapezoide in cui è sbozzata la parte sommitale del blocco parallelepipedo

Figura 6: Menhir Celimanna visto da Sud

In testa al menhir è apposta una croce di ferro, confitta nella pietra. Se di origine cristiana, la smussatura degli spigoli laterali, deriva da un’esigenza volta a convertire almeno idealmente, la forma del monolite, da quella del parallelepipedo, legata all’antica religione dei menhir e alle funzioni pratiche e magico-religiose del megalite a p.s., verso la forma cilindrica, più neutra e consona alla nuova religione locale cristiana, che non riconosceva più e/o aveva dimenticato le antiche molteplici valenze del bethilos a p.s. cui la sua forma parallelepipeda era collegata; si hanno casi evidenti di menhir a p.s. ottagonalizzati con forti e relativamente rifinite smussature degli spigoli, nell’intervento di conversione in colonne cristiane; si pensi ad esempio al menhir di Ussano in agro di Cavallino, o al menhir Cupa II in agro di Scorrano.

In tal caso, tornando al menhir di Celimanna, la smussatura in testa permetteva di dar slancio al monolite e risalto estetico alla croce, richiamando anche qui, la simbologia della “Croce sul Calvario”.

Figura 4: Obelisco di Amenofis II a Karnak. Epoca: XVIII dinastia.

Foto tratta da www. sofiaoriginals.com 

 

La struttura superiore a gradone come quella a trapezoide, potrebbe però essere originaria in questi menhir. In questo caso la presenza del gradino, o del  trapezoide,  in testa diviene un elemento molto interessante, il cui significato deve esser letto in chiave simbolica, alla luce del culto betilico in generale e più nello specifico, nell’ambito della particolare forma che esso assunse nel Salento, terra intermedia tra Occidente e Oriente, tra il megalitismo di tradizione neolitica europeo, e le fiorenti civiltà della cosiddetta “Mezza Luna Fertile” (tra Egitto e Mesopotamia); influssi molteplici, che ritroveremo eccezionalmente proprio nel menhir qui analizzato, e che ci permetteranno di far luce ulteriore sul megalitismo salentino, da ritenersi pur sempre fenomeno antropologico dai forti connotati locali.

Gli obelischi egizi, sulla cui trattazione presto dedicherò una mia monografia, data la necessità di un confronto tra il megalitismo salentino e quello “orientale”, son l’espressione più evidente e nota, di bethilos innalzati dalle antiche civiltà della “mezza luna fertile”. Come negli obelischi si osserva un “piramidone” in testa, così molti menhir informi salentini sono sagomati o son costituiti da massi monolitici scelti in modo tale da presentare una punta sulla sommità o una struttura subconica.

 

A questo tema, quello del “menhir informe” salentino, dedicherò presto ampie trattazioni frutto dei miei studi e scoperte; intanto qui presento la foto di un menhir informe, alto circa un metro,  facente parte di un interessantissimo alignement, in un’area del Salento, dove ho anche riscontrato la presenza di insediamenti umani di età neolitica e protostorica, che ho fatto oggetto di segnalazione alla Soprintendenza Archeologica di Taranto.

Figura 5: menhir informe salentino di forma sub-conica.

Figura 5: Menhir informe salentino di forma sub-conica.

Nella realizzazione del bethilos compare universalmente una tensione artistica e magico-religiosa, verso il completamento della struttura con una forma a punta, aspetto che si può spiegare solo approfondendo il significato profondo, archetipo, del culto betilico.

Tale tensione artistica e magico-religiosa, certamente operò anche negli uomini che idearono e realizzarono i menhir a pilastro squadrato. Questi megaliti usualmente hanno forma parallelepipeda quasi perfetta, dunque mancano di una punta in testa. La loro superficie piatta in sommità era legata funzionalmente alla ritualità cui questi speciali menhir, quelli squadrati appunto, erano destinati, tant’è che in testa si ritrovavano scavati, spesso, uno o più fori o una o più bacinelle e persino canalette (anche su questo punto fornirò presto maggiori importanti dettagli frutto di inedite mie osservazioni).

Nel menhir squadrato la tensione verso il completamento a punta del bethilos e la necessità funzionale della testa piatta, implicata dai riti speciali che erano previsti dalla religione betilica pugliese, diede luogo talvolta a soluzioni di compromesso, quali forse quella della struttura a gradone, o a trapezoide, in testa.

La necessità dello studio attento della “struttura a gradone in testa” del menhir Vicinanze I, nasce dall’osservazione di sagomature simili, sebbene meno evidenti e molto più usurate, sulla sommità di altri menhir a pilastro squadrato salentini, quali ad esempio,il menhir Sant’Anna di Zollino, e ancora in agro di Giurdignano il menhir Madonna di Costantinopoli, e il menhir Vicinanze II, a soli 220 menhir dalla pietrafitta qui oggetto di approfondita analisi; si aggiunga anche, in base a quanto sopra ricordato, il distrutto menhir di Tafagnano in agro di Lizzanello. 

Figura 9: Menhir Candelora in agro di Melpignano. Si osservi la sua sommità conformata a punta, che permette un confronto tra la forma di questo monolite a p.s. e quella del classico obelisco egizio.

Più in generale, quella “a gradone” e quella “a trapezoide” son soluzioni artistiche differenti, espressioni sempre delle stesse tensioni psicologiche verso il completamento a punta del bethilos e del loro compromesso con esigenze funzionali, quali quelle che abbiamo sottolineato poc’anzi per la testa dei menhir salentini a p.s., o anche, in seno alla cultura cristiana, quella di avere la base per il posizionamento di una croce o di una statua, sulla colonna, che conserva sempre, archetipicamente, l’antica valenza di bethilos. Questi concetti saranno ancor più chiari proseguendo nella lettura di questo studio.

Per capire come la concettualità della punta protesa dalla terra verso il cielo, possa esprimersi tanto con forme a gradoni, quanto con forme trapezoidali (-piramidali), basti considerare le varianti architettoniche con cui nei millenni, l’uomo ha elevato quelle che genericamente vengono chiamate “piramidi”. Strutture a trapezoide o piramidali. a pareti lisce o a gradoni.

Edifici, le piramidi, che condividono con il bethilos, la medesima tensione magico-religiosa dell’uomo proiettato dalla terra verso il cielo.

In alcuni rari casi si hanno anche menhir salentini, sempre a pilastro squadrato, in cui si osserva addirittura una sbozzatura della sommità “a punta”; aspetto questo che permette un doveroso confronto con la morfologia a piramidone che caratterizza l’estremità superiore dell’obelisco egizio. É il caso ad esempio del menhir Candelora in agro di Melpignano.  Il De Giorgi scrisse nel suo articolo a proposito di questo bethilos a p. s. : “è stato (...) appuntito a colpi di pietra”.

Anche il menhir Grassi in agro di Carpignano Salentino, presenta in testa un rozzo completamento a punta, e sarebbe opportuno uno studio più attento per stabilire se conseguenza di vandalici abbattimenti, o di crolli naturali o se sia stato così appositamente sbozzato.

Altre interessanti varianti in testa di alcuni menhir pugliesi a p.s. come per il menhir Monaco di Modugno o per il menhir Vardare di Diso, saranno esaminate in mie successive monografie.


 

Nota introduttiva. Presento qui un’attenta analisi delle superfici del menhir Vicinanze I, che mi ha permesso di sviluppare, anche in questo caso, interessanti confronti con altre realtà megalitiche del Mediterraneo.

Analisi degli spigoli del menhir Vicinanze I

Gli spigoli del menhir, che si presentano grossomodo vivi quasi perfettamente a squadro, son solo leggermente arrotondati dall’azione erosiva degli agenti esogeni. La loro continuità è interrotta dalla presenza di alcune tacche cuneiformi, il cui significato e ampia diffusione su questo tipo di menhir salentini a p.s., sarà oggetto di un mio capitolo successivo.

 

Orientamento caratteristico delle facce del menhir Vicinanze I e di altri menhir a pilastro squadrato pugliesi e suo significato

Le facce maggiori del monolite guardano, con alta precisione nelle direzioni Est ed Ovest, ovvero a levante e a ponente; son pertanto parallele alla direzione del meridiano (Nord-Sud) passante per il centro della sezione del menhir.

Figura 10: orientazione del menhir Vicinanze I, secondo i dati riferiti da C. De Giorgi.

 Vista in pianta.

Per l’orientazione del monolite abbiamo riportiamo le misurazioni effettuate dallo scrupoloso scienziato C. De Giorgi, nei primi del ‘900. L’orientazione che egli rilevò, è, come abbiamo verificato grossomodo, quella che ancor oggi si osserva.

In realtà da una misurazione frettolosa effettuata con bussola, durante il sopralluogo del 7 maggio, abbiamo ottenuto per le facce maggiore, un’esposizione a ENE e a WSW, anziché perfettamente ad Est e ad Ovest, come rilevato dal De Giorgi.  Si tenga anche conto del fatto che la nostra misurazione con bussola magnetica, è affetta dall’errore della declinazione magnetica locale presente nel momento della misurazione.

Data la presenza di cemento apposto alla base del megalite, non possiamo escludere che questi abbia subito piccoli spostamenti, rotazioni minime attorno al suo asse verticale, durante i non ben chiari interventi di restauro, che ha subito nel  corso del ‘900, e che ne hanno forse alterato l’originaria importante orientazione; per questo motivo abbiamo preferito attenerci ai dati del De Giorgi, senza procedere a nuove accurate misurazioni dell’orientazioni attuale della pietrafitta, la cui ubicazione è comunque rimasta immutata. 

L’orientazione delle facce maggiori, disposte parallelamente al meridiano del luogo, contraddistingue numerosissimi menhir a pilastro squadrato pugliesi, tanto che laddove tale condizione non è verificata, spesso si scopre che le pietrefitte son state oggetto di riposizionamenti o spostamenti in epoche recenti. Purtuttavia per alcuni dei menhir a p.s. non orientati est-ovest (cioè, “non con le facce maggiori quasi perpendicolari all’asse levante-ponente”), non possiamo escludere, che tali anomalie di orientamento, dal significato ancora sconosciuto, possano esser state previste durante l’originario loro posizionamento.

L’orientazione prevalente est-ovest delle facce maggiori dei menhir salentini a p.s., che talvolta si osserva persino in alcuni dei menhir informi nei quali sia possibile distinguere due facce principali, ha una immediata spiegazione alla luce del culto betilico e del suo legame magico-religioso con il Sole, che sorge a Oriente e tramonta ad Occidente. Maggiori dettagli in tal senso saranno espressi nei paragrafi successivi.

Analisi delle superfici laterali minori del menhir Vicinanze I

  • Solchi di cavatura o sgrossatura

Sulle superfici laterali minori della pietrafitta a sezione rettangolare, si osservano numerosissimi solchi obliqui, molto irregolari e grossolani. Sono paralleli tra loro, cioè caratterizzati dalla stessa inclinazione, per ampi tratti, e interessano quasi completamente tutte queste superfici. Questi corrono talvolta da un estremo all’altro della faccia, e son molto fitti. Si osservano alcune zone in cui l’orientazione dei fasci di solchi si alterna. In particolare questo avviene nella parte superiore della faccia minore del menhir Vicinanze I, rivolta a meridione.

Si tratta dei solchi lasciati dagli strumenti di cavatura e sgrossatura, da accette o seghe usate per tagliare la tenera pietra calcarea in cui il menhir è realizzato.

Le facce minori spesso sono quelle meno rifinite nei menhir salentini a pilastro ben squadrato. Le facce maggiori, quelle principali e più importanti nei menhir a sezione rettangolare, sono invece generalmente meglio rifinite ed eventualmente sede privilegiata per la collocazione di decori petroglifici; aspetto che ne testimonia la loro maggiore rilevanza e che le qualifica come facce principali del bethilos.

Si osservano questi solchi di cavatura e grossolana sbozzatura sui lati minori di molti menhir salentini a pilastro squadrato realizzati nella tenera pietra calcarea salentina, della varietà detta ‘pietra leccese’. Ad esempio presentano lati minori con solchi di questo tipo  il menhir ‘Marrugo’, e i menhir ‘Gemelli’ di Montevergine, ecc.

Non mancano comunque nel Salento menhir squadrati, dove anche le superfici minori si presentano lisciate e rifinite al pari delle maggiori.

Figura 11: Faccia minore del menhir Vicinanze I, rivolta a meridione. Si osservino i solchi fittissimi che coprono con continuità la superficie, estendendosi spesso da un estremo all’ altro della faccia. Si osservi anche come la direzione media dei solchi del tratto superiore, grossomodo discendenti a 45° da sinistra verso destra, differisce da quella dei solchi del resto della superficie, che salgono all’incirca a 45°, procedendo da sinistra a destra. 

Figura 12: Nella foto a fianco, si mostra la faccia minore del menhir Vicinanze I, orientata a settentrione.

Con alcune linee scure si son evidenziati gli spigoli del monolite e con linee più sottili si  son messi in evidenza alcuni dei numerosissimi solchi paralleli che ricoprono tale faccia minore.

 

Analisi della faccia maggiore rivolta ad Ovest del menhir Vicinanze I

  • Microcoppelle e “occhio del menhir”

Consideriamo la faccia maggiore del menhir Vicinanze I rivolta ad Ovest. Nella parte medio bassa si può notare un solco orizzontale irregolare molto antico, come mostra l’erosione dei suoi margini.

 Si osservano numerose micro-coppelle; si tratta di piccoli fori circolari diffusi su tutta la superficie e distanziati tra loro. Son distribuiti, per lo meno ad una prima osservazione superficiale, casualmente, e con densità inferiore rispetto a quella dei fori distribuiti sulla faccia bucherellata del menhir Cutura, anche detto menhir Pezza, ubicato in agro di Giuggianello, e oggetto di miei approfonditi e importanti studi, volti alla penetrazione dei segreti del megalitismo salentino (rimando alla loro lettura per un approfondimento).

La concentrazione di microcoppelle pare maggiore nella parte media e superiore della faccia.

 

Figura 13: Menhir Vicinanze I. Porzione media e superiore della faccia maggiore rivolta ad Ovest.

Figura 14: Menhir Vicinanze I, vista da SW della sua porzione media e superiore.

Figura 15: Menhir Vicinanze I, vista da NW della sua porzione media e superiore.

Sebbene qui si tratti di microcoppelle, ovvero di forellini più piccoli e circolari, vi è una analogia molto forte con i decori a coppelle (di dimensioni leggermente superiori), osservati sulle facce maggiori del menhir Franite, in agro di Maglie.

Sulla faccia rivolta ad occidente del Vicinanze I, si osservano dei solchi rettilinei con andamenti molto variabile, simili a quelli che interessano le facce minori, ma con densità inferiore, segno della maggiore cura posta nella finitura di questa superficie.

Osserviamo sulla stessa faccia a West, nella parte alta, a circa dieci centimetri dalla scanalatura superiore, un foro circolare cieco, del diametro di circa 3 cm, scavato nella pietrafitta. Si tratta del solito foro, che io definisco ‘occhio del menhir’, e che si osserva su numerosi menhir a p.s. salentini o più in generale pugliesi e che ho riscontrato persino su menhir a p.s. dell’arcipelago maltese. Sulla diffusione e simbologia dell’“occhio del menhir”, tratterò poco più avanti e in seguito in un capitolo dedicato a questa interessante peculiarità di alcune pietrefitte, sin ora passata quasi totalmente inosservata.

Confronto dei decori petroglifici di alcuni menhir a pilastro squadrato salentini  con decori megalitici maltesi e sardi.

Figura 16:  tempio di Mnajdra. Ortostato squadrato decorato con microcoppelle. Si osservi come soprattutto nella parte inferiore le distanze reciproche tra le forature sono maggiori e la loro densità diminuisce rispetto a quanto osservabile nella porzione superiore. Foto tratta da www.megalithic.co.uk .

I confronti tra alcuni decori megalitici presenti nei templi maltesi di Mnajdra e Hagar Qim, e le forature osservate sul menhir Cutura, nonché con alcuni petroglifi a microcoppelle osservati sul menhir Croce Sant’Antonio e sul menhir di Bagnolo, possono anche essere estesi a quei menhir come il Franite o il Vicinanze I, in cui abbiamo osservato coppelle o microcoppelle, leggermente distanziate tra loro e distribuite su ampie porzioni delle facce delle pietrefitte, generalmente le facce maggiori.  Analoga situazione si osserva su numerosi altri menhir a p.s. salentini, come ad esempio sul menhir di Lequile detto “Aja della Corte” e sul menhir Montevergine I in agro di Palmariggi, interessati da microcoppelle distanziate tra loro e distribuite soprattutto sulle facce maggiori.

Figura 17: frammento di menhir decorato a coppelle. Piscina ‘e Sali (Laconi-Sardegna)

Mentre per il menhir Cutura abbiamo fatto un confronto con lastre megalitiche decorate con moltissimi fori molto vicini tra loro, presenti nel tempio di Mnajdra, qui mostriamo invece un ortostato, un grosso masso squadrato verticale, sulle cui facce, si osservano forellini (microcoppelle), distribuiti su tutta la superficie, ma con maggiore respiro nella parte inferiore, cioè con distanze maggiori tra i fori  rispetto alla parte superiore, questo al fine di evidenziare come anche i decori a coppelle dei menhir Franite e Vicinanze I, sono suscettibili di un’interessante similitudine, con forme decorative proprie dell’arte megalitica maltese.

La decorazione a coppelle, ricorre anche su menhir aniconici sardi di epoca neolitica o calcolitica. Consideriamo ad esempio il frammento di menhir mostrato in foto.

Lo studio del megalitismo salentino e degli influssi che portarono ad esso, non può infatti prescindere da un serio confronto con le tradizioni megalitiche dell’area maltese e delle aree insulari della Sardegna e della Corsica.

 

Analisi della faccia maggiore rivolta ad Est del menhir Vicinanze I

  • Microcoppelle.

  • Raggi di luce solare raffigurati sul menhir: petroglifo del raggio di luce e petroglifo a semi-raggiera.

Sulla faccia maggiore del monolite esposta a levante, continuano ad osservarsi alcune microcoppelle con caratteristiche di distribuzione simili a quelle dell’altra faccia maggiore del monolite.

Figura 18: Menhir Vicinanze I, porzione media e superiore della faccia ad Est. Si nota al suo centro, lo spazio rettangolare verticale riempito di cemento, relativo al restauro subito dal menhir nel secolo scorso. La crocetta scura in alto corrisponde ad una mera macchia cromatica e non è un petroglifo

Figura 19: Menhir Vicinanze I, porzione media e superiore del monolite vista da SE

La superficie di questa faccia maggiore esposta a levante, nella porzione inferiore, si presenta molto ben rifinita. Nelle porzioni superiori però, essa appare sgrossata malamente, dato che la superficie è interessata dalla presenza di numerosi solchi.

É questo un particolare anomalo perchè di solito le facce maggiori dei menhir a p.s. son ben rifinite, e qui anche la parte inferiore di questa stessa faccia si presenta liscia e ben lavorata.

Nasce allora il sospetto, che quei tratti scolpiti, non siano mere tracce del lavoro di sgrossatura, ma i resti erosi dal tempo, di graffiti incisi con preciso intento decorativo. Quest’interpretazione, sarà ancor più plausibile tra poco, quando evidenzieremo la particolarissima distribuzione di questi solchi.

Stiamo cioè ipotizzando che i solchi qui presenti, siano particolari graffiti.

Petroglifi simili, a mero tratto scavato sulla pietra, li abbiamo già osservati anche sulla faccia maggiore, oggi esposta a settentrione, del menhir Franite di Maglie. Lì oltre alla solita copertura a coppelle, simile a quella della faccia a meridione della medesima pietrafitta magliese, compaiono nella porzione medio-inferiore, dei solchi orizzontali leggermente inclinati. Le pareti del menhir Franite su cui si son scavate coppelle e solchi, son lisce e ben rifinite, motivo per cui nasce il sospetto che quei tratti incisi, peraltro occupanti un’area limitata, non siano meri segni di sgrossatura.

Solchi simili, nel menhir Vicinanze I diventano numerosissimi, su quasi tutta la porzione media e superiore della faccia che guarda ad oriente, come è possibile osservare nella foto su riportata.

Questi graffiti lineari hanno inclinazione variabile, ma aspetto molto interessante, paion orientati a raggiera. La percezione della loro distribuzione a raggiera si ha soprattutto se si concentra l’attenzione sui solchi che interessano la porzione destra della faccia maggiore. Nella parte centrale media della faccia, infatti, il menhir è stato danneggiato dall’intervento di restauro cui si è accennato. Nella parte sinistra si osserva una maggiore confusione delle incisioni, ma anche qui osservando più attentamente i petroglifi, si distinguono numerosi tratti incisi secondo il medesimo principio di orientazione a raggiera.

Questo particolare della loro distribuzione, rende difficile ricondurli all’azione di semplice taglio della pietra, o di scalpellatura da sgrossamento.

Inoltre la presenza di microcoppelle rivela che questa era una faccia importante del menhir, e di solito le facce principali dei menhir a p.s., come già ricordato, erano maggiormente curate e rifinite.

Perché allora non rifinirla come l’altra faccia maggiore, pure decorata con microcoppelle, o come la stessa porzione inferiore della medesima faccia, e lasciarla invece semplicemente sgrossata come le facce minori?

Queste perplessità possono essere spiegate solo ammettendo che quei segni a raggiera furono incisi volutamente sulla superficie rifinita, ma al di là di questa deduzione circostanziale, una semplice analisi più attenta e ravvicinata dei tratti, sebbene arrotondati nei margini da secoli di erosione, mostra subito che deve essere scartata l’ipotesi che si possa trattare di semplici solchi, prodotto della sgrossatura o del taglio e cavatura della pietra, come quelli, differenti ad un’analisi ravvicinata, che compaiono sui lati minori del medesimo menhir, ad esempio (vedi le due foto messe a confronto).

Confronto tra i solchi sulla faccia maggiore a meridione e quelli sulle facce minori

Figura 20: Menhir Vicinanze I, solchi nella porzione media della faccia maggiore rivolta a levante. Già in questo piccolo tratto si può cogliere la loro distribuzione a raggiera.

Figura 21: Menhir Vicinanze I, solchi nella parte superiore della faccia minore rivolta a meridione

I solchi della faccia maggiore esposta ad oriente, hanno fondo grossomodo arrotondato, e appaiono espressamente scavati su una superficie piana preesistente. Hanno larghezza media di un centimetro o poco più, e lunghezze maggiori.

Per una analisi più approfondita della distribuzione dei tratti, abbiamo perseguito il seguente studio.

Partiamo dall’analisi delle direzioni dei vari solchi.

Si osservano dal rilievo fotografico, (immagine A), dei tratti più marcati ed evidenti. Abbiamo fissato l’attenzione su questi ultimi, che si estendono per lunghezze che vanno da pochi centimetri fino ad un massimo di 10-20 cm. Gli si è prolungati con delle linee rosse sottili e dopodichè, i tratti di partenza sono stati evidenziati con un tratto nero. Vedi immagine B.

Quest’analisi mostra come in effetti, tutti i graffiti lineari rivelano una, per lo meno irregolare, convergenza verso sinistra.

Ora ipotizziamo che questi tratti non siano stai tracciati casualmente secondo una vaga intenzione di ottenere una distribuzione a raggiera, ma che si sia fissato un punto di fuoco a sinistra, dove i tratti convergono, per eseguire i solchi a raggiera. Cioè ipotizziamo che l’antico artigiano megalitico, per realizzare i diversi solchi, con distribuzione a raggiera, abbia fissato un palo passante per il punto di fuoco e vi abbia legando in tale punto, l’estremità di una corda, quindi  tirando la corda all’estremità libera, tenendola tesa e fissa così da assumerla come direzione di riferimento, e poi facendola ruotare di volta in volta di un piccolo angolo, questi poteva realizzare qui singolari solchi, proprio con le caratteristiche, che oggi ancora mostrano. L’operazione poteva esser stata eseguita comodamente, quando il menhir dopo la rifinitura, doveva ancor esser eretto o con più difficoltà dopo.

Ipotizziamo allora che le irregolarità di convergenza nell’immagine B, siano dovute a irregolarità locali di incisione dei tratti selezionati, quelli che oggi appaiono più profondi, nonché ad irregolarità di resa fotografica e di precisione nel prolungamento della loro direzione.

Se individuiamo allora il corretto punto di fuoco e prolunghiamo da questo i diversi raggi, se le nostre ipotesi sono corrette, osserveremo una coincidenza direzionale dei tratti più marcati e dei tratti più lievi e sottili, con le direzione del “fascio proprio di rette” passanti per il fuoco.

 

In geometria, si definisce ‘fascio proprio di rette’, l’insieme di tutte le rette convergenti in uno stesso punto dello spazio euclideo. Il punto da cui passano tutte le rette del fascio, è detto ‘centro del fascio’, quello che qui chiamiamo ‘fuoco’.

 

 

 

Osservando l’immagine B, constatiamo come in effetti si può individuare a sinistra, una piccola regione di massima convergenza, indicata da un cerchietto giallo dal contorno nero, nell’immagine C.

Statisticamente il non passaggio da essa di tutte le rette, dovrebbe esser dovuto agli errori menzionati. Ciò nonostante proprio la possibilità di osservare in maniera evidente l’esistenza di un’area di massima convergenza, ci convince per il momento, della plausibilità delle ipotesi fatte. Il punto nero, centro del cerchietto corrisponderà in prima approssimazione, all’ipotetico ‘fuoco’.

Fissiamo ora tale punto, come centro del fascio di rette cui apparterrebbero le direzioni seguite nella realizzazione delle incisioni a tratto, e tracciamo da questo delle semirette rosse, cercando, approssimativamente, di sovrapporle, per quanto possibile, con i tratti graffiti. Immagine D.

 Figura 22:Menhir Vicinanze I, porzione media e superiore della faccia ad Est - Immagine A

Figura 23: Immagine B
Figura 24: Immagine C.

Figura 25: Immagine D

L’analisi dell’immagine D, permette di osservare come i diversi solchi, siano stati, in effetti, tracciati compatibilmente con la nostra ipotesi, che prevedeva l’uso di una corda tesa o comunque di una riga di legno, e di un preciso fuoco. Si osserva la distribuzione e l’orientazione tanto dei tratti più marcati ed evidenti, quanto di quelli più sottili e meno appariscenti nella foto, con le direzioni individuate dal fascio di semirette uscenti dal ‘punto di fuoco’ al centro del cerchietto giallo. Non abbiamo sovrapposto raggi rossi su ogni tratto, per cui e possibile osservare come anche quelli intermedi, tra i solchi soprapposti da raggi e altri al di sopra e al di sotto del fascio rappresentato, rispettino lo stesso principio di orientazione a raggiera. Si può osservare come su una stessa direzione, talvolta si susseguano più tratti in sequenza, alcuni più marcati, altri meno, che rivelano la volontà di tracciare raggi molto lunghi. Eventuali discostamenti, che si possono individuare ad un’analisi più sottile, dei tratti incisi, dai raggi ideali uscenti dal fuoco, possono trovare semplice spiegazione se si considera la rozzezza dei punteruoli o delle martelline che furono impiegate per l’esecuzione dei solchi. Non dimentichiamo anche, che quanto oggi osservato ha subito una millenaria azione erosiva ad opera degli agenti atmosferici cui per secoli, sin dalla sua erezione, il menhir Vicinanze I è stato ininterrottamente sottoposto. Né tali tratti son stati mai rimarcati in epoca successiva alla loro realizzazione.

Controprova

Figura 26: del lavoro di controprova effettuato riportiamo una tavola corrispondente alla fase intermedia, che nello studio su riportato corrisponde all’ immagine B. Si palesa anche in questa ulteriore analisi, l'esistenza di un fuoco di irraggiamento esterno al menhir, indicato statisticamente dal prolungamento dei solchi lineari.

Faccia orientale del menhir Vicinanze I.

Ad ulteriore verifica di quanto ricavato dalle elaborazioni sopra sviluppate, abbiamo riapplicato il medesimo procedimento ad una foto differente della stessa faccia maggiore del megalite. Per porci in condizioni diverse da quelle precedenti, è stata fatta una foto più frontale, e meno prospettica della foto utilizzata nel soprastante studio; l’abbiamo scattata in un orario differente e con differenti condizioni di illuminazione, (mentre per la foto precedente: pomeriggio, cielo sereno; per la nuova foto: cielo nuvoloso, mezzogiorno). Si è utilizzata anche una fotocamera digitale a più elevata risoluzione. Abbiamo operato poi su carta, anziché con software grafici. Il risultato ha portato a conclusioni analoghe a quelle cui eravamo già giunti con il lavoro precedente.

 

In questo modo abbiam potuto verificare la correttezza delle conclusioni tratte, escludendo che fossero state viziate da variabili legate alla particolare illuminazione, all’inclinazione dell’apparecchio fotografico, alla distorsione dell’immagine fotografata per motivi ottici e prospettici, alla risoluzione della foto o in ultima analisi, condizionate dalle stesse aspettative psicologiche dello sperimentatore.

 

Per quei graffiti lineari si è sottointesa sin ora l’ipotesi, che non si tratti di un motivo decorativo di epoca cristiana, ma di un petroglifo di epoca più arcaica, strettamente legato all’originario culto betilico pugliese delle genti che eressero i menhir a p.s. Vedremo infatti come esso ben si lega ai valori magico-religiosi del bethilos, che ispiravano l’antica religione salentina e più in generale pugliese, dei menhir; troveremo anche alcuni riscontri iconografici con stele pugliesi di epoca eneolitica e dell’età del bronzo, e aspetto non meno interessante coglieremo a partire da questo petroglifo, interessanti legami di orientazione del sito con i moti apparenti del sole dal profondo significato religioso e calendariale per le genti megalitiche salentine.

 

Sottolineiamo come il punto focale dei raggi, appartiene allo stesso piano geometrico della faccia del menhir su cui ritroviamo i tratti incisi, ma si trova all’esterno di questa.

 

Chiamiamo il petroglifo a raggi del menhir Vicinanze I, “petroglifo a semi-raggiera”; ‘semi’ poiché il fascio di raggi incisi non si sviluppa lungo un intero angolo giro come nel classico motivo a raggiera dove i raggi si espandono tutto intorno ad un cerchio.

Sarebbe opportuno uno studio con tecnologie di indagine superiore e con scannerizzazione laser per formare un modello 3D della superficie e valutare se quei solchi son stati scalfiti con l’intento di ricoprire con continuità l’arco interessato dalla presenza della semiraggiera, o se si è proceduto a tracciare un preciso numero di raggi, secondo precisi angoli magari di un qualche significato astronomico.

Sempre uno studio di questo tipo legato anche a verifiche di archeologia sperimentale, permetterebbe di capire se quei solchi vennero scalfiti, prima della erezione del monolite o dopo.

Petroglifo del raggio di luce’ nell’arte megalitica salentina, e suo significato magico

Figura 27: Menhir Franite. Faccia maggiore rivolta a Nord, porzione medio-bassa. Si notano coppelle distribuite sulla superficie, e una piccola area dove a queste si sostituiscono delle picchettature, che paion quasi l’evoluzione filiforme della coppella. Questi solchi sono di natura petroglifica, dato che compaiono insieme alle coppelle su una superficie complessivamente ben rifinita.  La somiglianza con i solchi della semiraggiera del menhir Vicinanze I è altissima.

Chiamiamo quei solchi grossomodo lineari, appositamente graffiti, che ritroviamo su alcuni menhir salentini, per ora tra quelli analizzati, sul Franite e sul Vicinanze I, “petroglifo del raggio di luce”. Si tratta di graffiti che  hanno certamente valenze non meramente decorative, ma magiche, come in genere per ogni forma d’arte religiosa dell’antichità. 

É stato possibile arrivare a questa interpretazione del petroglifo del solco con la rappresentazione di raggi di luce, grazie all’analisi proprio del menhir Vicinanze I, che mostra nella disposizione a raggiera dei tratti incisi, forte analogia con i raggi del Sole emessi dal suo ‘disco’ raggiante, il cui centro è assumibile come punto focale dei raggi irradiati nello spazio circostante.

Un petroglifo con tale valore semantico, è inoltre perfettamente in accordo con i valori simbolici del bethilos e con il culto betilico, come meglio capiremo in seguito.

La collocazione del fuoco della semi-raggiera, all’esterno del menhir Vicinanze I, nell’aria, dimensione che appartiene al cielo e dunque al Sole, è un elemento ulteriore, che, con buona certezza, permette di interpretare quei tratti rettilinei, quali rappresentazione di raggi di Sole. 

Rappresentare i raggi di Sole sul menhir ha valenza magico-religiosa. Omeopaticamente quei tratti invocano sulla stele il Sole e la sua azione magica legata ai fondamenti del culto betilico; propiziano l’azione riscaldante e illuminante, diremmo “energetica”, della nostra stella, sulle superfici del bethilos, che hanno proprio nelle facce maggiori orientazione tale per cui maggiore sia la loro illuminazione diretta nel corso della giornata e dunque maggiore la carica ‘energetica’ (fisica e spirituale al contempo) emessa dal divino Sole ed assorbita dal sacro bethilos. ‘Energia’ ritenuta dotata di magici poteri, dagli elevatori dei menhir a p.s.  

L’estensione dell’analisi ad altri menhir salentini, permetterà di valutare quanto questo tipo di petroglifo, fosse diffuso, sulle arcaiche stele salentine. Forse si devono includere in questa categoria di petroglifo non solo solchi rettilinei o leggermente curvi di lunghezza variabile, ma anche antichi graffi lineari e soprattutto fasci di graffi che presentano le stesse caratteristiche di linearità. Si consideri ad esempio l’analisi dei graffi presenti sulle superfici maggiori del menhir Crocefisso, pietrafitta a p.s. in agro di Muro Leccese.

Anche sul menhir San Paolo a p.s. in agro di Giurdignano, su un lato del monolito, in alto a sinistra si osservano dei solchi abrasi dal tempo, riconducibili forse al petroglifo del raggio di luce.

 

Figura 28

 

Menhir San Paolo in agro di Giurdignano. Nonostante l’usura del tempo, le coppelle incise, e le irregolarità della pietra, il monolite San Paolo presenta superfici abbastanza lisce.

In foto, particolare della  porzione superiore della faccia esposta ad occidente. In alto a sinistra si osservano alcuni caratteristici solchi, forse le tracce sopravvissute all’ erosione del tempo del petroglifo “raggio di luce”.

In ogni caso, prima di poter identificare un solco graffito con il petroglifo del raggio di luce, è necessaria un’attenta analisi del tratto stesso e di tutte le superfici della pietrafitta per poter escludere che non si tratti dei normali solchi di sgrossatura, o di semplici graffi da abrasione!

Analogie del motivo a semi-raggiera con l’egizia rappresentazione del dio solare Aton

La rappresentazione di raggi solari rettilinei a semi-raggiera sul menhir Vicinanze I, richiama alla mente del culture o mero studioso di archeologia, alcuni motivi decorativi propri dell’arte egizia e più in particolare dell’iconografia amarniana; mi riferisco al motivo dei raggi uscenti, proprio a semi-raggiera, dal disco solare, l’Aton, venerato sotto il regno del faraone Akhenaton.

Figura 29: Rilievo in calcare rinvenuto a Tell el Amarna, raffigurante la sovrana moglie di Akhenaton, la bellissima Nefertiti, mentre offre doni al disco solare, il dio Aton (o ‘Aten’). Foto tratta da www.sapere.it.

Il faraone Akhenaton decimo sovrano della XVIII dinastia egizia, regnò in Egitto dal 1364 al 1347 a.C.

Cambiò il suo nome da Amenhotep IV (Amenofi IV), che vuol dire “Amon è contento”, in Akhenaton, cioè “Aton è contento”. Amon è il nome del dio del sole venerato a Tebe (Karnak), l’antica capitale, e il cui culto, controllato dalla casta sacerdotale, era stato esteso a tutto l’Egitto.

In conflitto con la potente casta sacerdotale, Akhenaton sostituì al culto della divinità solare tebana, antica protettrice della regalità, un’altra divinità sempre solare e di origine semitica, Aton, con cui si identificò e che proclamo unico (o principale) dio e re.

Aton era originariamente il nome del disco solare.

Il suo culto, prima di essere imposto dal faraone Amenofi IV, era stato introdotto a Karnak sotto il regno di Thutmose II, tanto che in quella città esisteva un piccolo tempio dedicato ad Aton.

Sempre in conflitto con i sacerdoti di Amon, il cui centro di potere era Karnak, sede del santuario di Amon, e capitale del regno, Akhenaton fece costruire un'altra capitale, che chiamò "Akhet-Aton" ("Orizzonte di Aton"), città consacrata al dio Aton, l'odierna Tell el-Amarna, allontanando il centro del potere politico dalle ingerenze del potente clero tebano.

I bassorilievi di Tell-el-Amarna, ritraggono frequentemente Akhenaton e i suoi famigliari mentre offrono doni al Sole e sono in adorazione del suo disco solare Aton, quest'ultimo dispensa raggi simili a radiazioni, che offrono l'Ankh, la chiave della vita eterna, al faraone, a alla regina Nefertiti, sua sposa, benedicendo in tal modo lui e la sua famiglia per l'eternità.

I raggi, lunghi segmenti uscenti dal bordo del disco solare e terminanti con mani, sono le lunghe braccia del dio sole Aton. Questa iconografia tipica dell’Aton, contraddistingue il suo culto da quello delle altre divinità egizie, sempre rappresentate in forma antropomorfa, zoomorfa o zooantropomorfa.   

Morto Akhenaton, già sotto il regno del figlio  Tutankhaton, poi emblematicamente cambiato in Tutankhamon, viene posto fine alla eresia del padre, abbandonato il culto di Aton come religione di stato (e dunque con esso la sua tipica iconografia), e ripristinato quello di Amon. Anche la capitale del regno tornò a Tebe.

L’arte che fiorì in Egitto sotto il regno di Akhenaton, è definita “arte egizia amarniana”, dal nome della città Tell-el-Amarna, dove maggiormente si sviluppo.

 

Senza voler assolutamente stabilire dei legami in termini di influenze dirette, tra queste distanti espressioni artistiche del motivo del raggio solare, in Egitto e nel Salento, l’interessante analogia trova la sua naturale ragion d’essere, nell’alveo di quelli che un po’ troppo genericamente sono chiamati “culti solari”, e nei quali rientra, con le dovute precisazioni e distinguo, datane la maggiore complessità, il culto betilico.  

Analisi del sito del menhir Vicinanze I.

·         Area cultuale e forse anche sepolcrale: grotticelle, fosse e bacinelle.

·         Un osservatorio astronomico e un calendario megalitico: studio archeo-astronomico suggerito dalle peculiarità del petroglifo a semi-raggiera.

·         Note sui principi basilari del culto betilico.

Nel menhir Vicinanze I, la scelta di un preciso punto di fuoco esterno al menhir, come centro di irradiazione dei raggi di luce graffiti, fa ipotizzare che questo non sia un punto casuale, ma forse l’indicazione di un preciso punto, che assumeva significati astronomici di forte valenza magico-religiosa.

Forse, se osservato da una particolare posizione del sito circostante, in particolari momenti dell’anno, un astro assumeva nella volta celeste una posizione coincidente con la proiezione sulla stessa, di quel fuoco, a partire dal punto di osservazione privilegiato stabilito.

Quell’astro doveva essere necessariamente molto luminoso, come lascia pensare il fatto che i raggi graffiti, che da esso irraggiano, son incisi sul menhir con solchi decisi. Forse allora la Luna, ma considerato lo stretto legame che quasi universalmente si riscontra esistere, tra bethilos (menhir), e Sole, è più probabile che sia stato quest’ultimo, l’astro in questione. Non solo i raggi emessi dal Sole son quelli che più suggestivamente si osservano nel cielo, soprattutto quando, durante i dì nuvolosi, si aprono degli spazi sereni da cui filtrano fasci di luce solare, che si espandono maestosi e lucenti attraverso l’aria, scendendo verso la terra, o salendo verso l’alto (questi ultimi visibili soprattutto al tramonto o all’alba quando il Sole è basso sull’orizzonte, e i suoi raggi appaiono diffondere in ogni direzione).

Tutto il sito circostante al menhir aveva una profonda valenza cultuale, come fanno ritenere alcune piccole buche scavate nella roccia ai piedi della pietrafitta e numerose fosse o grotticelle artificiali, di valenza probabilmente cultuale e/o sepolcrale presenti nelle immediate vicinanze del monolite e cavate nella tenera calcarenite affiorante.

Punti comunque che rianalizzeremo approfondendo il legame menhir-grotta, e quelli aspetti legati a culti e riti, quali le bacinelle e le canalette scavate nei banchi rocciosi prossimi ai menhir salentini e ad altri monumenti megalitici pugliesi.

Figura 30: Foto del sito del menhir Vicinanze I. Scatto effettuato il 7 maggio 2006.  Il menhir è qui osservato da Sud-Ovest.  Son indicati i segni di cavature, i resti di grotticelle o incavi artificiali sub-circolari (A, B, C, D), la posizione di bacinelle, sempre cavate nella roccia di cui alcune circolari (b), altre ai piedi del menhir, buche parallelepipede (a); in rosso è segnato il punto focale della semi-raggiera graffita.

 

Riguardo alle bacinelle che si osservano scavate nel banco roccioso affiorante in cui è infisso il menhir, presentiamo qui una foto delle due che si ritrovano nelle immediate vicinanze del monolite, nell’area indicata dalla lettera ‘a’, nella foto che illustra le peculiarità del sito.

 

Figura 31: Vista da Est della grotticella o incavo a fossa, indicato con A nella foto del sito su riportata.

Si intravede un resto della parete arcuata dell’incavo, che si allarga procedendo verso l’interno; forse il resto della volta di una piccola grotticella a pianta circolare.

Figura 32: Bacinelle ai piedi del menhir.

 

Nella foto, la faccia maggiore del menhir, che si osserva in alto a destra, è quella rivolta a ponente. La buca ‘1’, di forma parallelepipeda, dista dal menhir 120 cm, ha larghezza di 32 cm, lunghezza di 26 cm, e profondità di 20 cm. La buca ‘2’, ha forma quadrata di dimensioni 15 cm per 15 cm e profondità di 13 cm, ma è molto più irregolare della buca ‘1’.

Nell’area ‘b’ (vedi foto del sito), si osservano i resti di quella che sembra una ampia bacinella subcircolare, concava poco profonda.

La presenza di bacinelle sub-circolari o rettangolari e di canalette scavate nella roccia affiorante, tipiche di siti arcaici di valenza funeraria o culturale, l’ho potuta riscontrare anche in interessanti siti megalitici salentini e più in generale pugliesi, come pure ai piedi di alcuni menhir a p.s., ad esempio, per restare nell’area di Giurdignano, cito qui soltanto il menhir Vicinanze II e il menhir San Paolo; nel banco roccioso ai piedi di quest’ultimo si osservano anche numerose fosse sub-rettangolari scavate nella roccia, con moltissima probabilità, tombe per l’inumazione di cadaveri, di cui sarebbe opportuno con uno scavo archeologico, stimarne l’epoca, e l’eventuale riutilizzo nel tempo.

Per poter però dire qualcosa di più relativamente all’ipotesi archeoastronomica qui avanzata, serve uno studio più approfondito di tutto il sito, purtroppo in parte alterato da una millenaria e continua antropizzazione, nonché precisi calcoli archeoastronomici.

Sotto uno spesso strato di terra è la porzione del sito a settentrione del menhir, al di là del vicino muretto a secco; coperta da asfalto e pietrisco è poi la porzione a meridione e a oriente dell’area circostante il monolite. Tutto questo per sottolineare le difficoltà, in assenza di un preciso scavo archeologico, della lettura complessiva del sito.

L’area del complesso archeologico di Vicinanze I che, allo stato attuale, può essere facilmente indagata, è una striscia di terra larga circa 5 m, e lunga circa 20 m, compresa tra il tratto di stradina occidentale rispetto all’incrocio su cui sorge il menhir, e il muretto a secco, che si scorge anche nella foto seguente sulla destra della pietrafitta, posto a settentrione del menhir, e che delimita un uliveto, in cui il piano di calpestio è rialzato di alcuni decimetri a seguito della presenta di uno strato di suolo a cui il muretto stesso fa da contenimento. La limitrofa stradina corre in prima approssimazione da SW a NE; in questo stesso senso si estende il muretto a secco.

In questa lingua di terra, dal piano della stradina si eleva un basso costone roccioso di calcarenite, che poi continua al disotto del muretto a secco. Questa struttura inizia a scorgersi all’altezza del menhir, (il monolite stesso è in essa confitto), e da qui corre parallela alla stradina, aumentando in larghezza, da 1 m fino a circa 5 m, procedendo verso SW.

É in questo banco lapideo che troviamo scavate le bacinelle, le fosse e le grotticelle qui descritte.

Immediatamente a WSW del menhir, prima dello scavo indicato come bacinella ‘b’, si osservano in immediata sequenza, due scavi sub-circolari, del diametro di circa un metro. Son invasi da terra e pietrisco di recente apporto, e di essi si scorgono i bordi. Son indicati in figura con la lettera D.

Ancor più a Sud-Ovest, si distinguono tre grotticelle (‘A’, ‘B’, ‘C’) o scavi  subcircolari di origine artificiale, cavate nella roccia, e di dimensioni maggiori delle buche ‘D’. Di queste strutture emergono le volte semicrollate, o la pianta messa a giorno da lavori di cava. Queste cavature di blocchi, di epoca successiva, condotte sul banco roccioso affiorante della zona, son testimoniate palesemente  dai tagli lineari della roccia, fronti di cava, osservabili nei pressi delle grotticelle, e che hanno asportato la parte sommitale di queste, consumandone volte e pareti. Il resto delle cavità ancora integro, è in gran parte ricolmo di terra.

Con molta probabilità le cavità scavate nella roccia servivano a scopo funerario e insieme alle bacinelle erano coinvolte nei riti di libagione e sacrificio, connessi ai riti funerari e ai culti ctoni  e più in generale betilici, che coinvolgevano il megalite.

Come meglio tratteremo in altri capitoli, il legame topografico tra tombe ipogee di epoca arcaica, come di età più recenti, e menhir salentini a p.s., è molto forte, questo a causa del valore betilico della pietrafitta, sentito non solo dai popoli che eressero quelle stele, ma anche da gruppi umani di età successiva e di religioni molto differenti, come quella cristiana, che abitarono i medesimi luoghi in cui sopravvivevano ancora in piedi molti degli arcaici megaliti.

Tombe o vere e proprie necropoli di epoca cristiana, si osservano infatti talvolta ai piedi di menhir a p.s. salentini.

Nelle leggende che ancor oggi avvolgono le pietrefitte pugliesi, si scorge nella voce dei locali di religione cristiana, la percezione dell’antichità, dell’origine precristiana e del profondo universale valore religioso di quelle pietre.   

I danneggiamenti subiti dalle grotticelle del sito Vicinanze I, rendono arduo stabilire quali caratteristiche potessero avere le orientazione di quei sepolcri. Forse le loro aperture, se di piccole grotticelle davvero si trattava, erano rivolte ad oriente. Ma la stessa scelta di quel costone roccioso per la loro ubicazione comporta, data la locale orografia, proprio un esposizione verso levante.

L’orientazione ad oriente è molto frequente nei sepolcri tanto di epoca arcaica, quanto di epoche più recenti; orientazione legata alle universalmente diffuse correlazioni magico-religiose, tra culti funerari e culti solari. Orientazione rispettata in moltissimi santuari e luoghi di culto tanto pagani, quanto cristiani e di altre religioni. I resti meglio conservati, della cavità indicata con A,  suggeriscono una possibile orientazione della sua apertura originaria, proprio ad oriente (vedi foto seguente).

Figura 33: Vista del menhir Vicinanze I  e del suo sito, da oriente. Due cerchietti bianchi indicano la posizione delle cavità sub-circolari D.  Si nota in fondo a sinistra, indicata da un cerchietto rosso, l'apertura della grotticella A di cui si scorge parte della volta interna.  Dalla cavità A e dalle posizioni D, era possibile guardare il menhir e il punto di fuoco della raggiera; quest’ultimo è indicato in figura con sufficiente precisione, nella corretta posizione, dal cerchio giallo-rosso. Anche l’arco compreso tra i raggi estremi rappresentati in rosso, tiene conto delle effettive dimensioni della semi-raggiera incisa sul menhir. Delle coppelle presenti sulla faccia maggiore orientale del megalite, quella a vista nella foto, si è indicata, con un puntino giallo, solo quella a destra dei segni cruciformi incisi. Questi ultimi son stati rimarcati in viola.

Se fissiamo in particolare il nostro punto di osservazione in corrispondenza della grotticella A, ci posizioniamo circa a SW del menhir; il megalite allora, e il punto focale esterno della raggiera, sono visibili dalla grotticella, grazie anche alla sua apertura. Rispetto ad A, essi individuano grossomodo la direzione NE.

In realtà ponendo il punto di osservazione in ogni cavità del sito e guardando verso il menhir, si individua una direzione compresa tra NE ed Est. Una orientazione dalle importanti valenze calendariali come vedremo.

Sorge allora il dubbio che tali circostanze di orientamento, possano essere forzate dalla limitatezza dell’area archeologica indagabile. Osserviamo però, in attesa di un approfondito scavo archeologico del sito, i seguenti due aspetti:

1.       esiste una diffusissima associazione dei menhir a p.s. salentini con tracciati viari e incroci;

2.       proseguendo dall’incrocio di Vicinanze I verso settentrione, è possibile raggiungere il vicinissimo menhir a p.s. chiamato Vicinanze II, certamente eretto in epoche molto prossime al menhir Vicinanze I, dati i moltissimi punti in comune tra i due;

sulla base di queste premesse non possiamo escludere che i tracciati viari rurali che si osservano oggi nei pressi del monolite, esistessero già ai tempi della sua elevazione.

Alla luce di questa considerazione, dell’orografia del sito, e del punto di ubicazione del bethilos, sull’incrocio, all’estremità occidentale del banco roccioso affiorante, non meraviglierebbe scoprire, che proprio l’area ad occidente del monolite era quella, di tutto il sito circostante, più interessata dalla presenza di cavità di valenza cultuale scavate nel banco roccioso.

In merito alla possibilità che in aree rurali, un tracciato viario si sia mantenuto grossomodo invariato per millenni, riporto qui una sorta di aneddoto, ricavabile dai risultati degli studi archeologici condotti sull’immenso patrimonio di arte rupestre scoperto nel secolo scorso in Val Camonica, sull’Arco Alpino. Qui alcuni graffiti ritrovati incisi su rocce ubicate sui fianchi della vallata, rappresentavano mappe dettagliate, di quanto si poteva scorgere da quei punti; mappe del paesaggio sottostante. Quasi delle fotografie scattate molti secoli prima e impressionate indelebilmente  sulla roccia. Colpì molto i primi studiosi di quelle incisioni, scoprire che i tracciati viari, i confini dei poderi e persino luoghi di ubicazione delle abitazioni di epoca contemporanea ricalcavano esattamente le stesse posizione delle arcaiche struttura antropiche riportate sulle mappe petroglifate!

Dopo aver fatto queste premesse, torniamo allo studio archeoastronomico del sito di Vicinanze I.

Osserviamo che collocandosi nel punto corrispondente alle cavità sub-circolari ‘D’, e guardando il menhir e ancor più nello specifico, il centro della raggiera, che ricade a destra del menhir, sempre dal nostro speciale punto di osservazione fissato, si individua una direzione proiettata tra Est e NE, che forma con la direzione dell’asse Est-Ovest, un angolo di circa 30°, che ben si accorda con l’angolo che individua sull’orizzonte, il punto esatto in cui sorge il sole, il giorno del solstizio d’estate.   

Nel moto apparente del sole, ogni giorno, l’astro sorge e tramonta in punti differenti dell’orizzonte, rispetto ad un centro di osservazione fissato. Lo spostamento di questi punti del sorgere e del tramontare del sole, segue un percorso ciclico annuale, che scandisce anche l’alternarsi delle stagioni.

In particolare, nel giorno detto dell’equinozio di primavera, che segna l’inizio della stagione primaverile, il sole sorge all’alba esattamente ad Est, e tramonta esattamente ad Ovest; la durata del dì è uguale a quella della notte. Da questo momento in poi il sole sorge in punti sempre più spostati verso Nord, e le ore di luce solare aumentano nell’emisfero boreale, in cui ricade la Puglia. Il punto di levata del sole continua a spostarsi verso Nord, sino a raggiungere, nel giorno del solstizio d’estate, il punto più settentrionale del suo ciclo, posto all’incirca ad ENE, (massima amplitudine ortiva nord). In questo giorno, che segna l’inizio dell’estate, il sole tramonta all’incirca ad ONO. Nel solstizio d’estate la durata del dì è massima e quella della notte minima.

Nei giorni successivi, il sole sorge in punti che si avvicinano sempre più all’Est, e le ore di luce diminuiscono. Quando si raggiunge il giorno dell’equinozio d’autunno, che segna l’inizio della stagione autunnale, il sole sorge esattamente ad Est e tramonta precisamente ad Ovest, e anche in questo caso si ha un’uguale durata del dì e della notte. Continuano a diminuire le ore di luce e il punto in cui il sole sorge si sposta sempre più verso Sud, finché nel giorno del solstizio d’inverno, che segna l’inizio della stagione invernale, il sole sorge nel punto più meridionale del suo ciclo, corrispondente all’incirca alla direzione ESE, (massima amplitudine ortiva sud), e tramonta all’incirca ad WSW; in quel giorno si ha la minima durata del dì e la massima durata della notte. Proseguendo le ore di luce aumentano, il sole sorge sempre più verso Est, fino al giorno dell’equinozio di primavera, chiudendo così il suo ciclo annuo. [In questa descrizione indicativa abbiamo tenuto conto di un punto di osservazione posto grossomodo alle latitudini dell’area mediterranea, pertanto le stagioni qui citate sono quelle dell’emisfero settentrionale].

Il punto in cui il sole tramonta segue dunque anch’esso un ciclo annuo, le cui posizioni sono speculari a quelle dei punti in cui esso sorge, rispetto alla linea del meridiano nord-sud, passante per il punto di osservazione fissato.

L'ampiezza del "movimento" annuo del punto del sorgere e del punto del tramontare dipendono dalla latitudine dell'osservatore collocato sulla superficie terrestre e dalle caratteristiche dell’ orizzonte.

Noi consideriamo il caso ideale di un orizzonte lineare, privo di rilievi, quale quello che si può osservare in una ampia regione perfettamente pianeggiante o stando in mezzo al mare molto lontano dalla terraferma. Data l’orografia dell’ area circostante, questa approssimazione ideale è applicabile al sito di Vicinanze I, eccezion fatta per la presenza di copertura vegetale del terreno.

Per stimare in via teorica le caratteristiche dell’arco descritto sull’orizzonte ideale dal punto del sorgere del sole in corrispondenza del sito del Vicinanze I, effettuiamo il seguente studio, cui sarà interessante far seguire precise osservazione sperimentali in loco nei giorni dei solstizi e degli equinozi.

Nell’ ipotesi di orizzonte ideale:

·         alla latitudine di 0°, cioè all'equatore, l'arco di orizzonte interessato dalla variazione del punto del sorgere ha la minima ampiezza: 47° (=23°,5 x 2);

·         alla latitudine di 45°N, l'arco di orizzonte ha un'ampiezza di circa 68°;

·         alla latitudine di 66,5°N, cioè sul circolo polare artico, l'arco di orizzonte interessato dal punto del sorgere raggiunge i 180°.

Gli archi di orizzonte del levare e del calare del  sole hanno in uno stesso luogo e sempre rispetto all’ orizzonte ideale, idem ampiezza e sono centrati rispettivamente intorno al punto dell’Est e dell’Ovest, cioè hanno il loro punto medio coincidente con quei punti.

Tenendo conto delle tre latitudini per le quali conosciamo le ampiezze dell’arco del sorgere del sole, attraverso una interpolazione possiamo prevedere approssimativamente alla latitudine di 40° N del sito di Vicinanze, un arco di orizzonte interessato dalla variazione del punto del sorgere, di circa 60° ( = 30° x 2).

 

latitudine del punto di osservazione

ampiezza arco di orizzonte del punto del sorgere

47°
45° N 68°
66,5° N 180°

da interpolazione dei dati precedenti

40° N circa 60°

Figura 34: Curva di interpolazione.

Ovvero nel giorno del solstizio d’estate il punto del sorgere del Sole si troverà di circa 30° spostato verso Nord rispetto alla direzione dell’Est, mentre nel giorno del solstizio d’inverno esso si troverà di circa 30° spostato verso Sud rispetto sempre alla direzione dell’ Est.

Durante questo suo ciclo annuo, il sole modifica giornalmente anche l’altezza massima raggiunta sull’ orizzonte. Alla latitudine della Puglia, nell’emisfero boreale, essa è minima nel solstizio d’inverno ed è massima nel solstizio d’estate. (Si osservi lo schema riportato in figura).

Equinozi e solstizi dunque formano, un complesso di quattro giorni importantissimi ai fini della suddivisione dell’anno solare, poiché il loro alternarsi, solstizio d’inverno, equinozio di primavera, solstizio d’estate, equinozio d’autunno, segna l’alternarsi delle stagioni.

 

Figura 35:

Schema riassuntivo del moto giornaliero apparente del sole, osservato da un punto fisso sulla superficie terrestre; più precisamente le inclinazioni delle traiettorie solari (archi diurni del sole) qui riportate, rappresentano, grossomodo, quanto si osserva nella fascia temperata dell’ emisfero boreale, dove ricade la Puglia. Qui quando il sole passa sul meridiano locale, a mezzogiorno per definizione, esso indica sempre inequivocabilmente, il Sud, anche se la sua altezza sull’orizzonte muta di giorno in giorno con ciclo annuo.

 

Sono evidenziate le traiettorie giornaliere del sole nei giorni estremi del suo ciclo annuo, i solstizi e gli equinozi.

 

Il solstizio d’estate è il giorno dell’anno in cui maggiore è la durata del dì, e il sole raggiunge la sua massima altezza sull’orizzonte. Un giorno importante nella stima dell’avvicendarsi delle stagioni, per le antiche civiltà agro-pastorali del Salento; un momento dell’anno percepito come dotato di fortissima carica magica, perchè in esso il Sole esprimeva il massimo della propria potenze, in termini di ore di luce, ma anche il giorno che segnava l’inizio del declino della sua potenza. Dal solstizio d’estate in poi le ore di illuminazione diurna diminuiscono, il dì si accorcia, e tutte le antiche genti dell’emisfero settentrionale, sentivano il bisogno di fare offerte al Sole, offrirgli doni e olocausti, accendere fuochi, celebrare feste con canti e balli, per rinvigorire magicamente l’energia dall’astro lucente e invogliarlo a non abbassarsi sull’orizzonte!

A Vicinanze I, da tutta l’area interessata dalla presenza delle cavità oggi visibili, il menhir appare grossomodo a NE.

Posti nella zona delle grotticella ‘A’, ‘B’, ‘C’, nel giorno del solstizio d’estate, all’alba, il menhir dovrebbe apparire, date le orientazioni del sito, di pochissimi gradi spostato sulla sinistra rispetto al punto dell’orizzonte in cui sorge il sole; il sole nascente dovrebbe apparire quindi, nello spicchio di cielo immediatamente alla destra della stele, proprio sul lato indicato dal fuoco della raggiera!

Sostando all’ alba del solstizio d’estate, in corrispondenza delle fosse ‘D’, il centro della raggiera indica sull’orizzonte, con buona approssimazione, l’esatto punto il cui si leva il sacro astro.

L’altezza del fuoco, circa 2,50 m da terra, permetteva forse di intercettare il sole immediatamente al di sopra della copertura vegetale, che frastagliava e copriva la perfetta linea dell’orizzonte, comunque lì abbastanza lineare, data l’assenza di significativi rilievi collinari a NE del sito di Vicinanze, e la presenza a circa 6 km di distanza in quella direzione, del Mare Adriatico.

Si deduce dunque la possibilità attraverso questo sito megalitico, di avere dei riferimenti calendariali.

A tal fine infatti, non vi era metodo migliore, se non quello di registrare nel primo anno le posizioni del sole all’alba o al tramonto, e quindi in particolare nei giorni degli equinozi e dei solstizi, fissando opportunamente dei riferimenti, come solide pietre o pali ben infissi al suolo, che osservati da prefissati punti di osservazione indicavano sull’orizzonte le importanti posizioni estreme del sole; quindi disponendo di questo semplice ma efficace calendario era possibile negli anni successivi, prevedere il succedersi delle stagioni, prima che queste si palesassero con i loro tipici fenomeni naturali.

Non solo nel sito del Vicinanze I, si poteva stabilire il raggiungimento del giorno del solstizio d’estate, ma il menhir stesso con le sue facce, almeno originariamente, ortogonali alle quattro direzioni cardinali, permetteva il loro riconoscimento, in particolare segnava la direzione del meridiano passante per quel punto, essendo le sue superfici maggiori, ad esso, con altissima precisione, parallele. In merito al moto celeste del sole il menhir, permetteva l’individuazione degli equinozi. Stabilito che la faccia maggiore del menhir su cui è incisa la semi-raggiera solare, era perfettamente rivolta ad oriente, era sufficiente mettersi esattamente dietro di questa, a perpendicolo, per ‘vedere’ sorgere il sole esattamente dietro il menhir nell’alba degli equinozi. E gli equinozi, come già ricordato, son due giorni importanti nello studio del moto del sole a fini calendariali; cadono in primavera ed autunno e sono gli unici due giorni dell’anno, in cui il sole sorge esattamente ad est e tramonta esattamente ad ovest, facendo sì che la durata del dì e della notte siano uguali.

Equinozi e solstizi hanno da sempre scandito la vita economica e religiosa dell’ uomo.

Guardando la faccia principale del megalite, quella esposta ad oriente, ponendosi di fronte ad essa, si avrebbe anche un riferimento per il tramonto del sole negli equinozi, e il punto di fuoco della raggiera esterno al bethilos e sulla sua sinistra, può porsi in relazione con il punto dell’orizzonte in cui tramonta il Sole nel giorno del solstizio d’ inverno, direzione WSW.

Attraverso il sito megalitico di Vicinanze I, le genti locali avevano creato molto probabilmente, un semplice sistema per misurare lo scorrere del tempo, al fine di prevedere gli eventi stagionali; aspetto di essenziale importanza per programmare attività agricole, pastorali, di caccia e raccolta, come anche di pesca e navigazione; tutte attività umane in cui esigenze economiche e magico-religiose erano inscindibilmente fuse tra loro. La stessa inscindibile fusione che ritroviamo nel complesso megalitico di Vicinanze I.

In merito alle grotticelle ‘A’, ‘B’, ‘C’, alla bacinella ‘b’, e alle cavità sub-circolari ‘D’, praticamente la quasi totalità delle cavità artificiali osservabili nel sito di Vicinanze I, sottolineiamo come la loro pianta, prevalentemente circolare, potrebbe non derivare da mere esigenze pratico-funzionali, ma celare simbologie astronomiche legate alla Luna e al Sole, corpi celesti sferici, che appaiono dunque nel cielo, visti da terra, come dischi, ovvero come corpi dal contorno circolare. Simbologie di questo tipo, dalle valenze magico-religiose, hanno sempre influenzato l’arte e l’architettura civile, religiosa e funeraria dell’uomo.

La presenza di simili simbologie celesti nel contesto di Vicinanze I, risulta inoltre  perfettamente coerente e in accordo con quanto si sta scoprendo attraverso questo studio sul sito archeologico indagato.

Riproducendo forme celesti con piante circolari, in capanne, tholos, cavità semi-ipogee, tombe ipogee, dolmen, tumuli, bacinelle, recinti ecc., si rappresentano più o meno consapevolmente, astri del cielo sulla terra, si disegna cioè il cielo in terra, invocando in tal modo, magicamente, un contatto in quei luoghi, tra la dimensione celeste e quella terrena, la cui unione così propiziata, è percepita archetipicamente e più o meno consciamente a seconda della speciale cultura umana, come fonte di benessere per l’uomo, il mondo vegetale e animale e persino per gli stessi defunti; unione tra cielo e terra che trova, come meglio esporrò in seguito analizzando i principi del culto betilico, nelle simbologie del bethilos, la sua massima catalizzazione e realizzazione.

 

Figura 36:

Vista satellitare del sito di Vicinanze I.

 

Si riconosce il quadrivio di strade presso cui sorge il megalite.

La linea rossa rappresenta la direzione lungo la quale viene visto il Sole, all’alba, nel giorno del solstizio d’estate, dal punto individuato dal fuoco esterno della raggiera e il cui prolungamento raggiunge la posizione delle cavità ‘D’. La linea azzurra indica la direzione Est, in cui sorge il sole nei giorni degli equinozi, direzione ortogonale alle facce maggiori del menhir, almeno nella sua originaria orientazione.

La struttura rettangolare grigia in basso al centro, è un edificio agricolo in muratura, non molto antico; alla sua sinistra in verde si osservano alcuni alberi di quercia, leccio, che in parte ricoprono con la loro chioma l’area delle grotticelle.  Si confronti questa foto con quelle precedenti, per una migliore comprensione.

 

É auspicabile, uno scavo archeologico del sito. Esso permetterebbe di aumentare la nostra conoscenza sulla vita e sul pensiero delle genti megalitiche salentine, e fornirebbe  uno studio attento delle cavità artificiali presenti, al fine di far luce sulla loro destinazioni.  

Anche uno studio archeo-astronomico ancor più dettagliato e accurato, permetterebbe una migliore comprensione degli eventuali ulteriori orientamenti del sito con la volta celeste e con i moti degli astri.

Le suggestioni che suscita il motivo della semiraggiera sono molto forti, e il pensiero corre alla meridiana, lo strumento che serve per la misura del tempo, la determinazione delle stagioni, e anche come mezzo di orientamento. Essa utilizza a tal fine l’ombra del Sole proiettata da un asse rigido, detto gnomone, su una superficie detta quadrante, in cui son generalmente incisi a semiraggiera dei segmenti  uscenti dalla base dello stilo.

Lo stesso menhir poteva fungere da gnomone, e i menhir a pilastro squadrato potevano servire anche per orizzontarsi, grazie alla loro precisa orientazione secondo i punti cardinali, con le facce maggiori rivolte Est – Ovest, e le minori Nord – Sud. Ciò nonostante ritengo che il bethilos, nasca essenzialmente con valenze magico-religiose e assuma solo secondariamente valenze funzionali, legate al rapporto dell’uomo con il territorio (orientazione, segnacolo di confine, simbolo della proprietà privata), e con il tempo (gnomone, o altro uso legato allo studio dei moti celesti). Ed è sulla base di questa convinzione che nasce dallo studio dell’antropologia e delle religioni, che in questo lavoro monografico sul menhir Vicinanze I, procederemo nella valutazione dei dati raccolti.

 La scoperta nei siti megalitici e templari arcaici di importanti progettazioni  astronomiche, e la correlazione di queste soluzioni architettoniche con i valori magico-religiosi del cielo e dei suoi astri, percepiti culturalmente e archetipicamente dall’uomo in ogni epoca, ci spingono ad avanzar ipotesi in tal senso, non solo per il complesso di Vicinanze I, ma anche per altri siti archeologici salentini; ipotesi che naturalmente, devono essere più accuratamente indagate e vagliate scientificamente.

 

Note sui principi basilari del culto betilico

Dopo aver discusso le valenze economico-calendariali di un orientamento astronomico, le valenze simboliche magico-religiose di un’eventuale correlazione del sito del Vicinanze I, con i moto celesti, possono essere, facilmente comprensibili: il legame degli ipogei sepolcrali con il Sole, la correlazione tra culti ctoni e culti solari per propiziar la rinascita spirituale o materiale dei defunti, e i riti di fecondità per l’uomo e la natura, che guardavano all’inscindibile coppia cosmica Terra-Cielo( Sole ), che trovava nel bethilos eretto con continuità (=monoliticità), tra la terra in cui affonda la sua base e il cielo in cui svetta la sua sommità, la sua unione fisica e simbolica. Ed è proprio da questa unione della coppia cosmica, che si compie nel bethilos e che il bethilos stesso propizia, che deriva il benessere per la natura e per l’uomo, la fecondità, e la rinascita stessa dei defunti. Questo uno degli archetipi più importanti che ho scoperto nello studio dei culti betilici, archetipo che affonda le sue radici universalmente nelle strutture di pensiero più profonde dell’uomo, e che oltre ai suoi forti aspetti magico-religiosi, non manca di avere un contatto con la realtà fisica e biologica della vita!

 

Confronto del motivo “petroglifo a semi-raggiera” del menhir  Vicinanze I con graffiti rupestri della Val Camonica.

·         Il motivo del sole nell’arte rupestre e megalitica.

Il motivo del raggio di sole e in particolare della raggiera e della semiraggiera compare in tutta l’arte antica neolitica e protostorica soprattutto nella rappresentazione del sole e di copricapi raggiati di eroi, sciamani o divinità. Molteplici esempi in tal senso potremmo fare considerando gli ideogrammi trovati incisi sulle rocce della Val Camonica sull’Arco Alpino, o dipinti sulle pareti del santuario ipogeo neolitico e della prima età dei metalli di Porto Badisco nel Salento; si pensi al copricapo semiraggiato del famoso pittogramma noto come “lo stregone di Porto Badisco”, o “il dio danzante”, o ai numerosi soli raggiati raffigurati lungo i cunicoli sotterranei della sacra grotta carsica pugliese. 

In questa sede particolarmente significativo è il richiamo di un famoso “petroglifo del sole” ritrovato in Val Camonica nel comune di Paspardo, in località Plas, nella provincia di Brescia, e datato al periodo camuno III-A (III millennio a. C.).

 

Figura 37 Figura 38

Petroglifo del sole in località Plas, nel comune di Paspardo in  provincia di Brescia; foto del graffito a sinistra e sua rese grafica a destra. Il petroglifo ha un altezza complessiva di circa 35 - 40cm.

Per le accurate indagini archeoastronomiche effettuate sul petroglifo  rimando al sito: http://www.archaeoastronomy.it/la_roccia_camuna.htm, da cui è anche tratta la foto qui riportata.

 

É costituito da un cerchio affiancato da altri due più piccoli e dal quale si dipartono tre fasci di raggi rivolti verso il basso, con andamento verticale quello centrale ed obliqui gli altri due. Ciascun fascio consta di tre lunghi raggi paralleli.

É inciso su una parete rocciosa quasi verticale e dalla sua posizione è possibile scorgere durante tutto l’anno il punto in cui il sole tramonta sulla linea dell’orizzonte disegnata dai profili dei monti circostanti. Data anche la presenza di altri graffiti nell’area, sulla stessa formazione rocciosa in cui è inciso il petroglifo, si è interpretato quel sito come luogo di culto su altura dedicato al Sole tramontante. Accurate analisi archeoastronomiche hanno permesso di avvalorare l’ipotesi di una relazione del petroglifo e dei suoi raggi con la rappresentazione simbolica dell'escursione annua solare sull'orizzonte occidentale visibile dalla località Plas. Anche l’andamento dei suoi raggi verso il basso è considerato simbolo di sole calante, mentre di solito raggi uscenti dal disco solare verso l’alto negli arcaici ideogrammi, son interpretati come simboli di sole nascente.

Nel sito di Plas la connessione tra raffigurazione del sole e studio astronomico del suo moto apparente annuo è connaturata, con valenze magiche, nel petroglifo stesso, poiché esso, oltre a rappresentare il sole calante, contiene nella particolare apertura dei suoi tre fasci di raggi uscenti, riferimenti angolari ai solstizi e agli equinozi osservati dal sito della sua collocazione, e dunque relativamente ai punti di tramonto dell’astro. 

Questo legame tra sole semi-raggiato inciso su pietra e osservazioni archeoastronomiche, rende il petroglifo di Plas particolarmente suscettibile di confronti con la semiraggiera di Vicinanze I, anch’essa incisa su “pietra” e intrisa di significati magici e astronomici.

Il graffito solare di Plas, non solo concettualmente, ma anche dimensionalmente, dato che è lungo complessivamente circa 35 - 40 cm, è confrontabile con la, comunque più grande ed ampia, semiraggiera di Vicinanze I.

Petroglifi del sole di caratteristiche simili a quello di Plas si osservano sempre in Val Camonica (ad esempio sulla faccia n. 1 del masso di Borno) e in altre località europee. Non solo, petroglifi simili si ritrovano persino su statue-menhir Valtellinesi di Caven e in quelle di Cornal e Valgella.

Si tratta probabilmente della raffigurazione di pendagli ornamentali di valenza magica rappresentanti il sole, e che conservano la loro valenza simbolica solare anche nella rappresentazione sulle stele.

Il tema del più generico sole come disco solare semplice o raggiato è ricorrente nell’arte rupestre mondiale così come sulle rupi della Val Camonica.

In Val Camonica inoltre soli raggiati si osservano frequentemente rappresentati anche sulle stele incise ritrovate nella valle.

Questi veloci excursus ci ha permesso di osservare la frequenza con cui compare il motivo del sole e dei suoi raggi non solo nell’arte rupestre, ma anche nell’arte megalitica, proprio raffigurato, in quest’ultimo caso, su “statue-menhir” (“statue-stele” anche dette) e su semplici stele di età protostorica. Sui significati magici di tali rappresentazioni torneremo nei paragrafi successivi.

Nota: qui parliamo di arte rupestre quando il supporto usato per graffiti e pitture, è roccia naturale in loco, e di arte megalitica quando fan da supporto pietre spostate dal sito e dalla giacitura naturale di origine, collocate opportunamente ed eventualmente sbozzate o rifinite.

Confronto del motivo “petroglifo a semi-raggiera” del menhir Vicinanze I con motivi decorativi raggiati dell’arte megalitica pugliese ed italiana.

·         Similitudini tra arte rupestre e arte megalitica.

·         Note sulla simbologia dell’ “occhio del menhir”; parallelismi con la cultura egizia.

Nell’analisi delle espressioni artistiche megalitiche italiane e pugliesi, possiamo ritrovare alcuni interessanti esempi di riproduzione di raggi di luce su particolari menhir, le cosiddette statue-stele o statue-menhir.  Entrando più nello specifico, i petroglifi, che qui analizzeremo, si osservano su alcune statue-stele antropomorfe decorate calcolitiche, cioè del III millennio a.C., della Lunigiana in Liguria, e della Puglia, e in Puglia anche su statue-stele antropomorfe decorate del II millennio a.C..

Si tratta di uno o più fasci di linee, che divergono da coltelli a punta triangolare di foggia remedelliana (cioè con manico lunato), o campaniforme (cioè con manico a pomo globoso o ogivale), rappresentati sulle stele maschili. Sporgono generalmente dalla punta del coltello o in casi più rari da altre parti dello stesso e si prolungano per brevi tratti. Questi fasci son chiamati in gergo tecnico ‘fiocco’, nome dei ciuffi di cotone o lana non ancora filati. Il nome indica implicitamente, come ancora non si sia data una corretta interpretazione a questi elementi decorativi. Vengono interpretati come rappresentazione di un fiotto di sangue o del fodero o altra bardatura del coltello, oppure come raggi di luce o di “energia” emessa dal pugnale. Se lo si interpreta come fiotto di sangue, il fiocco rappresentava allora la potenza del pugnale, in grado di ferire e uccidere.

 

 

Figura 39

Figura 40.

 

Si mostrano due coltelli a lama triangolare, entrambi con raggi uscenti a semi-raggiera dalla punta, incisi su stele calcolitiche della seconda metà del III millennio a.C., ritrovate a Sterparo Nuovo, nel foggiano. Sopra vediamo la resa grafica di un frammento di stele maschile. A fianco si mostra la resa grafica di una stele maschile integra alta 161 cm. Il coltello sulla stele superiore è a pomo circolare (o globoso), quello sulla stele a fianco ha pomo lunato.  

Per ulteriori dati sulle stele di Sterparo Nuovo, rimando agli interessanti studi dell’archeologa Laura Leone, specializzata nello studio delle stele calcolitiche europee, e che posson esser letti sul sito www.artepreistorica.it, di cui la studiosa è attenta e professionale curatrice.

Figura 41.

Stele antropomorfa recuperata nell’agro di Mattinata, in provincia di Foggia. Era stata impiegata come materiale lapideo per la costruzione di un muretto a secco. Il cippo è in calcare locale, in forma di piatta lastra sub-rettangolare. É  lisciata nella faccia anteriore e solo grossolanamente sbozzata sul retro. I bordi sono arrotondati. La stele presenta fratture in corrispondenza della  spalla sinistra e della sommità, dove era abbozzata la testa.
Tre marcate linee orizzontali definiscono la cintura. La zona al di sopra, corrispondente al petto, è dominata dalla raffigurazione a rilievo di un grande pugnale a lama triangolare. Dalla punta dell'arma fuoriescono quattro linee divergenti verso il basso, che costituiscono il caratteristico ‘fiocco’. Il coltello caratterizza inequivocabilmente, la stele come statua maschile. Sono stilizzatamene raffigurate anche le braccia e le mani. La stele è ritenuta risalente al II millennio a.C.   Figura tratta da:
www. lunigiana .net .

 

Nell’età del rame e del bronzo, portavano l’arma solo i maschi adulti, come simbolo della loro virilità e della loro abilità guerresca messa al servizio della difesa della famiglia e del clan. Rappresentato sulla stele, il coltello simboleggiava questa valenza guerresca, di offesa e difesa, propria del maschio in generale o del defunto cui la statua era associata, se questi era morto in età adulta ed era di sesso maschile.

Rappresentare il coltello aveva anche valenze apotropaiche e serviva per tener lontani ladri, nemici e stranieri dal luogo sacro e/o funerario in cui le stele erano poste, o da tutta l’area circostante, di cui le stele ribadivano indirettamente il possesso da parte della comunità, che le aveva erette e che lì risiedeva, come esse stesse attestavano con la loro presenza, da generazioni. La proprietà privata derivava dalla consuetudine di insediamento e sfruttamento di un luogo. Queste stesse valenze son ovviamente presenti anche tra i valori semantici dei più tradizionali menhir.

 

Figura 42: Pugnale remedelliano scolpito sulla statua stele lunigianese classificata come Bagnone A. Si osserva la classica fascia di raggi, uscente in tal caso dal manico del coltello.

Tornando all’analisi del fiocco, a mio avviso, la forma dei raggi di questo, par maggiormente concordare, tra le varie sin ora proposte, con l’ipotesi di rappresentazione di raggi di luce; si osservano tratti rettilinei continui incisi, più compatibili con raggi, che con gocce o fiotti di sangue. Il coltello in rame aveva valore sacro data la sua alta utilità funzionale e difensiva. Il colore rosso-giallo del rame, il suo esser ottenuto per fusione della roccia metallifera, e dunque attraverso il fuoco, nonché la sua lucentezza, lo associavano al Sole, e sebbene si trattasse di un materiale estratto dalla terra, era ritenuto di origine solare. La luce che rifletteva la lama era allora considerata come energia dell’astro di origine, conservata nel rame ed emessa dal coltello. Quei raggi avevano pertanto valore magico ed erano simbolo del legame sacrale del coltello con il divino mondo celeste; simbolo della sacralità del coltello; sacralità cui partecipava l’uomo, il maschio che possedeva la metallica arma.

Dunque, ricapitolando, anche se indirettamente riflessi, o emessi dal rame riscaldato, quei raggi erano pur sempre ritenuti radiazioni di energia luminosa originata dal sommo astro, principale fonte di luce nella natura, il Sole.

Le stele antropomorfe e i loro decori, oltre al valore di comunicazione figurativa infraspecifica, cioè tra uomini (trasmissione del ricordo degli antenati, preservazione del loro culto, e attestazione del possesso della terra da parte di una comunità), avevano un valore magico-religioso (apotropaico, betilico e funerario); valori che riscontriamo nei più semplici e stilizzati menhir.

Pertanto oltre a ribadire la magica potenza del pugnale di rame, anche i raggi provenienti dal petroglifo del coltello, come i raggi di Sole rappresentati sui menhir, hanno le stesse valenze, sono cioè simboli magici, invocazioni del Sole, affinché inondi di luce il bethilos, e tanto il menhir, tanto la stele-statua sono dei sacri betili. [Sul significato preciso del termine bethilos e sulle sue valenze si veda quanto scritto nel glossario allegato al termine di questo studio, in ogni caso su questi aspetti tornerò nella monografia che intendo dedicare allo studio del culto betilico].

Non solo lo stesso coltello di metallo, è ritenuto, per quanto osservato, simbolo solare, talvolta ha persino pomo di forma sferica o circolare, come il disco del Sole. Rappresentarlo vuol dire allora, raffigurare anche lo stesso Sole e invocarne in tal modo magicamente, attraverso la sua rappresentazione, la luce e il calore, la sua energia e dunque il suo spirito, sulla e nella pietra betilica su cui è effigiato. Identico valore magico hanno gli ideogrammi del sole graffiti su stele, come le rappresentazioni di pendagli-simboli-solari sulle stele-statue citate nel precedente paragrafo.

Allo stesso modo le rappresentazioni dell’astro su rocce naturali in aree dalla valenza sacra, perseguono il medesimo magico intento, con l’unica variante, che qui la pietra supporto della rappresentazione non è stata asportata dal suo sito geologico naturale, e opportunamente posizionata e sbozzata, ma è roccia naturalmente lì presente, (al più preparata in superficie per accogliere le incisioni talvolta evidenziate con pigmenti), che diviene però per la sua forma o per la sua posizione, pietra sacra, dalle valenze potremmo dire simili a quelle del classico bethilos. Ecco perché i petroglifi che compaiono nell’arte megalitica come nell’arte rupestre rispondono alle stesse logiche e agli stessi archetipi che spiegano le similitudini, che si riscontrano tra le due espressioni artistiche, dove ritroviamo spesso motivi simili (come coppelle, microcoppelle, bacinelle, canalette, simboli solari, raggi di luce, rappresentazioni di coltelli di fogge eneolitiche ecc.), e che sottendono anche similitudini cultuali relative al pensiero religioso, ai riti e alle cerimonie che si compivano in corrispondenza di stele e rocce naturali sacre.

Per restare in ambiente salentino pensiamo alla coppelle, bacinelle e canalette di origine artificiale che ho potuto riscontrare sui grandi massi sacri del campo  detto volgarmente “ de la Vecchia e de lu Nanni”, sull’altura in agro di Giuggianello. Questi antichi segni attestano il coinvolgimento in antichi riti di quei grandi massi levigati naturali, sporgenti dal suolo, e che per la loro forma furono caricati delle stesse valenze religiose, che vengono attribuite al bethilos per la sua verticalità e monoliticità. [Al campo della Vecchia, e alle interessanti nuove osservazioni fatte sul sito, dedicheremo uno studio monografico]. 

Nei menhir la presenza di un solo “occhio” di forma circolare, nella parte media o superiore del loro fusto, che ho osservato su numerose pietrefitte a p.s. pugliesi e su alcune maltesi, ha dunque, tra i suoi molteplici valori semantici, anche quello di rappresentazione del disco solare, con la stessa valenza magica poc’anzi espressa.

 

Figura 43: “Occhio del menhir”, nella pietrafitta Vicinanze I;  si tratta di un foro circolare cieco posto in alto al centro della faccia maggiore rivolta a West (Ovest).  In foto:  vista da  WNW della parte superiore della stele.

Il Sole nel suo geroglifico del disco, viene comunemente rappresentato sugli obelischi egizi decorati, tanto nelle iscrizioni lungo le pareti, quanto nella porzione più alta di questi, sulle facce del piramidone sommitale. É  doveroso pertanto osservare la similitudine tra l’ “occhio del menhir”, soprattutto quando esso si presenta di forma circolare, come nel menhir Vicinanze I e la raffigurazione del disco solare sull’obelisco. La similitudine si deve al fatto che entrambi i culti, quello dell’obelisco e quello del menhir, si fondano sulle medesime radici psico-antropologiche, e son espressioni diversificate, per motivi storici, culturali e geografici, della medesima religiosità betilica.

 

Figura 44:Piccolo obelisco con iscrizioni geroglifiche, risalente alla XX dinastia, fatto ergere da Ramses III, nel tempio di Amon a Karnak. Si osservi nelle due facce a vista, la presenza di un foro circolare cieco, scolpito nella parte alte dell’obelisco, si tratta del simbolo geroglifico di Amon-Ra, dio del sole.

 

Il motivo a semi-raggiera osservato sul menhir Vicinanze I, presenta moltissime similitudini con il motivo a semi-raggiera del fiocco delle statue-stele. Per quest’ultimo abbiam qui proposto per la prima volta, una spiegazione coerente con tutto l’impianto simbolico dei menhir e delle stele-statue. Spiegazione che non sarebbe stata possibile senza una comprensione profonda dei culti betilici, e del pensiero magico dell’uomo, che risponde a profonde istanze psico-antropologiche e trova la sua ragion d’essere nelle stesse strutture psitiche inconsce dell’uomo.

Il motivo a raggiera nella cultura e nell’arte cristiana.

·         Origine precristiana del petroglifo a semi-raggiera del menhir Vicinanze I.

Nel cristianesimo, troviamo frequentemente rappresentato il motivo della raggiera completa, nell’ostensorio, l’arredo in cui si mostra ai fedeli l’ostia consacrata; qui da un cerchio centrale si diparton raggi tutt’intorno. Semi-raggiere, che dall’alto scendono verso la terra, sono frequenti in rappresentazioni dello spirito santo e della sua discesa dal cielo, in forma di bianca colomba lucente  e raggiante. Frequente è anche la raffigurazione di semi-raggiere, che irradiano da un crocifisso o dalla statua di un santo, di Cristo o della Madonna e che inondano di luce soggetti santi rappresentati in momenti di valenza agiografica, quali lo stato di estasi mistica o l’impressione delle stigmate. Spesso avvolti da contorno luminoso e raggiato sono rappresentati santi, il Cristo e la Madonna, soprattutto nella narrazione figurativa di loro leggendarie apparizioni.

Ciò nonostante, tentar di ricondurre il motivo dei raggi di luce del menhir Vicinanze I, ad una mera raffigurazione cristiana, risulta alquanto difficile, e questo anche se poco più in basso, sulla stessa faccia con raggi, si osserva la presenza di due croci ben incise, sulle quali molto diremo nel paragrafo successivo.

La mancata rappresentazione sul menhir, del disco solare irraggiante del fascio, che ricade idealmente all’esterno dove è il punto di fuoco, connota il graffito dei raggi come elemento magico di congiunzione del menhir fisico con un’entità concettuale e reale esterna ad esso, il Sole. Sebbene ogni raffigurazione religiosa, pagana e cristiana, abbia di fondo un valore magico-propiziatorio nei confronti del divino, questo aspetto è espresso nella massima potenza in forme artistiche arcaiche meno convenzionalizzate e normate, quali quelle ad esempio dell’arte megalitica e rupestre, mentre nell’arte cristiana la valenza descrittiva e narrativa dell’opera figurativa spesso supera quella magica. Proprio questo aspetto meramente descrittivo è assente nel menhir Vicinanze I, come dimostra la non rappresentazione dell’entità fonte di quella luce, che pur si raffigura sul menhir con valenza pertanto pienamente magica.   

Riguardo alla presenza poco più in basso di croci graffite, ci limitiamo in questo paragrafo a sottolineare che questi segni cruciformi sono incisi con tratti molto diversi e più evidenti, rispetto ai tratti della semi-raggiera; differenze dovute al fatto che probabilmente mani diverse e con diverse tecniche, hanno inciso le croci  e i solchi-raggio di luce. Si aggiunga anche, che i due motivi graffiti paion tracciati in epoca diversa; più antica per i raggi poiché questi sembrano molto più usurati dei segni cruciformi.      

Il menhir raffigurato sul menhir.

·         Analisi dei petroglifi cruciformi incisi sul menhir Vicinanze I.

·         Scoperta di un antico graffito raffigurante sul menhir il medesimo menhir.

Anche se sin ora nello studio dei menhir a p.s. salentini, abbiamo rimandato l’analisi attenta dei segni cruciformi incisi ad un approfondimento successivo, in questa sede analizzeremo attentamente quelli presenti sul menhir Vicinanze I, perché come mostreremo, sono stati realizzati integrando un petroglifo più antico.

Iniziamo dalla semplice descrizione dei segni cruciformi osservabili.

Il menhir presenta solo due croci evidenti, incise entrambe con forte tratto, presenti entrambe sulla faccia maggiore del monolite rivolta ad Est.

L’analisi delle superfici con tecnologie più sofisticate, potrebbe portare alla scoperta di altre croci graffite sulla stele solo superficialmente e ormai molto abrase. Sui menhir a p.s. è infatti frequente ritrovare croci graffite in maniera più decisa e altre solo lievemente scalfite.

Tornando all’analisi delle due più evidenti e certamente principali croci, procediamo ad una loro accurata descrizione.

Sono disposte quasi centralmente, e si sviluppano a partire da un’altezza di 90 cm dalla base della pietra verticale. Son poste l’una al di sopra dell’altra, a circa 1 cm di distanza.

 

Figura 45: Menhir Vicinanze I. Particolare delle due croci incise sulla faccia maggiore rivolta ad Est.

Si può osservare nella foto una microcoppella a destra della croce superiore.

Figura 46: Resa grafica delle due croci. Definiamo ‘croce piena’, quella superiore, ‘croce lineare’ quella

inferiore.

La croce lineare, ha tratto inferiore, basale, allungato; è dunque una ‘croce latina’. É leggermente spostata sulla sinistra rispetto all’asse verticale della faccia della pietrafitta, su cui è graffita. É ottenuta incidendo due segmenti, che si intersecano a perpendicolo, secondo lo schema lineare più semplice e schematico adottato per rappresentare la croce cristiana, ed uno dei più frequenti tra quelli adottati per la raffigurazione di croci incise sui menhir pugliesi e non solo, anche maltesi e bretoni ad esempio. Su questi menhir europei, troviamo frequentemente croci incise allo scopo espressamente perseguito, o anche semplicemente inconscio, di cristianizzare il menhir.

L’incisione della croce però, la troviamo anche su massi e rupi interessati da graffiti di arte rupestre, espressione di religioni pagane; si tratta anche lì di croci incise in epoca cristiana con i medesimi intenti cristianizzanti, e anche in questo caso le croci più frequentemente graffite sono quelle lineari.

Al di sopra della croce latina schematica, che abbiamo chiamiamo ‘croce lineare’, del menhir Vicinanze I, ne osserviamo una seconda, sempre latina, di dimensioni poco maggiori e piena, che chiameremo ‘croce piena’; è cioè costituita da un gambo centrale, ottenuto incidendo il perimetro di un rettangolo verticale, e da due braccia, ottenute tracciando lateralmente nel medesimo modo, due rettangolini orizzontali;

questi ultimi hanno lato minore più piccolo del lato minore del rettangolino verticale centrale.

Si tratta di una tipologia di croce originale, attestata sin ora solo su questo menhir.

Il De Giorgi, come già ricordato, scriveva nel suo articolo sui menhir della Provincia di Lecce, in merito al Vicinanze I: “sulla faccia volta ad Est vi è graffita una croce.

Il De Giorgi parla solo di una croce sulla faccia levantina, mentre oggi se ne leggono due. Credo che tale anomalia, tra quanto riportato dallo studioso e quanto oggi osservabile, possa avere una delle due seguenti spiegazioni:

  • delle due croci molto vicine tra loro, una, quella che chiamiamo ‘piena’, spicca decisamente sull’altra; forse questo porto il De Giorgi a non accorgersi e a non registrare nei suoi appunti presi in loco, o a non ricordare in seguito nel momento della stesura dell’articolo, la presenza della seconda croce meno appariscente, quella ‘lineare’;

  • una delle due croci è stata forse eseguita successivamente alle osservazioni dello studioso, e in virtù delle ipotesi che faremo in seguito, credo debba ritenersi, in tal caso, preesistente la ‘croce piena’ 

Delle due ipotesi quella che ritengo più probabile è la prima, più coerente con la lettura complessiva della genesi dei due graffiti cruciformi che qui svilupperemo, e con l’antichità di molte delle croci che si osservano  sui menhir a p.s. ; si aggiunga anche che il De Giorgi, nei suoi studi sui menhir salentini, non si soffermò mai particolarmente sull’analisi dei petroglifi incisi sulle loro superfici, limitandosi solo a indicazioni, generalmente sommarie e indicative, sulla presenza di eventuali ed evidenti segni cruciformi, solo saltuariamente descritti con l’aggiunta di qualche osservazione.

 

Colpisce subito la differenza tipologica delle due croci, che però son incise con tratti forti e decisi, come se fossero state realizzate quasi dalla stessa mano, e son inoltre entrambe ‘croci latine’! [Si definisce ‘croce latina’, quella in cui il ramo inferiore è allungato; ‘croce greca’ quella in cui tutti e quattro i raggi della croce son uguali].

Non si comprende poi, neppure l’esigenza di rappresentare due croci, così diverse, tanto vicine tra loro, quando le facce del monolite, prive di segni cruciformi, per lo meno così decisi come questi, si presentavano atte, ad una più omogenea distribuzione delle due grandi croci!

Si aggiunga che il petroglifo della ‘croce piena’ con le modalità stilistiche che compaiono a Vicinanze, non si è riscontrato sin ora su nessun altro menhir, dove pure si trovano croci incise in varie e molteplici varietà (come elencheremo nello studio dedicato alle croci incise sui menhir), né ho sin ora osservato alcun motivo rupestre o altrove inciso, paragonabile a questo, con gambo continuo rettangolare e braccia formate da due altri rettangolini con margini graffiti, come per il rettangolino verticale centrale. Né la ‘croce piena’ di Vicinanze rientra in alcuna delle classiche e più note tipologie stilistiche di croce cristiana.

L’analisi della composizione delle due croci di Vicinanze I, suscita tanti interrogativi e perplessità cui possiamo dare le seguenti risposte chiarificatrici.

Le anomalie sin qui sottolineate, si spiegano, come esporrò, alla luce della seguente osservazione-ipotesi: le due croci incise sul menhir Vicinanze I, non rappresentano solo la cristianizzazione del menhir, ma anche e al contempo quella di un antico petroglifo, arcaico e ‘pagano’, integrato all’interno del petroglifo ‘croce piena’! 

Figura 47: Resa grafica del petroglifo rappresentante un menhir a p.s. in generale o il medesimo menhir Vicinanze I, riprodotto sullo stesso menhir, ed estrapolato dal petroglifo della ‘croce piena’, di cui costituisce il gambo centrale. Lo chiameremo ‘petroglifo betilico’.

Osservando attentamente quest’ultima, notiamo che le braccia laterali non intersecano l’asse centrale, palo della croce. Quest’ultimo poi in quanto di forma rettangolare, verticale e continuo ricorda immediatamente la sagoma dello stesso menhir, proprio come appare guardando frontalmente la faccia maggiore del megalite, dove le due croci son graffite.

Ricapitolando, l’ipotesi che qui propongo, è che quel rettangolo centrale sia un graffito già presente sul menhir prima dell’intervento cristianizzante, e della conversione in croce dello stesso petroglifo attraverso l’aggiunta delle braccia.

Il rettangolo verticale inciso rappresentava lo stesso menhir sul menhir, e fu graffito contemporaneamente all’elevazione del menhir o dopo, comunque sempre in seno alla cultura locale pre-cristiana, che riconosceva profondi valori religiosi ai menhir.

Il menhir è rappresentato in maniera molto semplice, bidimensionalmente e in vista frontale. Trattandosi di un rettangolino con lato maggiore verticale, è dunque un menhir a p.s., la stessa tipologia del menhir su cui è graffito, e qualora si trattasse proprio della rappresentazione dello stesso menhir Vicinanze I, come è molto plausibile, di quel monolite  l’antico incisore ha inteso rappresentare proprio la stessa faccia maggiore e principale, su cui è effigiato il graffito. Una raffigurazione stilizzata che ben si accorda all’antica arte megalitica e più in generale rupestre.   

La rappresentazione della stele sulla stessa stele (menhir), che può apparire un’azione poco comprensibile e inutilmente ridondante, nasconde invece profonde valenze religiose.

 

 

 Il menhir rappresentato sul menhir. Confronti con la civiltà punica.

  • Comprensione degli archetipi operanti nella raffigurazione del bethilos sul bethilos.

  • Il sacrificio umano nella Puglia antica.

La stessa usanza di rappresentare un bethilos su un bethilos, la si riscontra anche in altre culture che espressero il loro culto attraverso l’elevazioni di cippi sacri. Ad esempio presso le genti fenice, e dunque a Cartagine, nella Fenicia, nella Sardegna punica e in altre isole dominate da Cartagine, come nelle colonie puniche più in generale, si immolavano fanciulli alle divinità, in particolare alla divinità solare chiamata Baal-Ammon, o più genericamente Baal, principale divinità maschile, e, in misura minore, ad Astarte (la punica ‘Tanit’), principale divinità femminile.  I loro resti erano sepolti in aree chiamate ‘tophet’ (‘area sacra’), preposte ad accogliere nella terra i vasi fittili contenenti le ceneri delle vittime cremate, talvolta persino bruciate vive. Accanto all’urna cineraria, veniva eretta una stele, e se ne ritrovano talvolta a centinaia nei ‘tophet’. Il termine ‘molk-moloch’ inciso talvolta sulle stele, designava il sacrificio celebrato per il dio.

Alcune di queste stele avevano raffigurato sulla loro faccia principale in bassorilievo, semplici betili, cioè la sagoma di una colonnina o di un cippo.

Si trattava cioè di cippi raffigurati sugli stessi cippi!

L’ipotesi più accreditata, e in parte corretta, è che questi semplici petroglifi-betilici fossero rappresentazioni della divinità in maniera aniconica, cioè non figurativa, ma una loro piena comprensione non può aversi senza una approfondita conoscenza dei principi del culto betilico.

 

Nel “tophet” di Cartigine, vero e proprio cimitero per bambini sacrificati al dio Baal-Ammon, fra il 400 a.C. e il 200 a.C. fu deposta una quantità di urne che si stima in circa 20.000 unità. Queste urne contenevano le ossa calcinate di neonati e in qualche caso di feti o di bimbi attorno ai due anni.

Figura 48: Vista del tophet di Cartagine. Partendo dall’angolo destro inferiore della foto e proseguendo verso l’alto, il secondo pilastro che si incontra mostra scolpito al centro un pilastro, un colonnino.  Dalle due foto si comprende la grande varietà di forme e decori delle stele dei tophet.

Foto tratta da

 http://homepage.mac.com/melissaenderle/tunisia/carthage.html

Figura 49: Cippi monolitici proveniente dal tophet di Cartagine. Quello di maggiori dimensioni rettangolare e di piccolo spessore ha la faccia maggiore e principale scolpita; in particolare si osserva rappresentata al centro in altorilievo una generica stele a pilastrino squadrato, non dissimile da quelle reali, che si osservano di fronte ad esso nella foto.

Foto tratta da

 http://homepage.mac.com/melissaenderle/tunisia/carthage.html

In coerenza con la concettualità betilica, il menhir stesso ha tra i suoi molteplici e tra loro coerenti, valori semantici, quello di esser rappresentazione aniconica delle divinità.

Le stele rappresentate sui cippi fenici, non sempre riproducono il medesimo cippo su cui son rappresentate, ma un cippo o colonnino eventualmente di fattezza differenti, o addirittura il ‘triplo betilo’, sulla cui simbologia torneremo in seguito. É il concetto del bethilos a se, quello che si vuole rappresentare sulle stele puniche, cioè il concetto generale e idealizzato del cippo, nel suo valore semantico magico e religioso.

A Vicinanze, il bethilos-petroglifo rappresenta un menhir a p.s., effigiato su una pietrafitta della medesima tipologia. Data la diffusione della tipologia di menhir a p.s. nella cultura betilica salentina, è difficile stabilire se l’incisore abbia voluto rappresentare il medesimo menhir, o il concetto più generale di bethilos sul bethilos. Probabilmente entrambe le intenzioni operarono nella mente dell’“artista” (o forse uomo preposto al culto), sebbene a livelli di coscienza differenti.

Un processo psicologico a “circolo chiuso”, spiega il senso della rappresentazione semanticamente rafforzativa, del bethilos sul bethilos. Nel culto betilico, il bethilos è, religiosamente, sede del dio e diviene perciò raffigurazione del dio stesso. Per far sì che un bethilos fisico, reale, sia pervaso dallo spirito del dio, vi si rappresenta sopra l’icona del dio medesimo, lo stesso bethilos, sperando che il dio più facilmente riconosca la propria casa nel menhir, vedendo la sua rappresentazione aniconica sulla struttura lapidea, e vi si stabilisca o a livello magico per il potere attribuito alla raffigurazione artistica, la stessa rappresentazione dell’icona del dio sul cippo, garantisce la presenza in esso del divino spirito.  

 

Abbiamo effettuato questo confronto con la civiltà punica senza voler per questo stabilire influssi diretti, tra la Puglia e la civiltà fenicia. Lo stesso dicasi per il seguente confronto con la civiltà egizia. Indubbiamente contatti molteplici e frequenti con fenici e altre genti d’oriente vi furono nella Puglia antica, ma i confronti qui esposti, servono solo per far capire come, quella che io chiamo, la pugliese “religione dei menhir”, non sia avulsa dal contesto mediterraneo ed europeo, ma rappresenti una peculiare forma assunta in questa terra, protesa tra occidente e oriente, del più generale e universalmente diffuso culto betilico. Evoluzione locale manifestata dalla forte tipicità tipologica del menhir a pilastro squadrato, particolarmente diffuso nel Salento e della quale sarà interessante ricercare i fattori culturali, tecnici e legati alle disponibilità materiche del territorio, ricco di differenti varietà di roccia calcarea, che modellarono la “forma”, assunta in Puglia dal “culto betilico”.

 

Il sacrificio umano nella Puglia antica.

La pratica del sacrificio umano (legata spesso al culto della stele, come facilmente comprensibile presso le genti puniche), era diffusissima in Europa e nel Mediterraneo in epoca protostorica e in alcune aree continuo ad esser praticata fino alla definitiva diffusione del cristianesimo. In Puglia è attestata con certezza nella Daunia, come si deduce da alcune scene scolpite sulle locali stele daune della prima età del ferro. Ma, medesime pratiche interessarono anche il resto della Puglia e la sua propaggine meridionale, il Salento, e anche qui in relazione al locale culto dei menhir; queste recenti scoperte, frutto sempre dei miei studi, saranno ampiamente esposte in un mio intervento monografico.  Sempre in un altro scritto, spiegherò, alla luce degli archetipi del “culto betilico”, le ragioni per cui la stele è collegata alla pratica del sacrificio di animali in generale e a quella del sacrificio umano più in particolare.

 

  Il menhir rappresentato sul menhir. Confronti con la civiltà egizia.

  • Similitudini tra obelischi egizi e menhir a pilastro squadrato salentini.

Rappresentazioni di un bethilos sullo stesso bethilos, si hanno anche sui più noti monoliti megalitici egizi, gli obelischi. Questi hanno quattro facce lisce come i menhir a p.s. salentini e sono caratterizzati da sezione quadrata, facce verticali o rastremate verso l’alto, soprattutto nei più grandi, e piramidetta in testa, il cosiddetto piramidone. Furono eretti in tutta la storia antica dell’Egitto, con certezza, almeno a partire dal III millennio a.C., fino all’epoca della dominazione romana.

Nelle iscrizioni geroglifiche, che spesso adornano le loro superfici, ritroviamo frequentemente, proprio il geroglifico dell’obelisco. Questo rappresenta un piccolo obelisco in maniera bidimensionale e frontale, generalmente con un quadrato per la base, un rettangolo verticale per il fusto, e un triangolo in sommità per rappresentare il piramidone. Il suo valore semantico è l’obelisco medesimo su cui è effigiato o un qualsiasi altro obelisco, questo a seconda del senso della frase geroglifica in cui è inserito. Dunque anche qui il petroglifo-bethilos rappresentato su un bethilos, può rappresentare il medesimo o un altro qualsiasi bethilos.

Le iscrizioni geroglifiche che spesso adornavano gli obelischi regali egizi, esprimevano la dedica del megalite al dio sole, e la erezione dello stesso per volontà del faraone, per glorificare la propria grandezza, o commemorarne le gesta, compiute sempre grazie al favore delle divinità solari sue protettrici e delle quali era anche ritenuto egli stesso, terrena incarnazione.

L’obelisco egizio come il menhir salentino, appartengono alla stessa categoria simbolica e monumentale, quella del “sacro bethilos”. E così come talvolta i menhir salentini son correlati a tombe o piccole necropoli, così anche in Egitto si ritrovano, oltre agli obelischi dei santuari, spesso di grandi dimensioni, obelischi minori collocati davanti alle tombe; si parla in questo caso di obelischi di piccole dimensioni o di monumenti obeliscoidi.

Come ricaviamo da dati archeologici e soprattutto dalla traduzione dei testi geroglifici, la principale divinità connessa all’erezione degli obelischi egizi era Ra, dio del sole, e proprio il legame con il Sole dei menhir salentini è uno degli elementi, che attraverso questo studio sul Vicinanze I, in maniera molto forte è stato riscontrato, confermando così quelle previsioni, che sempre in base ai principi della religiosità betilica, già avevamo dedotto.

Così come i menhir a p. s., anche gli obelischi erano orientati e posizionati con molta precisione in punti prestabiliti, in relazione al moto apparente dal sole, in modo da far sì che in momenti importanti dell’anno, questo sorgesse o tramontasse, se osservato da speciali e significative posizioni nelle aree santuario in cui erano collocati, passando al di sopra dell’obelisco o al suo fianco; aspetti analoghi a quanto stiamo scoprendo per i menhir salentini a p. s..  

Figura 50: Foto del grande obelisco ancora in piedi nella città di Luxor, in Egitto, che traduce suggestivamente,  l’archetipo del bethilos come raggio di luce che unisce il mondo celeste al mondo terrestre e ctonio, degli inferi.

Foto tratta da: www.touregyptphotos.com

Aggiungo che nelle iscrizioni geroglifiche egizie, degli obelischi si esaltava la loro monoliticità, aspetto che assume spesso grande importanza simbolica nel culto betilico, e che è rispettato anche nella cultura megalitica salentina.

Ma elemento qui ancor di più forte rilevanza, che non posso tralasciare, è il legame simbolico dell’obelisco egizio con i raggi del sole.

Il grande scrittore latino Plinio il Vecchio, vissuto tra il 73 e il 29 d. C., nella sua opera enciclopedica intitolata ‘Storia Naturale’, riferisce (36,14), che gli obelischi simboleggiavano i raggi del sole.

Non solo da iscrizioni geroglifiche sappiamo che durante la breve riforma religiosa di Akhenaton, prima accennata, quando alla venerazione del dio sole Amon-Ra, si sostituì quella del dio sole Aton, si diceva che l’obelisco fosse un raggio di sole pietrificato uscente dal disco solare, chiamato proprio Aton e massima rappresentazione del dio omonimo.

Tutto questo esalta ancor più l’importanza delle scoperte fatte a Vicinanze, dove raggi di sole son effigiati proprio sul menhir, e ‘illumina’, è il caso di dire, sugli archetipi stessi della concettualità betilica.

 

Il menhir come rappresentazione aniconica del dio

  • Esempi presso i nabatei, i fenici, gli antichi egizi e gli israeliti.

 Presso i nabatei.

Considerazioni sulla destinazione di bacinelle, coppelle, canalette e fori scavati ai piedi e in testa ai menhir salentini.

Considerazioni sul legame menhir-grotta.

Ulteriori esempi, oltre a quello punico, della raffigurazione del dio in forma betilica, si hanno considerando la cultura dei nabatei, antica popolazione dell’Arabia settentrionale. Capitale del regno nabateo tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C., fu una città posta nella regione della Giordania, caratterizzata dal fatto di esser stata interamente scavata nella roccia, tanto che i greci la battezzarono Petra, cioè “città di pietra”. Nella capitale nabatea, si osservano numerose rappresentazioni di betili a p.s. o obeliscoidi, scolpiti sulle pareti rocciose; sono rappresentazioni aniconiche di divinità nabatee, in particolare del dio Dusares, principale divinità maschile del pantheon nabateo. La corrispondente massima divinità femminile era  Al-Uzza.

I nabatei svilupparono un forte culto betilico, tanto che nei luoghi di valenza cultuale della città di Petra, templi, santuari e aree funerarie, oltre ai bethilos raffigurati sulle pareti rocciose, vi si erano stati eretti molti altri cippi o pietre sacre.

Spiccavano tra tutti i betili della città, due obelischi alti ciascuno 6 metri e ricavati scavando tutto intorno a loro, la montagna. Sorgono a 30 metri di distanza l’uno dall’altro in un’area chiamata Djebel al-Madhbah (letteralmente “Posto Alto del Sacrificio”), sulla colina di Attuf. Là, in correlazione a quelli obelischi, i nabatei compivano i loro sacrifici rituali, in accordo con il legame, che nel culto betilico, si osserva tra menhir e sacrifici.

Figura 51: Uno dei due obelischi di Petra,  situati sulla collina di Attuf, nel Djebel al-Madhbah.

Nel sito di Djebel al-Madhbah, si osservano bacinelle e canalette scavate nella roccia; servivano per raccogliere il sangue delle creature immolate. Il ritrovamento di alcune bacinelle e canalette ai piedi di alcuni menhir salentini, tra cui lo stesso Vicinanze I, conferma l’esistenza di pratiche di sacrificio anche nella ritualità che coinvolgeva le pietrefitte salentine, il tutto coerentemente con la religiosità betilica. Vedi anche a tal proposito la mia monografia “Antichi sacrifici all’ombra dei menhir ”.

Quei due grandi obelischi del Djebel al-Madhbah son ritenuti monumenti votivi dedicati alle due più importanti divinità nabatee, Dusares e Al-Uzza, e molto probabilmente erano identificati con le divinità stesse, o con la loro dimora terrena, motivo per cui i sacrifici, che lì si svolgevano, era celebrati anche in loro onore. Ma lo scopo profondo di quei riti, come in generale di ogni rito betilico, era propiziare la fertilità, cui si legava la duale coppia divina, Dusares e Al-Uzza, infatti Al-Uzza, femminile dea della Luna, era invocata dalla popolazione, come la guardiana della prosperità e della fertilità.

Osserviamo infine che la regione di Petra, prima dell’occupazione degli arabi nabatei, era abitata nel XIII secolo a.C.  da genti semitiche, lo stesso gruppo etnico, cui appartenevano i cananei (fenici) e le tribù israelitiche. La regione di Petra era chiamata nella Bibbia, Shera o Seir, e lì già gli elamiti, veneravano un dio, certamente solare, appellato “Dhu-esh-Shera”, letteralmente, il “Signore di Shera”. I nabatei, conquistata la regione di Seir, mantennero la venerazione della locale divinità, deformando nel nabateo Dusares, l’antico titolo divino Dhu-esh-Shera.

I cananei e le tribù nomadi arabe erano solite sacrificare animali su grandi rocce erette verticalmente, preferibilmente in luoghi elevati. Qui versavano il sangue delle vittime sulla stessa pietra o in piccoli fori vicino a questa.

Queste pratiche permettono di far ulteriormente comprendere la destinazione di fori, scavi, bacinelle, e canalette riscontrabili in siti pugliesi di tradizione megalitica, come anche ai piedi dei menhir salentini. Non solo anche le  stessa bacinelle, coppelle, fori e canalette scavate nella parte sommitale, non a caso piatta dei menhir a p.s. salentini, possono trovare lettura in tal senso. A questo argomento dedicherò presto uno studio più esteso e documentato.

 

Considerazioni sul legame menhir-grotta

Un elemento interessante della città di Petra è l’intima correlazione che si riscontra tra bethilos e santuari, templi e luoghi di sepoltura scavati interamente nella roccia. Benché motivazioni culturali, economiche, storiche e geografiche, spieghino la realtà rupestre della capitale nabatea, non possiamo non sottolineare come la correlazione bethilos-ipogeo, che ritroviamo frequentissima anche nel Salento, abbia le sue radici più profonde negli archetipi stessi della concettualità betilica. 

 

Figura 52: Petra, sepolcro ipogeo scavato nel monte, noto come  “Tomba dell’Obelisco”. É così chiamato per via della presenza di grandi betili obeliscoidi scolpiti in altorilievo sulla parete esterna  del colle in cui si apre l’ingresso del sepolcro ed è scolpita la facciata dello stesso.

Si noti l’intima correlazione tra bethilos ed ipogeo.

 

Foto tratta da www.shieldsaroundtheworld.com

 

Di questi aspetti tratterò più approfonditamente analizzando il legame bethilos-grotta, che ha caratterizzato la civiltà salentina da epoche arcaiche, sin quasi all’età moderna.

 

Presso i fenici.

La principale divinità maschile fenicia era Baal, mentre la principale divinità femminile, dea dell’amore e della fertilità, era Astarte (corrispondente alla punica Tanit).

 Baal  simboleggiava il principio maschile in tutti i suoi aspetti, così come Astarte rappresentava quello femminile; insieme costituivano la divina coppia fenicia.

Nelle vicinanze degli altari dedicati al dio Baal,  venivano spesso erette colonne sacre, rappresentazioni aniconica del dio.

 

Presso gli antichi egizi.

L’identificazione del bethilos con la divinità stessa o con la sede della divinità, appare anche ancor più evidente nel pensiero teologico egizio.

Si credeva infatti, come si deduce da iscrizioni egizie, che il dio sole stesso, Ra (o ‘Amon-Ra’) esistesse all'interno della struttura monolitica, che pertanto ne diveniva sua stessa rappresentazione e simbolo.

Per questo motivo anche, ai piedi degli obelischi egizi si offrivano al dio offerte e doni devozionali, e si versavano libagioni; anche in questo caso il tutto doviziosamente narrato da testi geroglifici e confermato da scavi archeologici.

 

Presso gli israeliti.

Nella Bibbia, sacro testo delle genti ebraiche, si legge nel libro della Genesi (Genesi 28,22), <<questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio>>. A parlare è Giacobbe, chiamato anche Israele, nipote del patriarca capostipite del popolo ebraico, Abramo (1850 ca. a. C.). Giacobbe chiamò il luogo in cui eresse la stele, e probabilmente la stele stessa, “Betel” (Genesi 28,19). Betel deriva dall’ebraico Bet-El, che significa letteralmente “la casa(bet) di Dio(El)”. Questo passo vetero testamentale, mostra come il culto megalitico della sacra stele fosse presente in antichità, anche presso gli israeliti. Dal breve passo si deduce anche, come per questa cultura, la stele sacra era ritenuta casa della divinità, e conseguentemente identificata con la divinità stessa. Ecco perchè era anche fatta oggetto di attenzioni rituali, quali quella di ungerla d’olio; come si racconta nella Bibbia, sempre a proposito del cippo eretto da Giacobbe, <<egli eresse la pietra come stele e versò dell'olio sulla sua sommità>> (Genesi 28, 18).

Il termine grecizzato bethilos, italianizzato in betilo , che usiamo generalmente come sinonimo di menhir, deriva proprio dall’ebraico nome della sacra stele di Giacobbe, Betel, e contiene nella sua etimologia, proprio il concetto dell’identificazione della stele con la dimora terrena della divinità, con lo scrigno dello spirito divino, e di conseguenza con la divinità stessa.

 

Il menhir rappresentato sul menhir. Confronti con la civiltà dei templi maltese.

La raffigurazione del menhir sul menhir osservata a Giurdignano, permette un parallelismo ulteriore con quelle che a volte vengono interpretate come ‘firme dell’architetto’, ovvero le rappresentazione graffite su un monumento o costruzione architettonica, della stessa opera, come appariva agli occhi degli artisti incisori.

Forse opera degli operai che lavorarono all’edificazione del progetto, o dei progettisti e direttori dei lavori, o opere successive alla costruzione, realizzate da viaggiatori, pellegrini, o frequentatori di quei siti, questi graffiti, nascondono certamente umane esigenze artistico-psicologiche e profonde valenze magico-religiose.

Il paragone che qui facciamo è con un’incisione di arte megalitica, che si osserva a Malta nel tempio neolitico/eneolitico di Mnajdra, la cui costruzione risalirebbe prevalentemente all’epoca compresa tra il 3000 a. C. e il 2500 a. C. (epoca detta, per la cultura maltese della ‘civiltà dei templi di pietra’,  ‘periodo di Tarxien’).

 

Figura 53:

Mnajdra, ingresso sud del tempio. Prospetto esterno.

 

Foto tratta da www.megalithic.co.uk

Figura 54:

Petroglifo nel tempio di Mnajdra, raffigurante il prospetto esterno originario dello stesso luogo sacro, ormai da molti secoli danneggiato.

Foto tratta da www.megalithic.co.uk

Si tratta di un petroglifo che riproduce il prospetto del tempio stesso sulle cui pietre è stato segnato. Il graffito ci trasmette come in una foto millenaria l’originario fronte esterno del tempio, permettendoci una ricostruzione virtuale dello stesso sulla base di quanto ancor oggi ancora in piedi.

 

Conclusioni sulla serie di confronti effettuati con altre civiltà mediterranea antiche
Ora, dopo aver fatto notare come la riproduzione di un menhir sullo stesso menhir, trova parallelismi in antichi culti betilici praticati da civiltà mediterranee, quali quella fenicia o quella egizia, e dopo aver ritrovato a Malta, petroglifi di ‘arte megalitica’, rappresentanti la medesima costruzione megalitica su cui sono incisi, l’arcaico graffito rettangolare estrapolato dalla composizione di croci di Vicinanze, appare meno ‘esotico’ e più comprensibile.

Cristianizzazione del menhir Vicinanze I e del suo pagano petroglifo

  • Alcune osservazioni sulla “cristianizzazione”

Vediamo ora come sulla base dell’ipotesi fatta, in merito all’esistenza di un arcaico petroglifo poi cristianizzato, le perplessità e le anomalie che il complesso di croci di Vicinanze suscitava, vengono meno.

In epoca cristiana, al fine di cristianizzare il menhir, si decise di incidere una grande ‘croce latina lineare’ su una delle facce maggiori, che son le facce più rilevanti del menhir.

Si optò allora di inciderla sulla faccia rivolta ad Est, per i seguenti motivi:

  • questa faccia era rivolta verso l’incrocio, punto di maggiore transito, a pochi metri dal quale il menhir sorgeva;

  • questa faccia era rivolta verso l’oriente, direzione di massima valenza simbolica sia per le locali religioni pagane pre-cristiane, sia per la religione cristiana;

  • su questa faccia, forse prescelta tra le due maggiori, anche sotto l’influsso delle medesime ragioni sopra esposte, era già stato inciso in antichità il ‘petroglifo betilico’, che poiché simbolo di una religione pagana si voleva cristianizzare insieme al menhir.

  • non solo, aggiungiamo che su questa faccia vi erano le tracce dell’antica semi-raggiera, che la qualificavano inequivocabilmente, all’occhio del cristiano, quale faccia principale del monumento. Apporre la croce su quella superficie, permetteva di cristianizzare non solo il menhir, ma anche il petroglifo rettangolare e tutto l’impianto decorativo megalitico lì presente. La semi-raggiera, non rappresentava comunque, alcun ostacolo simbolico al progetto di coinvolgimento della pietrafitta, venerata probabilmente ancora dai locali nei secoli dell’evangelizzazione di questa terra, nella nuova fede della croce, anzi essa ben si accordava alla nuova confessione, data l’ampia presenza del motivo della luce nell’iconografia sacra e nel pensiero teologico del cristianesimo. Rispetto alla semi-raggiera pertanto, più bisognoso di ‘cristianizzazione’, doveva apparire proprio il graffito del rettangolino.

La fortissima vicinanza della ‘croce lineare’, al rettangolo betilico, e la sua unicità come croce lineare sull’ampia superficie, testimoniano questo duplice intento: cristianizzare il menhir, apponendo la croce sulle sue superfici litiche, cristianizzare l’antico graffito betilico ponendo la croce nelle sue immediate vicinanze.

Se il petroglifo rettangolare, non fu scalpellato e distrutto, questo si deve al fatto che esso è ‘abbastanza anonimo’, tale da non risultare blasfemo per il culto cristiano; una semplice figura geometrica, un rettangolo, la cui valenza betilica forse non fu neppure consciamente colta all’epoca della cristianizzazione, ma che, poiché di arcaica età e posto su una pietra di origine pagana, venne comunque ritenuto simbolo pagano da cristianizzare.

 

Alcune osservazioni sul processo di “cristianizzazione”.

 

Le croci lineari son una delle più diffuse tipologia di croci graffite sui menhir salentini.

La cristianizzazione dei menhir con croci, è una pratica abbastanza frequente e diffusa, testimoniata dal ritrovamento di croci incise su menhir maltesi, francesi e pugliesi.

La cristianizzazione di petroglifi rupestri è attestata dalla frequentissima presenza di croci incise in età sempre cristiana, e in luoghi in cui si diffuse il cristianesimo, su pareti rocciose o pietre decorate con coppelle o altri graffiti rupestri pre-cristiani. Significativo è, in questo contesto, citare la cristianizzazione subita dal complesso di petroglifi della località Plas, in Val Camonica, a cui si è accennato nei paragrafi precedenti per la presenza di un petroglifo del sole con semiraggiera uscente. Lì proprio come sul Vicinanze I, fu incisa una croce latina lineare, alta circa 14 cm, sulla stessa parete rocciosa che ospitava gli antichi graffiti. La croce latina lineare del Vicinanze I è alta circa 17 cm.   

Il processo di cristianizzazione di monumenti o aree pagane dalla forte sacralità e dei loro simboli, attraverso l’incisione di croci, è un processo che può esser compiuto dal cristiano, o per esplicita intenzione evangelizzante o inconsciamente. In quest’ultimo caso, mosso dalla percezione della sacralità del sito, della struttura o del particolare motivo decorativo pagano, insorge in lui la volontà di partecipare a quell’atmosfera “religiosa” attraverso i simboli della religione che conosce, come la croce, che appone in quel luogo credendo così di poterne ricavare benessere.

Ecco perché non tutte le croci che ritroviamo sui menhir salentini, risalgono ai primi secoli del cristianesimo, ma se ne trovano, a volte anche sullo stesso menhir, molte di diversa tipologia e risalenti ad epoche differenti. Ad esempio, sul menhir a p. s. noto come Sant’Antonio, in agro di Muro Leccese, ho osservato (in data13/marzo/2006 ) una piccola croce che è stata molto debolmente graffita, solo pochissimi anni addietro, come rivela il colore della pietra, non intaccata ancora da licheni, in corrispondenza del tratto inciso, (è ubicata nella porzione medio-bassa della faccia settentrionale del menhir). [Rimando per un approfondimento alla monografia che dedicherò ai petroglifi cruciformi, che si osservano sui megaliti pugliesi].

Croci graffite accanto a coppelle.  Probabilmente le croci furono incise con lo scopo di cristianizzare i luoghi e le rocce, ritenuti sede di antichi culti pagani, come coppelle e altri petroglifi lasciavano credere o attestavano, ma anche per cristianizzare gli stessi motivi graffiti.

Foto relativa a coppelle e croci rupestri ritrovate a  Premana (Sondrio), in località "Piode dal Croos", a circa 1400 m. di quota, nell'Alta Val Varrone.

Foto tratta da http://ics.pre mana.lc.it/incisioni_rupestri1.htm

Figura 55

Dopo questa prima fase di cristianizzazione del menhir Vicinanze I, si decise di rafforzare ulteriormente l’opera. Il confronto tra la verticalità del rettangolo e quello del palo centrale della croce, suggerito ancor più dalla vicinanza della croce lineare incisa, porto l’incisore cristiano, forse lo stesso esecutore della ‘croce lineare’, come la similitudine dei tratti lascia pensare, ad integrare in una croce il petroglifo betilico, incidendo due rettangolini sui lati a mo’ di braccia.

 

Ipotesi di evoluzione storica dei petroglifi cruciformi incisi sul menhir Vicinanze I,

sulla sua faccia maggiore rivolta ad Est

Periodo arcaico

Periodo cristiano

Prima fase di

cristianizzazione

 

Seconda fase di cristianizzazione

Figura 56: Graffito riproducente il menhir sullo stesso menhir.

Figura 57: Graffito di croce latina aggiunto per cristianizzare il menhir e l’antico petroglifo, come la vicinanza a quest’ultimo testimonia.

Figura 58: Conversione in croce dell’antico petroglifo, attraverso l’incisione delle braccia.

Probabilmente l’incisore ricalco i nuovi e i vecchi tratti del nuovo petroglifo composto (‘croce piena’), in modo da farlo apparire tutto contemporaneo, e per eliminare alcune differenze di tratto, tra il vecchio graffito e il nuovo.

Nonostante tutto colpisce il fatto che l’incisore non abbia alterato la continuità del rettangolo centrale, intersecandolo con le linee delle braccia laterali!

Lo stesso rispetto, che per alcuni menhir a p.s., fu manifestato dai cristiani salentini, lo ritroviamo espresso anche per il petroglifo, che li rappresenta. E come le pietrefitte furono convertite in colonne votive cristiane, talvolta con una croce posta in testa (‘sannà’ o ‘pasca sannai’ o ‘osanna’ son i nomi con cui son chiamate frequentemente queste colonne devozionali cristiane, nel vernacolo locale), così il petroglifo del menhir effigiato sul menhir, fu qui convertito in croce, tutto coerentemente col nome dialettale “cruci” (in italiano “croci”), con cui i menhir son spessissimo chiamati nel Salento. [Un altro nome diffuso, nel vernacolo locale, per indicare le pietrefitte, è “culonne”, (in italiano “colonne”)].

La conservazione della continuità del rettangolino verticale, non intersecato dagli assi delle braccia laterali della “croce piena”, sottintende il rispetto e la volontà di mantenere inalterata la verticalità e la continuità(=monoliticità) della pietrafitta, che son i due elementi essenziale di ogni bethilos-menhir (come meglio approfondiremo nella mia monografia sul culto betilico). Questo agire dell’incisore fu guidato dal suo estro artistico, ma inconsciamente in lui operarono, condizionando le sue scelte creative, quelli archetipi che riconoscono le valenze simboliche del petroglifo betilico, come di ogni bethilos, e che hanno la loro ragion d’essere proprio nella monoliticità-continuità della pietra e nella sua verticalità. Continuità e verticalità che devono essere conservate nell’opera di conversione di quel simbolo universale che il bethilos-menhir, nel nuovo bethilos cristiano per eccellenza, la croce.

L’assimilazione dei menhir nel culto cristiano, attraverso la loro conversione in ‘croci’ (‘sannà’), avviene dunque anch’essa con le medesime istanze e con dinamiche analoghe, in parte cosce e in parte inconsce, proprio come accaduto per la conversione in croce del petroglifo betilico di Vicinanze.

Ricapitolando, la verticalità e continuità del petroglifo, non a caso conservata e la verticalità e monoliticità(=continuità) stessa dei menhir, son quelli elementi essenziali che permisero la conversione in croce cristiana, tanto del petroglifo betilico quanto più in generale dei menhir.

La verticalità è infatti propria del palo della croce di Cristo, come di ogni bethilos, e i due simboli bethilos e croce condividono inconsciamente i medesimi archetipi, condizione questa indispensabile perchè si possa passare, come di fatto è avvenuto, da uno all’altro con continuità, nel passaggio dalla religione pagana a quella cristiana, senza che la transizione provocasse una insanabile cesura, tale da comportare l’abbattimento di tutti i precedenti menhir pagani.

L’aniconicità di molti menhir, poi, fu un elemento importante, perchè si potesse procedere all’assimilazione di questi nel nuovo culto. Stele con iscrizioni, cippi con statue o teste di divinità scolpite in sommità (le erma), più facilmente riconoscibili come espressioni palesi di culti pagani, subirono una sorte peggiore di tanti menhir, e furono in larga parte abbattuti e distrutti nei secoli del cristianesimo.

 

Interpretazione dell’arcaico impianto decorativo della faccia rivolta ad oriente del menhir Vicinanze I.

  • La simbologia planetaria come chiave di iniziale approfondimento del significato della coppella nell’arte rupestre e megalitica.

  • Note ulteriori sui principi del culto betilico.

La rappresentazione schematica di raggi di luce solare sulle superfici del menhir, orienta verso la corretta interpretazione delle micro-coppelle e coppelle  rappresentate sulle superfici verticali delle pietrefitte salentine e non solo, e permette una comprensione più generale di uno dei valori semantici della coppella dell’arte rupestre e megalitica.

La rappresentazione del Sole con il petroglifo dell’“occhio del menhir”, o con il motivo del raggio di luce, esprime un rito magico volto a far sì che il dio del cielo e dio del sole inondi di luce la pietra, la riscaldi col suo calore, e infondi della sua energia e del suo spirito la pietra stessa, e pertanto trasmigri esso stesso in essa, trasformandola nella sua casa, ed identificandosi in ultima analisi con il medesimo blocco litico, secondo una concettualità “magica” (a livello psicologico diremo “associativa”), tipica del culto betilico, e che si è evidenziata nella religione nabatea, ebraica ed egizia, dove maggiori fondi documentarie ci hanno permesso di penetrare nel pensiero religioso di quelle culture orientali elevatrici di stele e obelischi. E l’obelisco altri non è che una particolare tipologia di menhir, ma proprio l’uso di una terminologia differente, necessaria per distinguere il bethilos monolitico europeo, il menhir, da quello orientale per antonomasia, l’obelisco, ha tenuto lontano da un serio e fecondo confronto tra i due, che per lo meno nella terra salentina, protesa tra oriente ed occidente, doveva esser fatto!

Il contatto del menhir con il dio del sole e dunque anche dio del cielo, viene ulteriormente propiziato rappresentando il cielo stesso sul menhir. Le coppelle cioè altri non sono che rappresentazioni degli astri del firmamento. Si era già intuita la loro possibile simbologia planetaria, ma alla luce della comprensione del culto betilico, essa trova più forti conferme. Così laddove si scolpiva il motivo della coppella, su rocce di valenze sacra, su menhir, o su pietre di aree templari, quel petroglifo rappresentando gli astri, propiziava la discesa dell’energia e del divino spirito celeste in quelle pietre o in quelle aree sacre.

I meccanismi psicologici di pensiero magico, che spiegano ciò, son gli stessi che portano il fedele ad identificare un’immagine o scultura della divinità, con la divinità stessa. Questo era particolarmente evidente ad esempio, in Mesopotamia, dove il simulacro del dio veniva riverito, ossequiato e servito come vera e propria divinità in terra. Plasmare la materia di una statua con le fattezza credute di una divinità permette di ritenere la divinità stessa magicamente presente nel simulacro, ed è questo un  atteggiamento psicologico connaturato ad ogni pensiero religioso per lo meno nella sua espressione popolare e spontanea.

Permettono il magico passaggio dello spirito del cielo nel menhir:

il contatto con il calore e la luce emessi dal Sole, dalla Luna e dagli altri astri, questo spiega il perchè dell’orientazione delle facce maggiori dei menhir a p.s., affacciate Est-Ovest; nel loro moto giornaliero, il Sole, la Luna e i pianeti, gli astri quindi dai quali irradia la maggior parte della luce celeste che giunge sulla terra, sorgono grossomodo ad oriente e tramontano ad occidente. La speciale orientazione dei menhir a p.s. massimizza la loro esposizione a questa luce, e incrementa pertanto il loro “contatto” con lo spirito celeste che infonde dal cielo, e che è di primaria importanza nella concettualità betilica.

La verticalità del bethilos lo avvicina idealmente al cielo e favorisce il contatto con l’aria, che è l’elemento attraverso cui si diffondono i raggi luminosi e muove dunque lo stesso spirito divino, motivo per cui anche l’impalpabile aria finisce per divenire, nel pensiero “associativo”, essa stesso spirito divino, tale ad esempio è considerato il vento, nella religiosità precristiana, che diviene manifestazione dai visibili effetti, dello spirito celeste.

 La possibilità di queste osservazioni e deduzione si fonda tanto sullo studio di culti betilici, che ci son stati meglio documentati, tanto da osservazioni archeologiche, che abbiamo potuto far in territorio pugliese, tanto dalla conoscenza dei meccanismi di ragionamento archetipici della mente umana, che ne caratterizzano il pensiero magico-religioso e la sua espressione cultuale e rituale.

Le coppelle si ritrovano tanto sulla faccia  maggiore del Vicinanze I, esposta a oriente, quanto su quella esposta a occidente, coerentemente ad una propiziazione del contatto del betilo con il cielo. Tale propiziazione magica par però essere più intensamente ricercata, nella faccia orientale, dove ritroviamo la raffigurazione dei raggi del Sole e quella dello stesso menhir.

L’oriente individua la direzione più importante relativamente al Sole. Ad oriente il Sole nasce ogni giorno, per  crescere in potenza ed energia durante il dì. L’Est individua la direzione della massima simbologia religiosa relativamente al bene e dunque alla vita, che per l’uomo è inscindibili dalla potenza del Sole.

Anche nel cristianesimo, come forse in tutte le religioni pagane, tale direzione conserva la massima importanza nella teologia, nei riti e nelle stesse chiese che guardano spesso ad oriente.

Per propiziar allora subito il contatto del Sole con il menhir, appena il lucente astro sorge ad oriente, sì da assicurane tale contatto durante l’intero suo moto diurno apparente, si è posto il massimo impegno nella decorazione magica della faccia esposta ad oriente.

Ora, sulla faccia orientale del menhir Vicinanze I, non solo si rappresenta il Sole attraverso i suoi raggi, ma anche più in generale il cielo punteggiato di stelle e altri corpi celesti. Nel cielo rappresentato sulla faccia del menhir si espandono i raggi del Sole, e mentre alcuni irradiano in alto e permeano l’aria, altri scendono verso il basso verso la terra, verso il menhir! Qui infatti, più in basso sempre sulla superficie lapidea, troviamo la rappresentazione della medesima pietrafitta, nell’antico petroglifo-betilico.

E anche questa rappresentazione, su cui tanto abbiamo dissertato, ben si lega, come abbiamo visto, ai medesimi fini magici di tutto l’impianto decorativo.

Sul petroglifo-betilico è rappresentato dunque il cielo, con le stelle (microcoppelle), e con i raggi del Sole, che si spandono in ogni direzione nello spazio celeste e  scendono persino in basso dove è il menhir. Una raffigurazione schematica, bidimensionale, ma molto realistica.

 

Figura 59: Resa grafica schematica dell’impianto decorativo della faccia orientale del menhir Vicinanze I, sovrapposta alla foto del  menhir stesso. La rappresentazione della semi-raggiera e della distribuzione delle coppelle ha qui mero valore illustrativo, per una migliore definizione delle caratteristiche della semiraggiera o della distribuzione delle micro-coppelle si rimanda a quanto sopra riportato. 

 

Siamo partiti dall’interpretazione effettuata separatamente, di ogni elemento decorativo, microcoppelle, raggi, segni cruciformi. Per avanzare delle ipotesi plausibili in merito al loro significato, ci siamo attenuti a quelli che sono i principi e i presupposti del culto betilico, dato che li si è supposti decori-magici megalitici, incisi proprio su un bethilos.

Nella rilettura generale di tutto l’impianto decorativo della faccia orientale del menhir Vicinanze I, tutte le interpretazione fatte si son mostrate profondamente inter-relazionate tra loro e perfettamente coerenti con la simbologia e il pensiero magico-religioso betilico.

 

Ma si potrebbe dire manca la rappresentazione della terra sotto i piedi del menhir, e invece questa è presente, è onnipresente in tutta la raffigurazione, è la roccia su cui tutto questo è rappresentato, è la pietra del menhir, legata indissolubilmente alla terra da cui è stata estratta e in cui ancora la sua base è infissa. La Terra, la Madre Terra, la Dea Mater. 

 Ecco perché quando con molta superficialità, si dice che il bethilos è mera rappresentazione aniconica di un dio, in realtà si sta dicendo solo una parte della verità. Nel bethilos c’è l’unione di due divinità, della coppia cosmica Terra-Cielo, unione feconda, che  irradia tutt’attorno la sua vitale energia, permettendo l’infinito ciclo di morte e rinascita, che assicura la rigenerazione e l’immortalità della vita stessa, tutto questo sempre nella profonda concettualità inconscia, archetipica, dell’uomo.

 Culturalmente, in epoche e luoghi diversi, possiamo trovare religioni in cui si esalta del bethilos ora l’aspetto femminile, ora quello maschile, ma archetipicamente, il bethilos è l’unione dei due opposti, del maschile e del femminile, del cielo e della terra, della luce celeste e del buio del mondo infero, ctonio, della Dea Mater e del Dio del Cielo (e al contempo dio del Sole, massimo astro celeste).   In esso si realizza il matrimonio sacro, l’unione sessuale e la fusione del maschile e del femminile, la ricomposizione di ciò che è diviso, che l’uomo sa, o crede, essere punto di partenza per la creazione di nuova vita. Nel bethilos, e dunque nel menhir, la dialettica degli opposti, essenziale perchè l’uomo possa vivere e operare nella realtà, trova la sua sintesi e un universo dicotomico riscopre la sua intima unità.

Ecco perchè, come meglio approfondirò presto, sui menhir salentini spesso troviamo, a volte sulla stessa pietrafitta, tanto simboli del femminile, quanto del maschile.

Ecco anche perchè, dall’originario menhir aniconico,  poté svilupparsi la coppia maschio-femmina delle stele antropomorfe calcolitiche, ritrovate anche in Puglia. In età del rame, infatti, originate dagli arcaici menhir neolitici, cominciano a comparire stele antropomorfe ora con fattezza femminili, ora con fattezze maschili, ed i presupposti di questa diversificazione sessuale della stele, sono presenti nella natura duale del bethilos.

Presso gli antichi greci, e non solo, spesso tanto divinità lunari femminili, quanto divinità maschili, furono venerate separatamente, attraverso simulacri aniconici, betilici. Scavando però in quei culti e nei loro rituali, ricostruiti dall’archeologia o narrati da antiche fonti testuali o figurative, si possono ritrovare quei simboli, a volte semplici gesti, invocazioni ecc, in cui l’elemento complementare ricompare, e il bethilos si palesa nuovamente come sede non di una sola divinità, ma dell’unione complementare e rigenerativa della coppia divina maschio-femmina.

 

Ricapitolando

Tutta la scena ha sempre valore magico-religioso, invocare il calore e la luce del Sole, e la sua energia vivificante sul menhir, e propiziare il contatto magico del bethilos col cielo.

Rappresentando raggi e stelle sul menhir già si invocano questi legami col cielo e col Sole, della pietrafitta, in più la raffigurazione complessiva mostra i raggi del Sole espandersi nel cielo, raggiungere il firmamento, penetrare l’aria e scendere in basso sulla terra dove è raffigurata la stele. Tutta la raffigurazione è un’invocazione magica al Sole affinché ogni giorno sorga e percorra il cielo e illumini il sacro bethilos, e affinché il suo spirito trasmigri nel menhir e qui e da qui unitosi intimamente, sessualmente alla terra, irradi tutt’attorno, nuova energia che dia vita ai defunti e prosperità, fertilità e ricchezza alla terra e a tutte le sue creature.

 

Prospettive di indagine aperte sui menhir a pilastro squadrato pugliesi e a sezione rettangolare

Lo studio del sito megalitico del Vicinanze I, che merita ancora ulteriori approfondimenti, apre la strada a tutto un nuovo settore di indagine, sin ora mai seriamente tentato, sui menhir e più in generale su tutto il megalitismo pugliese, quello archeoastronomico!

Premettendo che  restano per ora uniche, ma siamo ancora all’inizio dello studio approfondito dei menhir salentini, le peculiarità del menhir Vicinanze I, per lo meno per quei menhir a pilastro squadrato,  a sezione decisamente rettangolare, e con facce maggiori parallele al meridiano passante per il punto della loro ubicazione, come per il menhir  qui analizzato, l’esistenza di aspetti archeo-astronomici, accanto agli indiscussi aspetti cultuali del bethilos, sono palesi. Per posizionarli in quello speciale modo, lo studio del cielo, del moto apparente e diurno del sole o delle stelle circumpolari di notte, era essenziale per la loro corretta orientazione. Lo studioso Cosimo De Giorgi, osservò alcuni menhir infissi in buche rettangolari scavate nella roccia, ma non orientate con il lato maggiore parallelo al meridiano, ciò nonostante le pietrefitte, di dimensioni minori erano stati orientati correttamente con il meridiano, ponendo opportunamente pietre informi tra buca e menhir, tanto era importante l’orientazione dei menhir a pilastro squadrato e sezione rettangolare! Non solo anche per alcune delle tacche appositamente realizzata, che si ritrovano sugli spigoli dei menhir a pilastro squadrato salentini si potrebbe tentare un loro studio sempre in termini archeoastronomici. Forse, e allo stato delle ricerche il “forse” è doveroso, esse potevano indicar posizioni di astri nel cielo, se si guardava il menhir da opportune e precise posizioni del sito circostante, il tutto sempre con scopi magici e calendariali, ma che non possiamo mancare di definire “scientifici”, poiché volti allo studio del cielo e dei fenomeni stagionali terrestri.

Le tacche sugli spigoli dei menhir meritano, però, una trattazione introduttiva al loro studio, che presto esporrò nei miei scritti.

Dei menhir pugliesi si dovrà studiare anche più attentamente la loro ubicazione sul territorio, tenendo conto di aspetti ambientali, geologici, idrici, e morfologici, della rete viaria antica e della distribuzione degli insediamenti e delle necropoli, nonché di possibili allineamenti nel posizionamento dei megaliti, dal significato astronomico o legato al rapporto dell’uomo con il territorio.

Non meno importante sarà estendere gli studi alle tecniche di cavatura, sgrossatura e rifinitura, dei blocchi lapidei dei diversi materiali calcarei impiegati per la realizzazione di menhir pugliesi. Il menhir Vicinanze I, ad esempio, mostra tanto alcune superfici semplicemente tagliate e sgrossate, sui lati minori in particolare, tanto alcune ben rifinite, come la parte inferiore delle facce maggiori. Un approccio di archeologia sperimentale condotto su blocchi del medesimo materiali, volto ad ottenere tracce di taglio e sgrossatura simili a quelle osservabili sui menhir, illuminerebbe sulle antiche tecnologie impiegate.

Interessante è anche lo studio della tecnica adoperata nello scavo delle buche dei menhir e nell’incisione dei segni incisi petroglifati sui megaliti, nonché nell’erezione stessa di queste grandi pietre.

 

Considerazioni sul metodo di indagine perseguito in questo studio.

  • Piccolo glossario sulla terminologia adottata

L’assenza di scavi archeologici, che guidino nella datazione precisa dei menhir a p.s. salentini, così come la mancanza di reperti diagnostici, che permettano un inquadramento cronologico del menhir Vicinanze I, mi hanno spinto verso questo studio multidisciplinare del megalite e del suo sito circostante. Studio che ha tenuto conto anche delle valenze antropologiche, che mossero nei secoli tutti quelli uomini, che operarono nel sito, modificandolo e trasformandolo. Attraverso questo metodo, è stato possibile cogliere numerosi interessantissimi dati, la cui analisi incrociata ha permesso interessanti scoperte e suggerito ulteriori orizzonti di indagine, in attesa che si possano colmare quelle lacune, che purtroppo ancora gravano sull’archeologia pugliese, a causa dell’esiguo numero di scavi archeologici sin ora condotti.

Nell’indagine sui menhir salentini, sono partito dall’ipotesi, che questi potessero essere espressione di culture protostoriche o comunque pre-cristiane. Se davvero tali, allora anche i menhir salentini avrebbero potuto presentare sulle loro superfici, petroglifi simili a quelli, che si osservano nell’arte rupestre e megalitica di civiltà mediterranee ed europee pre-cristiane.

Mosso da queste considerazioni ho avviato la mia indagine approfondita sui menhir salentini a p.s. ed è così che ho scoperto la presenza su alcuni di questi, di coppelle e microcoppelle, ordinate e distribuite nei modi più vari, secondo tipologie note nell’arte rupestre e megalitica, ma anche canalette, bacinelle, fori ciechi o passanti, circolari, sub-circolari o quadrati, rappresentazioni stilizzate di menhir che trovano paralleli con l’arte punica, e persino originalissimi petroglifi a semi-raggiera, e petroglifi  “raggio di luce”. I risultati, sin ora divulgati, riguardano solo pochissimi menhir, da me indagati attentamente. L’estensione delle indagini ad altri menhir salentini e pugliesi, permetterà di ritrovare su questi, petroglifi sia delle tipologie sin qui classificate, sia probabilmente graffiti rientranti in nuove tipologie.

Sempre sulla base dell’ipotesi di partenza, cioè l’arcaicità dei menhir pugliesi a p.s., ho esteso le indagini, considerando quelli aspetti cultuali e archeoastronomici, che universalmente caratterizzano le culture megalitiche e i culti betilici, e anche in tal senso, ho ritrovato numerose prove dell’esistenza delle medesime correlazioni, anche nel megalitismo pugliese e in seno agli stessi menhir a p. s. oggetto di indagine.

L’ipotesi di una lettura megalitica e pertanto anche pre-cristiana,  delle pietrefitte salentine a p.s., nasceva comunque spontanea, data la correlazione topografica dolmen-menhir, che si osserva in tutte le regioni archeologicamente interessate dalla presenza di strutture dolmeniche, e che vede proprio in Puglia e nelle stesse aree in cui son collocati i menhir a p.s. salentini, la presenza di numerosissimi dolmen. 

Nel corso di questa esposizione, a volte può apparire, che con molta facilità si pervenga ad interpretazioni, scartando o liquidando tutte le altre possibili ipotesi a volte neppure accennate. Sembrerebbe un atteggiamento poco critico, in realtà proprio la facilità con cui si procede nelle deduzioni, che potrebbe suscitare perplessità, nasce dalla trama scientifica, che è sottesa a tutti questi studi. Una rete assiomatico-deduttiva, guida il procedere di questo mio lavoro, volto allo studio e alla comprensione profonda del menhir. E le deduzioni derivano per conseguenza logica da alcuni importanti principi fissati alla base. Questi sono i principi antropo-psicologici del culto betilico, alcuni dei quali nel corso dell’esposizione sovrastante sono stati anche sinteticamente esposti. 

Vi è dunque alla base la comprensione profonda di quella che definisco “religione betilica”, che costituisce un sostrato universale alla base di ogni religione e di ogni pensiero religioso umano. Indica per antonomasia la religione in cui si eleva e venera un bethilos, ma in realtà essa comprende tutte quelle forme religiose in cui è possibile individuare un oggetto materiale, che fa consciamente o inconsciamente da tramite tra l’uomo e il divino.

E con il termine “bethilos”, che compare in “religione betilica”, oltre alla stele monolitica eretta verticalmente, indico più generalmente un qualsiasi oggetto o struttura concepita unitariamente, fatto motivo  di culto o coinvolto in rituali, confitto o posato in terra e che sporge da questa elevandosi in aria. Ciò nonostante, in tutto il lavoro sopra esposto il termine “bethilos” o “betilo” è stato sempre usato nella sua accezione più comune, quella di stele monolitica.

Un complesso di conoscenze cui si è giunti attraverso un approccio multidisciplinare, cogliendo indizi molteplici nello studio dell’antropologia, della psicologia, della storia, della sociologia, dell’economia, e della stessa biologia. Tutta una serie di dati che mostravano la loro intima connessione, permettendo l’estrapolazione di quella struttura universale di pensiero che sintetizzo come “archetipo del culto betilico”.

Sulla base di questi presupposti continuerò negli scritti successivi ad approfondire lo studio del megalitismo salentino, e non mancherò di fornire ulteriori approfondimenti sul culto betilico più in generale e sulle prospettive di interpretazione antropologica rese possibili dalla comprensione di questo importante e fondamentale archetipo.  

Un sassolino è stato gettato nel tranquillo mare della conoscenza.

              Oreste Caroppo

 dicembre 2006

Per ulteriori dati, precisazioni e note sulle ricerche, consigli bibliografici, ecc. potete contattare l’autore di questi studi.

  orestecaroppo@yahoo.it

 agapi_mu@yahoo.it

 

ARTICOLO INCOMPLETO IN FASE DI ALLESTIMENTO GRAFICO

 

ALTRE MONOGRAFIE:

  • Antichi legami tra il Salento e l’Arcipelago Maltese nell’età del bronzo

  • Considerazioni finali sulla numerosità dei menhir pugliesi

  • Antichi sacrifici all’ombra dei menhir  

  • Influssi maltesi nei menhir del Salento.
  • Ricerca e analisi di petroglifi incisi sulle superfici di alcuni menhir salentini

Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it)

 

 

Ultimo aggiornamento

15 dicembre 2006  

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