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Studi sui
menhir a pilastro squadrato pugliesi
e più in generale sul culto betilico.
Studio approfondito del
menhir Vicinanze I in agro di Giurdignano.
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M O N O G R A F
I E
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Studi sui menhir
a pilastro squadrato pugliesi
e più in generale sul culto betilico.
Studio approfondito del menhir Vicinanze I in agro di Giurdignano. |
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Introduzione |
In questo
scritto presentiamo le nuove scoperte fatte nel Salento, durante lo studio
del menhir Vicinanze I, in agro di Giurdignano, in provincia di Lecce.
Particolarmente degna di nota è la scoperta di un ampio petroglifo inciso
sulla faccia maggiore orientale del monolite, rappresentante una
semi-raggiera, presumibilmente di raggi solari. Essa individua un punto di
fuoco esterno alla pietra, che ha suggerito uno studio archeoastronomico
del sito; quest’ultimo ha permesso di avanzar l’ipotesi, sostenuta da
numerosi riscontri, della presenza di un sistema calendariale per misurare
lo scorrere del tempo.
Si è
proceduto ad un’analisi attenta dell’area circostante, che ha rivelato la
interessante presenza di bacinelle e grotticelle scavate nella roccia.
Sul menhir si
son individuate microcoppelle incise sulle superfici e un foro cieco,
quello che abbiamo solitamente chiamato “occhio del menhir”.
Si è
discussa la “gradonatura in testa” osservata nel monolite e la presenza di
bacinelle o buche scavate sulla sommità di alcune pietrefitte a pilastro
squadrato.
Lo studio
delle croci incise sulla pietrafitta di Vicinanze e dei processi di
cristianizzazione dei menhir, ha permesso di individuare la presenza di un
antico e interessantissimo petroglifo rappresentante il menhir stesso.
Tutto il sito
e l’impianto decorativo del menhir è stato sottoposto ad attento studio ed
interpretazione.
Partendo da
queste analisi del Vicinanze I, si son estesi risultati e considerazioni
allo studio degli altri menhir pugliesi; di questi si son indagati gli
aspetti magico-religiosi e funzionali.
Si è
proceduto ad un fertile confronto con i monoliti e l’arte megalitica e
rupestre della tradizione europea e mediterranea (Sardegna, Puglia,
Liguria, Arco Alpino, Arcipelago Maltese, Grecia ecc.) e con le religioni,
i sacri betili e l’arte delle civiltà orientali della “mezza luna
fertile”, (Fenicia e colonie fenice, Egitto, Mesopotamia, ebrei, nabatei,
arabi ecc.).
Attraverso
l’analisi di molteplici dati, si è scoperta una trama sottile, archetipa,
universalmente diffusa, alla quale inizio ad accennare in questi scritti,
che ha permesso un approfondimento nella comprensione del pensiero
religioso e guidato verso una migliore lettura del megalitismo salentino e
pugliese.
Per
superare i limiti della distribuzione cartacea nella divulgazione di
questi studi, ho optato per una loro contemporanea divulgazione
informatica.
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Note sulla storia
delle mie ricerche illustrate in questo intervento.
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Figura 1:
Menhir Vicinanze I, visto da SE.
Si noti la rientranza della pietra,
nella parte superiore.
La
foto risale alla seconda metà del ‘900. Ai piedi della stele si
osserva la presenza di materiale lapideo informe; quest’ultimo è
stato asportato negli anni successivi alla realizzazione di questa
foto |
Riporto qui alcuni dei miei studi sul megalitismo
pugliese e sul menhir Vicinanze I più in particolare. Per quest’ultimo i
rilievi presentati, si avvalgono dei dati e di materiale fotografico,
raccolti nei giorni 7/05/2006 e 12/06/2006, nonché in altri sopralluoghi
effettuati nei mesi seguenti.
La scoperta del singolare
petroglifo a semi-raggiera, di cui diremo, risale alla prima escursione
del 7 maggio. L’ipotesi del petroglifo betilico, di cui anche tratteremo,
era maturata un po’ di tempo prima, durante precedenti miei studi e
indagini sui megaliti di Giurdignano.
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Nota sulla
terminologia di “menhir a pilastro squadrato” adottata:
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indichiamo con la notazione abbreviata “menhir a p.s.”, la tipologia di
“menhir a pilastro squadrato”, diffusa in territorio pugliese e
riscontrata anche nell’arcipelago maltese. Si tratta cioè di monoliti
eretti verticalmente e confitti nel suolo, aventi con buona, o in prima,
approssimazione, forma, generalmente per effetto di sagomatura
artificiale, di parallelepipedo. Forma che può interessare completamente
il menhir, o un’ampia porzione del suo fusto; quest’ultima precisazione
per includere quei pochi menhir squadrati, che presentano varianti
morfologiche, di solito nella parte sommitale. |
Ubicazione del menhir Vicinanze I
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Il menhir Vicinanze I è
ubicato in agro di Giurdignano, in contrada Vicinanze, da cui trae il
nome. Sorge, come diversi menhir a p.s. salentini, in corrispondenza di un
incrocio, un quadrivio per la precisione.
Il vicino Mare Adriatico,
dista dal sito del megalite, solo 6 km, se si considera il tratto di costa
più prossimo, che ricade ad ENE, nell’insenatura di Otranto.
Coordinate geografiche del menhir Vicinanze I.
Latitudine: 40° 7'21.47"N
Longitudine:
18°25'27.72"E
Altezza sul livello del
mare 75 m.
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Storia recente del menhir Vicinanze I |
Da sempre noto alle genti
del luogo, il menhir Vicinanze I, ha attratto l’interesse del mondo
scientifico, solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, quando
sotto l’ influsso della fervida e scientificamente florida “atmosfera
positivista”, si scoprì l’esistenza del fenomeno megalitico in terra di
Puglia. É chiamato Vicinanze I per distinguerlo da un secondo menhir a p.s,
che sorge nella medesima contrada.
Nel XX secolo si è
provveduto ad un rinforzo della pietrafitta; probabilmente si temeva per
la sua stabilità e si è pensato di intervenire ponendo un anima di metallo
nel cuore della pietra nella parte centrale del suo fusto. Si realizzò,
pertanto, sulle pareti maggiori centralmente ad esse, uno scasso
rettangolare verticale, forse passante da lato a lato. Le sue dimensioni
son di 1 m per 11 cm, ed inizia ad un altezza dal suolo di circa 1,5 m. Lo
spazio interno ricolmo di cemento contiene dei perni di acciaio. Si deduce
questo anche dall’osservazione di un tondino di ferro, che giunge in
superficie nella parte basale dello scasso sul lato occidentale del menhir.
Questo contatto diretto con l’ambiente esterno dell’anima in ferro
collocata nel cemento e nel cuore della pietra, facilita l’alterazione
chimica, corrosione, dell’anima stessa. Fortunatamente il colore assunto
dal cemento impiegato, non differisce molto da quello della pietra.
Un intervento di restauro
(?), di cui non conosco la necessità e che purtroppo ha asportato anche
parte dei petroglifi presenti sulle facce maggiori del menhir, non in
maniera tale però da impedire la lettura complessiva dell’impianto
decorativo.
Gli interstizi alla base,
tra buca e monolite, son stati riempiti con grigio cemento, presenza
anacronistica e cromaticamente deturpante.
Il sito è stato ripulito
dal Comune di Giurdignano, con l’uso di finanziamenti europei, nel 2004;
l’area è stata recintata con una staccionata di legno, composta da tronchi
grezzi (scelta saggia del materiale impiegato, che ben si abbina
all’arcaicità del luogo), e si è provveduto al rifacimento dei vicini
muretti a secco. Purtroppo si è ricorso anche all’impiego di cemento, per
fortuna, almeno, in maniera molto esigua. Si è arricchita l’area anche con
una esteticamente discutibile segnaletica. |
Descrizione del
monolite Vicinanze I.
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Il menhir Vicinanze I, è
un blocco monolitico squadrato in forma di parallelepipedo, in prima
approssimazione molto regolare.
La sua sezione
orizzontale, di forma rettangolare, misura circa 42 cm per 28 cm; sono
queste dunque le larghezze delle facce della stele.
Ai piedi del menhir
Vicinanze I, la presenza di recente cemento, rende difficoltosa la lettura
della forma della buca scavata nel banco di roccia affiorante, in cui
affonda la parte basale del megalite, probabilmente si tratta di una buca
rettangolare di dimensioni solo poco più grandi del monolite, e orientata
grossomodo come questo.
Le superfici del bethilos
son ricoperte da licheni.
É collocato in un banco
roccioso affiorante di locale calcare conchiglifero (calcareniti
plio-pleistoceniche), geologicamente differente dal calcare in cui è
cavato il menhir, riconducibile quest’ultimo alla varietà di calcare
miocenico giallo paglierino, di composizione argillo-magnesifera, noto
volgarmente come “pietra leccese”, e che affiora in superficie in aree più
addentrate nell’entroterra salentino. Nella stessa “pietra leccese”, sono
cavati gran parte dei menhir a pilastro squadrato del Salento.
Il
monolite si innalza dal livello del suolo per circa 3,73 m.
Nei
primi del ‘900, alla base, era rincalzato con grosse pietre, come ricorda
lo studioso Cosimo De Giorgi nel 1916. Quelle pietre sono state asportate
nel corso del ‘900, dato che di esse oggi non resta traccia, e il menhir
appare normalmente confitto nel banco roccioso.
Per le
dimensioni e l’orientazione della pietrafitta ci siamo rifatti
direttamente alle misurazioni effettuate da Cosimo De Giorgi, meticoloso e
validissimo scienziato positivista salentino, e da lui riportate in un suo
articolo, pubblicato sulla "Rivista Storica Salentina", nel numero di nov.-dic.
del 1916 e intitolato "I Menhir della Provincia di Lecce"; qui oltre ai
dati metrici, l‘orientamento, l’ubicazione del menhir Vicinanze I, il
materiale di cui è costituito, e alcune osservazioni sulla presenza di
massi alla base,
e di una croce
graffita sulla faccia ad Est,lo
studioso non aggiunge null’altro.
Riportiamo per esteso
la parte dell’articolo dedicata dal De Giorgi al Menhir Vicinanze I.
Menhir
Vicinanze, I.
Dimensioni:
Altezza m. 3,73
– Facce adiacenti : 0,42 per 0,28.
Orientazione
c.s. da N a S.
É di pietra
leccese ed è rincalzato e orientato alla base con grosse pietre.
Sulla faccia volta ad Est vi è graffita una croce.
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In “orientazione
c.s. da N a S” credo “c.s.” voglia dire “come sopra”, e in
riferimento a quanto scritto dallo studioso nel suo articolo per
altri menhir prima di giungere ad analizzare il menhir Vicinanze I,
la frase significa “orientazione della faccia più larga da N a S”.
Come si deduce dagli studi del De Giorgi, l’orientazione da lui
valutata nei menhir a p.s. e a sezione orizzontale rettangolare,
quella che lui dice “orientazione della faccia maggiore”, è la
direzione dell’asse maggiore del rettangolo della sezione
orizzontale, e non quella individuata dalla retta ortogonale alla
faccia, o semiretta ortogonale alla faccia e uscente rispetto alla
pietra, che si cita di solito come la direzione verso cui “guarda” o
“è affacciata” o “rivolta” la faccia verticale considerata in un
menhir a p.s. |
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Descrizione della
parte superiore della pietrafitta Vicinanze I
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Nella parte superiore,
gli ultimi dieci centimetri circa, si presentano rientranti a causa di
una risega, una scanalatura a gradino, che corre tutto intorno al menhir e
che comporta una diminuzione dello spessore della parte sommitale. Chiamo
questo particolare, che compare in alcuni menhir salentini a p.s., “gradonatura
in testa”. |
Interpretazione della gradonatura in testa
del menhir Vicinanze I e considerazioni sulla morfologia sommitale del
bethilos arcaico salentino |
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Figura 2:
vista da NNW del gradone in testa al menhir. Il bordo superiore si
presenta irregolare in alcuni tratti. Probabilmente, è scavata
superiormente una bacinella di forma parallelepipeda a sezione
rettangolare, con lato maggiore parallelo alla faccia maggiore del
menhir, caratteristica comune a numerosissimi menhir integri a
pilastro squadrato del circondario; il gradone da così maggiore
rilevanza alla cavità che si apre al suo interno.
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Per il momento avanziamo
alcune mere ipotesi sulla funzione e sul significato della morfologia a
gradone, che caratterizza la sommità di alcuni menhir salentini a pilastro
squadrato.
Le proprietà meccaniche
della pietra leccese e la perfezione degli squadri, che si osservano in
testa al menhir Vicinanze I, permettono di affermare con certezza la
natura antropica dell’intervento di scanalatura. Questa precisazione si
rende necessaria perché l’azione erosiva meteorica e da abrasione
meccanica, comporta nei monoliti squadrati, da molti secoli esposti
direttamente agli agenti atmosferici e al contatto con uomini, mezzi
umani, tronchi di alberi, arbusti ecc. un danneggiamento più consistente
degli spigoli, meno resistenti, rispetto alle aree interne delle
superfici; motivo per cui anche gli spigoli in testa si presentano
danneggiati, spesso ancor più degli spigoli laterali. I motivi del maggior
danneggiamento, che si osserva generalmente in testa, rispetto ai fianchi
delle pietrefitte (fenomeno evidente nell’aspetto odierno degli antichi
menhir sagomati in forma di parallelepipedo), sono:
-
l’angolo di incidenza medio della pioggia, che in
testa risulta essere più ortogonale;
-
la presenza di possibili fori e bacinelle in
sommità, che riducono lo spessore e dunque la resistenza degli orli
superiori;
-
le scariche elettriche di fulmini, che attratti dai
menhir per l’“effetto punta”, tendono a colpire in primis la testa dei
megaliti provocando l’esplosione di porzioni superiori, quando non la
rottura dell’intero monolite.
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Nell’ipotesi che la
scanalatura in testa sia successiva all’epoca di innalzamento del menhir,
si può pensare, che servisse per accogliervi ad incastro, una lastra con
un incavo in corrispondenza. Si sa di lastre poste su menhir,
probabilmente per fungere da basi per poggiavi sopra, in epoca cristiana,
una croce o la statua di un Santo, di Cristo o della Madonna, secondo una
pratica molto diffusa nel Salento e non solo, per cristianizzare i pagani
menhir, (in più rari casi, si scolpiva una croce a tutto tondo nel corpo stesso del menhir nella parte sommitale). Si è ipotizzato fosse questa l’origine di
una lastra poggiata orizzontalmente sul menhir Franite in agro di Maglie,
presente ancora nei primi del ‘900 (la sua descrizione e l’ipotesi sulla
sua funzione si devono allo studioso Cosimo De Giorgi). Una lastra
orizzontale si osserva ancora oggi sul menhir Mensi di Giuliano, frazione
di Castrignano del Capo. |
Figura 3:
Menhir Mensi a Giuliano, frazione di Castrignano del Capo. |
Il De Giorgi nel
suo articolo sopra citato, riferisce che al menhir MaterDomini,
pietrafitta a p.s. di Pisignano (frazione di Vernole), fu aggiunta “in
cima una lastra lapidea per collocarvi-sopra- una croce”. |
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Figura: 3b:
Stesso
elemento e con la stessa funzione pare fosse presente anche su
un menhir ubicato nella piazza di Acquarica di Lecce
(frazione di Vernole), come si desume dalla foto qui
presentata, che ritrae il megalite prima della sua rimozione,
avvenuta sulla fine degli anni ’50.
Par
riconoscervi sulla lastra sommitale il gambo superstite di una
diruta croce lapidea.
Per
ulteriori informazioni sui menhir di Vernole:
http://www.pinodenuzzo.com/pietre/Vernole.htm
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Un’altra
possibile ipotesi, sempre in merito ad un’origine cristiana della
scanalatura in cima, la ricaviamo dal De Giorgi.
Sull’oramai
distrutto menhir di “Tafagnano”, o “de lu barone” detto, menhir a
p.s. ubicato nell’agro di Lizzanello, il De Giorgi, che lo vide
ancora in piedi, nel suo articolo sopra citato, descrive la presenza
di croci “scolpite con l’accetta”. Vi si legge anche di una “scanalatura”
“in cima”, che secondo il parere dello studioso, fu praticata
quando il monolite fu convertito in colonna votiva cristiana,
probabilmente, sempre secondo il De Giorgi, non solo scolpendo le
croci, ma anche “sovrapponendovi” in testa “una croce
lapidea”. Dalle parole dello studioso, poiché non fa qui
menzione ad alcuna mensola cui collegare la scanalatura, par di
dedurre che egli la interpretasse come volta a realizzare una
gradonatura esteticamente funzionale ad esaltare la presenza della
croce. Talvolta croci votive cristiane erano erette su strutture
gradonate rappresentanti nella lettura simbologica cristiana il
“Golgota” (o “Calvario” nella traduzione latina), l’altura su cui fu
crocifisso, a Gerusalemme, Cristo, secondo i Vangeli; tale allora il
possibile significato cristiano della risega sommitale.
Nel menhir
Celimanna di Supersano, menhir a p.s., si osserva una lieve
smussatura artificiale degli spigoli, che interessa anche gli
spigoli in testa, dove conferisce una accennata forma trapezoidale
alla sommità del bethilos.
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Figura 7:
Zoom sulla sommità del menhir, vista da Sud |
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Figura 8: Sommità del menhir vista da Sud, con sovrapposizione di
linee, che idealizzano la struttura del trapezoide in cui è sbozzata
la parte sommitale del blocco parallelepipedo |
Figura 6:
Menhir Celimanna visto da Sud |
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In testa al
menhir è apposta una croce di ferro, confitta nella pietra. Se di
origine cristiana, la smussatura degli spigoli laterali, deriva da
un’esigenza volta a convertire almeno idealmente, la forma del
monolite, da quella del parallelepipedo, legata all’antica religione
dei menhir e alle funzioni pratiche e magico-religiose del megalite
a p.s., verso la forma cilindrica, più neutra e consona alla nuova
religione locale cristiana, che non riconosceva più e/o aveva
dimenticato le antiche molteplici valenze del bethilos a p.s. cui la
sua forma parallelepipeda era collegata; si hanno casi evidenti di
menhir a p.s. ottagonalizzati con forti e relativamente rifinite
smussature degli spigoli, nell’intervento di conversione in colonne
cristiane; si pensi ad esempio al menhir di Ussano in agro di
Cavallino, o al menhir Cupa II in agro di Scorrano.
In tal caso,
tornando al menhir di Celimanna, la smussatura in testa permetteva
di dar slancio al monolite e risalto estetico alla croce,
richiamando anche qui, la simbologia della “Croce sul Calvario”. |
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Figura 4:
Obelisco di Amenofis II a Karnak. Epoca: XVIII dinastia.
Foto tratta da
www. sofiaoriginals.com
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La struttura superiore
a gradone come quella a trapezoide, potrebbe però essere originaria in questi menhir. In questo caso
la presenza del gradino, o del trapezoide, in testa diviene un elemento molto interessante,
il cui significato deve esser letto in chiave simbolica, alla luce del
culto betilico in generale e più nello specifico, nell’ambito della
particolare forma che esso assunse nel Salento, terra intermedia tra
Occidente e Oriente, tra il megalitismo di tradizione neolitica europeo, e
le fiorenti civiltà della cosiddetta “Mezza Luna Fertile” (tra Egitto e
Mesopotamia); influssi molteplici, che
ritroveremo eccezionalmente proprio nel menhir qui analizzato, e che ci
permetteranno di far luce ulteriore sul megalitismo salentino, da
ritenersi pur sempre fenomeno antropologico dai forti connotati locali.
Gli
obelischi egizi, sulla cui trattazione presto dedicherò una mia
monografia, data la necessità di un confronto tra il megalitismo salentino
e quello “orientale”, son l’espressione più evidente e nota, di bethilos
innalzati dalle antiche civiltà della “mezza luna fertile”. Come negli
obelischi si osserva un “piramidone” in testa, così molti menhir informi
salentini sono sagomati o son costituiti da massi monolitici scelti in
modo tale da presentare una punta sulla sommità o una struttura subconica.
A
questo tema, quello del “menhir informe” salentino, dedicherò
presto ampie trattazioni frutto dei miei studi e scoperte; intanto qui
presento la foto di un menhir informe, alto circa un metro, facente parte
di un interessantissimo alignement, in un’area del Salento, dove ho
anche riscontrato la presenza di insediamenti umani di età neolitica e
protostorica, che ho fatto oggetto di segnalazione alla Soprintendenza
Archeologica di Taranto.
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Figura 5: Menhir informe salentino di forma sub-conica. |
Nella
realizzazione del bethilos compare universalmente una tensione artistica e
magico-religiosa, verso il completamento della struttura con una forma a
punta, aspetto che si può spiegare solo approfondendo il significato
profondo, archetipo, del culto betilico.
Tale
tensione artistica e magico-religiosa, certamente operò anche negli uomini
che idearono e realizzarono i menhir a pilastro squadrato. Questi megaliti
usualmente hanno forma parallelepipeda quasi perfetta, dunque mancano di
una punta in testa. La loro superficie piatta in sommità era legata
funzionalmente alla ritualità cui questi speciali menhir, quelli squadrati
appunto, erano destinati, tant’è che in testa si ritrovavano scavati,
spesso, uno o più fori o una o più bacinelle e persino canalette (anche su
questo punto fornirò presto maggiori importanti dettagli frutto di inedite
mie osservazioni).
Nel
menhir squadrato la tensione verso il completamento a punta del bethilos e
la necessità funzionale della testa piatta, implicata dai riti speciali
che erano previsti dalla religione betilica pugliese, diede luogo talvolta
a soluzioni di compromesso, quali forse quella della struttura a gradone,
o a trapezoide,
in testa.
La
necessità dello studio attento della “struttura a gradone in testa” del
menhir Vicinanze I, nasce dall’osservazione di sagomature simili, sebbene
meno evidenti e molto più usurate, sulla sommità di altri menhir a
pilastro squadrato salentini,
quali
ad esempio,il menhir Sant’Anna di Zollino, e
ancora in agro di Giurdignano il menhir Madonna di Costantinopoli, e il
menhir Vicinanze II, a soli 220 menhir dalla pietrafitta qui oggetto di
approfondita analisi;
si aggiunga anche, in base a quanto sopra ricordato, il distrutto menhir
di Tafagnano in agro di Lizzanello.
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Figura 9: Menhir
Candelora in agro di Melpignano. Si osservi la sua sommità
conformata a punta, che permette un confronto tra la forma di questo
monolite a p.s. e quella del classico obelisco egizio. |
Più in generale,
quella “a gradone” e quella “a trapezoide” son soluzioni artistiche
differenti, espressioni sempre delle stesse tensioni psicologiche verso il
completamento a punta del bethilos e del loro compromesso con esigenze
funzionali, quali quelle che abbiamo sottolineato poc’anzi per la testa
dei menhir salentini a p.s., o anche, in seno alla cultura cristiana,
quella di avere la base per il posizionamento di una croce o di una
statua, sulla colonna, che conserva sempre, archetipicamente, l’antica
valenza di bethilos. Questi concetti saranno ancor più chiari proseguendo
nella lettura di questo studio.
Per capire come la concettualità della punta protesa dalla terra verso il cielo, possa
esprimersi tanto con forme a gradoni, quanto con forme trapezoidali
(-piramidali), basti considerare le varianti architettoniche con cui nei
millenni, l’uomo ha elevato quelle che genericamente vengono chiamate
“piramidi”. Strutture a trapezoide o piramidali. a pareti lisce o a
gradoni.
Edifici, le piramidi, che
condividono con il bethilos, la medesima tensione magico-religiosa
dell’uomo proiettato dalla terra verso il cielo.
In alcuni rari casi si hanno anche menhir salentini,
sempre a pilastro squadrato, in cui si osserva addirittura una sbozzatura
della sommità “a punta”; aspetto questo che permette un doveroso confronto
con la morfologia a piramidone che caratterizza l’estremità superiore
dell’obelisco egizio. É il caso ad esempio del menhir Candelora in agro di
Melpignano. Il De Giorgi scrisse nel suo articolo a proposito di questo
bethilos a p. s. : “è stato (...) appuntito a colpi di pietra”.
Anche il menhir Grassi
in agro di Carpignano Salentino, presenta in testa un rozzo completamento
a punta, e sarebbe opportuno uno studio più attento per stabilire se
conseguenza di vandalici abbattimenti, o di crolli naturali o se sia stato
così appositamente sbozzato.
Altre interessanti
varianti in testa di alcuni menhir pugliesi a p.s. come per il menhir
Monaco di Modugno o per il menhir Vardare di Diso, saranno esaminate in
mie successive monografie.
Nota introduttiva.
Presento qui un’attenta analisi delle superfici del menhir Vicinanze I,
che mi ha permesso di sviluppare, anche in questo caso, interessanti
confronti con altre realtà megalitiche del Mediterraneo.
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Analisi degli spigoli
del menhir Vicinanze I |
Gli spigoli del menhir,
che si presentano grossomodo vivi quasi perfettamente a squadro, son solo
leggermente arrotondati dall’azione erosiva degli agenti esogeni. La loro
continuità è interrotta dalla presenza di alcune tacche cuneiformi, il cui
significato e ampia diffusione su questo tipo di menhir salentini a p.s.,
sarà oggetto di un mio capitolo successivo.
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Orientamento caratteristico delle facce
del menhir Vicinanze I e di altri menhir a pilastro squadrato pugliesi e
suo significato |
Le facce maggiori del
monolite guardano, con alta precisione nelle direzioni Est ed Ovest,
ovvero a levante e a ponente; son pertanto parallele alla direzione del
meridiano (Nord-Sud) passante per il centro della sezione del menhir.
|
Figura 10: orientazione del menhir Vicinanze I, secondo i dati
riferiti da C. De Giorgi.
Vista in pianta. |
Per l’orientazione del
monolite abbiamo riportiamo le misurazioni effettuate dallo scrupoloso
scienziato C. De Giorgi, nei primi del ‘900. L’orientazione che egli
rilevò, è, come abbiamo verificato grossomodo, quella che ancor oggi si
osserva.
In realtà da una
misurazione frettolosa effettuata con bussola, durante il sopralluogo del
7 maggio, abbiamo ottenuto per le facce maggiore, un’esposizione a ENE e a
WSW, anziché perfettamente ad Est e ad Ovest, come rilevato dal De Giorgi.
Si tenga anche conto del fatto che la nostra misurazione con
bussola magnetica, è affetta dall’errore della declinazione magnetica
locale presente nel momento della misurazione.
Data la presenza di cemento apposto alla base del megalite, non possiamo
escludere che questi abbia subito piccoli spostamenti, rotazioni minime
attorno al suo asse verticale, durante i non ben chiari interventi di
restauro, che ha subito nel corso del ‘900, e che ne hanno forse alterato
l’originaria importante orientazione; per questo motivo abbiamo preferito
attenerci ai dati del De Giorgi, senza procedere a nuove accurate
misurazioni dell’orientazioni attuale della pietrafitta, la cui ubicazione
è comunque rimasta immutata.
L’orientazione delle
facce maggiori, disposte parallelamente al meridiano del luogo,
contraddistingue numerosissimi menhir a pilastro squadrato pugliesi, tanto
che laddove tale condizione non è verificata, spesso si scopre che le
pietrefitte son state oggetto di riposizionamenti o spostamenti in epoche
recenti. Purtuttavia per alcuni dei menhir a p.s. non orientati est-ovest
(cioè, “non con le facce maggiori quasi perpendicolari all’asse
levante-ponente”), non possiamo escludere, che tali anomalie di
orientamento, dal significato ancora sconosciuto, possano esser state
previste durante l’originario loro posizionamento.
L’orientazione prevalente
est-ovest delle facce maggiori dei menhir salentini a p.s., che talvolta
si osserva persino in alcuni dei menhir informi nei quali sia possibile
distinguere due facce principali, ha una immediata spiegazione alla luce
del culto betilico e del suo legame magico-religioso con il Sole, che
sorge a Oriente e tramonta ad Occidente. Maggiori dettagli in tal senso
saranno espressi nei paragrafi successivi. |
Analisi delle
superfici laterali minori del menhir Vicinanze I
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Sulle superfici laterali
minori della pietrafitta a sezione rettangolare, si osservano
numerosissimi solchi obliqui, molto irregolari e grossolani. Sono
paralleli tra loro, cioè caratterizzati dalla stessa inclinazione, per
ampi tratti, e interessano quasi completamente tutte queste superfici.
Questi corrono talvolta da un estremo all’altro della faccia, e son molto
fitti. Si osservano alcune zone in cui l’orientazione dei fasci di solchi
si alterna. In particolare questo avviene nella parte superiore della
faccia minore del menhir Vicinanze I, rivolta a meridione.
Si tratta dei solchi
lasciati dagli strumenti di cavatura e sgrossatura, da accette o seghe
usate per tagliare la tenera pietra calcarea in cui il menhir è
realizzato.
Le facce minori spesso
sono quelle meno rifinite nei menhir salentini a pilastro ben squadrato.
Le facce maggiori, quelle principali e più importanti nei menhir a sezione
rettangolare, sono invece generalmente meglio rifinite ed eventualmente
sede privilegiata per la collocazione di decori petroglifici; aspetto che
ne testimonia la loro maggiore rilevanza e che le qualifica come facce
principali del bethilos.
Si osservano questi
solchi di cavatura e grossolana sbozzatura sui lati minori di molti menhir
salentini a pilastro squadrato realizzati nella tenera pietra calcarea
salentina, della varietà detta ‘pietra leccese’. Ad esempio presentano
lati minori con solchi di questo tipo il menhir ‘Marrugo’, e i menhir
‘Gemelli’ di Montevergine, ecc.
Non mancano comunque nel
Salento menhir squadrati, dove anche le superfici minori si presentano
lisciate e rifinite al pari delle maggiori.
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Figura 11:
Faccia minore del menhir Vicinanze I, rivolta a meridione. Si
osservino i solchi fittissimi che coprono con continuità la
superficie, estendendosi spesso da un estremo all’ altro della
faccia. Si osservi anche come la direzione media dei solchi del
tratto superiore, grossomodo discendenti a 45° da sinistra verso
destra, differisce da quella dei solchi del resto della superficie,
che salgono all’incirca a 45°, procedendo da sinistra a destra.
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Figura 12:
Nella foto a fianco, si mostra la faccia minore del menhir Vicinanze
I, orientata a settentrione.
Con alcune linee scure si son evidenziati gli spigoli del monolite e
con linee più sottili si son messi in evidenza alcuni dei
numerosissimi solchi paralleli che ricoprono tale faccia minore. |
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Analisi della faccia
maggiore rivolta ad Ovest del menhir Vicinanze I
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Consideriamo la faccia
maggiore del menhir Vicinanze I rivolta ad Ovest. Nella parte medio bassa
si può notare un solco orizzontale irregolare molto antico, come mostra
l’erosione dei suoi margini.
Si osservano numerose
micro-coppelle; si tratta di piccoli fori circolari diffusi su tutta la
superficie e distanziati tra loro. Son distribuiti, per lo meno ad una
prima osservazione superficiale, casualmente, e con densità inferiore
rispetto a quella dei fori distribuiti sulla faccia bucherellata del
menhir Cutura, anche detto menhir Pezza, ubicato in agro di Giuggianello,
e oggetto di miei approfonditi e importanti studi, volti alla penetrazione
dei segreti del megalitismo salentino (rimando alla loro lettura per un
approfondimento).
La concentrazione di
microcoppelle pare maggiore nella parte media e superiore della faccia.
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Figura 13:
Menhir Vicinanze I. Porzione media e superiore della faccia maggiore
rivolta ad Ovest. |
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Figura 14: Menhir Vicinanze I, vista da SW della sua porzione media
e superiore. |
Figura 15: Menhir Vicinanze I, vista da NW della sua porzione media
e superiore. |
Sebbene qui si tratti di
microcoppelle, ovvero di forellini più piccoli e circolari, vi è una
analogia molto forte con i decori a coppelle (di dimensioni leggermente
superiori), osservati sulle facce maggiori del menhir Franite, in agro di
Maglie.
Sulla faccia rivolta ad
occidente del Vicinanze I, si osservano dei solchi rettilinei con
andamenti molto variabile, simili a quelli che interessano le facce
minori, ma con densità inferiore, segno della maggiore cura posta nella
finitura di questa superficie.
Osserviamo sulla stessa
faccia a West, nella parte alta, a circa dieci centimetri dalla
scanalatura superiore, un foro circolare cieco, del diametro di circa 3
cm, scavato nella pietrafitta. Si tratta del solito foro, che io definisco
‘occhio del menhir’, e che si osserva su numerosi menhir a p.s.
salentini o più in generale pugliesi e che ho riscontrato persino su
menhir a p.s. dell’arcipelago maltese. Sulla diffusione e simbologia
dell’“occhio del menhir”, tratterò poco più avanti e in seguito in un
capitolo dedicato a questa interessante peculiarità di alcune pietrefitte,
sin ora passata quasi totalmente inosservata. |
Confronto dei decori petroglifici
di alcuni menhir a
pilastro squadrato salentini con decori megalitici maltesi
e sardi. |
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Figura 16: tempio di Mnajdra. Ortostato
squadrato decorato con microcoppelle. Si osservi come soprattutto
nella parte inferiore le distanze reciproche tra le forature sono
maggiori e la loro densità diminuisce rispetto a quanto osservabile
nella porzione superiore. Foto tratta da
www.megalithic.co.uk
. |
I confronti
tra alcuni decori megalitici presenti nei templi maltesi di Mnajdra e
Hagar Qim, e le forature osservate sul menhir Cutura, nonché con alcuni
petroglifi a microcoppelle osservati sul menhir Croce Sant’Antonio e sul
menhir di Bagnolo, possono anche essere estesi a quei menhir come il
Franite o il Vicinanze I, in cui abbiamo osservato coppelle o
microcoppelle, leggermente distanziate tra loro e distribuite su ampie
porzioni delle facce delle pietrefitte, generalmente le facce maggiori.
Analoga situazione si osserva su numerosi altri menhir a p.s. salentini,
come ad esempio sul menhir di Lequile detto “Aja della Corte” e sul menhir
Montevergine I in agro di Palmariggi, interessati da microcoppelle
distanziate tra loro e distribuite soprattutto sulle facce maggiori.
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Figura 17:
frammento di menhir decorato a coppelle. Piscina ‘e Sali (Laconi-Sardegna) |
Mentre per il menhir Cutura abbiamo fatto
un confronto con lastre megalitiche decorate con moltissimi fori molto
vicini tra loro, presenti nel tempio di Mnajdra, qui mostriamo invece un
ortostato, un grosso masso squadrato verticale, sulle cui facce, si
osservano forellini (microcoppelle), distribuiti su tutta la superficie,
ma con maggiore respiro nella parte inferiore, cioè con distanze maggiori
tra i fori rispetto alla parte superiore, questo al fine di evidenziare
come anche i decori a coppelle dei menhir Franite e Vicinanze I, sono
suscettibili di un’interessante similitudine, con forme decorative proprie
dell’arte megalitica maltese.
La decorazione a
coppelle, ricorre anche su menhir aniconici sardi di epoca neolitica o
calcolitica. Consideriamo ad esempio il frammento di menhir mostrato in
foto.
Lo studio del megalitismo
salentino e degli influssi che portarono ad esso, non può infatti
prescindere da un serio confronto con le tradizioni megalitiche dell’area
maltese e delle aree insulari della Sardegna e della Corsica.
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Analisi della faccia
maggiore rivolta ad Est del menhir Vicinanze I
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Sulla faccia maggiore
del monolite esposta a levante, continuano ad osservarsi alcune
microcoppelle con caratteristiche di distribuzione simili a quelle
dell’altra faccia maggiore del monolite.
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Figura 18:
Menhir Vicinanze I, porzione media e superiore della faccia ad Est.
Si nota al suo centro, lo spazio rettangolare verticale riempito di
cemento, relativo al restauro subito dal menhir nel secolo scorso.
La crocetta scura in alto corrisponde ad una mera macchia cromatica
e non è un petroglifo |
Figura 19:
Menhir Vicinanze I, porzione media e superiore del monolite vista da
SE |
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La superficie di questa
faccia maggiore esposta a levante, nella porzione inferiore, si presenta
molto ben rifinita. Nelle porzioni superiori però, essa appare sgrossata
malamente, dato che la superficie è interessata dalla presenza di numerosi
solchi.
É questo un particolare
anomalo perchè di solito le facce maggiori dei menhir a p.s. son ben
rifinite, e qui anche la parte inferiore di questa stessa faccia si
presenta liscia e ben lavorata.
Nasce allora il sospetto,
che quei tratti scolpiti, non siano mere tracce del lavoro di sgrossatura,
ma i resti erosi dal tempo, di graffiti incisi con preciso intento
decorativo. Quest’interpretazione, sarà ancor più plausibile tra poco,
quando evidenzieremo la particolarissima distribuzione di questi solchi.
Stiamo cioè ipotizzando
che i solchi qui presenti, siano particolari graffiti.
Petroglifi simili, a mero
tratto scavato sulla pietra, li abbiamo già osservati anche sulla faccia
maggiore, oggi esposta a settentrione, del menhir Franite di Maglie. Lì
oltre alla solita copertura a coppelle, simile a quella della faccia a
meridione della medesima pietrafitta magliese, compaiono nella porzione
medio-inferiore, dei solchi orizzontali leggermente inclinati. Le pareti
del menhir Franite su cui si son scavate coppelle e solchi, son lisce e
ben rifinite, motivo per cui nasce il sospetto che quei tratti incisi,
peraltro occupanti un’area limitata, non siano meri segni di sgrossatura.
Solchi simili, nel menhir
Vicinanze I diventano numerosissimi, su quasi tutta la porzione media e
superiore della faccia che guarda ad oriente, come è possibile osservare
nella foto su riportata.
Questi graffiti lineari
hanno inclinazione variabile, ma aspetto molto interessante, paion
orientati a raggiera. La percezione della loro distribuzione a raggiera si
ha soprattutto se si concentra l’attenzione sui solchi che interessano la
porzione destra della faccia maggiore. Nella parte centrale media della
faccia, infatti, il menhir è stato danneggiato dall’intervento di restauro
cui si è accennato. Nella parte sinistra si osserva una maggiore
confusione delle incisioni, ma anche qui osservando più attentamente i
petroglifi, si distinguono numerosi tratti incisi secondo il medesimo
principio di orientazione a raggiera.
Questo particolare della
loro distribuzione, rende difficile ricondurli all’azione di semplice
taglio della pietra, o di scalpellatura da sgrossamento.
Inoltre la presenza di
microcoppelle rivela che questa era una faccia importante del menhir, e di
solito le facce principali dei menhir a p.s., come già ricordato, erano
maggiormente curate e rifinite.
Perché allora non
rifinirla come l’altra faccia maggiore, pure decorata con microcoppelle, o
come la stessa porzione inferiore della medesima faccia, e lasciarla
invece semplicemente sgrossata come le facce minori?
Queste perplessità
possono essere spiegate solo ammettendo che quei segni a raggiera
furono incisi volutamente sulla superficie
rifinita, ma al di là di questa deduzione circostanziale, una semplice
analisi più attenta e ravvicinata dei tratti, sebbene arrotondati nei
margini da secoli di erosione, mostra subito che deve essere scartata
l’ipotesi che si possa trattare di semplici solchi, prodotto della
sgrossatura o del taglio e cavatura della pietra, come quelli, differenti
ad un’analisi ravvicinata, che compaiono sui lati minori del medesimo
menhir, ad esempio (vedi le due foto messe a confronto). |
Confronto tra i
solchi sulla faccia maggiore a meridione e quelli sulle facce minori |
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Figura 20:
Menhir Vicinanze I, solchi nella porzione
media della faccia maggiore rivolta a levante. Già in questo piccolo
tratto si può cogliere la loro distribuzione a raggiera.
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Figura 21:
Menhir Vicinanze I, solchi nella parte
superiore della faccia minore rivolta a meridione |
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I solchi della faccia
maggiore esposta ad oriente, hanno fondo grossomodo arrotondato, e
appaiono espressamente scavati su una superficie piana preesistente. Hanno
larghezza media di un centimetro o poco più, e lunghezze maggiori.
Per una analisi più
approfondita della distribuzione dei tratti, abbiamo perseguito il
seguente studio. |
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Partiamo
dall’analisi delle direzioni dei vari solchi.
Si osservano dal
rilievo fotografico, (immagine A), dei tratti più marcati ed
evidenti. Abbiamo fissato l’attenzione su questi ultimi, che si
estendono per lunghezze che vanno da pochi centimetri fino ad un
massimo di 10-20 cm. Gli si è prolungati con delle linee rosse
sottili e dopodichè, i tratti di partenza sono stati evidenziati con
un tratto nero.
Vedi
immagine B.
Quest’analisi
mostra come in effetti, tutti i graffiti lineari rivelano una, per
lo meno irregolare, convergenza verso sinistra.
Ora ipotizziamo che
questi tratti non siano stai tracciati casualmente secondo una vaga
intenzione di ottenere una distribuzione a raggiera, ma che si sia
fissato un punto di fuoco a sinistra, dove i tratti convergono, per
eseguire i solchi a raggiera. Cioè ipotizziamo che l’antico
artigiano megalitico, per realizzare i diversi solchi, con
distribuzione a raggiera, abbia fissato un palo passante per il
punto di fuoco e vi abbia legando in tale punto, l’estremità di una
corda, quindi tirando la corda all’estremità libera, tenendola tesa
e fissa così da assumerla come direzione di riferimento, e poi
facendola ruotare di volta in volta di un piccolo angolo, questi
poteva realizzare qui singolari solchi, proprio con le
caratteristiche, che oggi ancora mostrano. L’operazione poteva esser
stata eseguita comodamente, quando il menhir dopo la rifinitura,
doveva ancor esser eretto o con più difficoltà dopo.
Ipotizziamo allora
che le irregolarità di convergenza nell’immagine B, siano dovute a
irregolarità locali di incisione dei tratti selezionati, quelli che
oggi appaiono più profondi, nonché ad irregolarità di resa
fotografica e di precisione nel prolungamento della loro direzione.
Se individuiamo
allora il corretto punto di fuoco e prolunghiamo da questo i diversi
raggi, se le nostre ipotesi sono corrette, osserveremo una
coincidenza direzionale dei tratti più marcati e dei tratti più
lievi e sottili, con le direzione del “fascio proprio di rette”
passanti per il fuoco.
In geometria, si
definisce ‘fascio proprio di rette’, l’insieme di tutte le rette
convergenti in uno stesso punto dello spazio euclideo. Il punto da
cui passano tutte le rette del fascio, è detto ‘centro del fascio’,
quello che qui chiamiamo ‘fuoco’.
Osservando
l’immagine B, constatiamo come in effetti si può individuare a
sinistra, una piccola regione di massima convergenza, indicata da un
cerchietto giallo dal contorno nero, nell’immagine C.
Statisticamente il
non passaggio da essa di tutte le rette, dovrebbe esser dovuto agli
errori menzionati. Ciò nonostante proprio la possibilità di
osservare in maniera evidente l’esistenza di un’area di massima
convergenza, ci convince per il momento, della plausibilità delle
ipotesi fatte. Il punto nero, centro del cerchietto corrisponderà in
prima approssimazione, all’ipotetico ‘fuoco’.
Fissiamo ora
tale punto, come centro del fascio di rette cui apparterrebbero le
direzioni seguite nella realizzazione delle incisioni a tratto, e
tracciamo da questo delle semirette rosse, cercando,
approssimativamente, di sovrapporle, per quanto possibile, con i
tratti graffiti. Immagine D. |
Figura 22:Menhir
Vicinanze I, porzione media e superiore della faccia ad Est -
Immagine A |
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Figura 23:
Immagine B |
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Figura 24:
Immagine C.
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Figura 25:
Immagine D |
L’analisi
dell’immagine D, permette di osservare come i diversi solchi, siano
stati, in effetti, tracciati compatibilmente con la nostra ipotesi,
che prevedeva l’uso di una corda tesa o comunque di una riga di
legno, e di un preciso fuoco. Si osserva la distribuzione e
l’orientazione tanto dei tratti più marcati ed evidenti, quanto di
quelli più sottili e meno appariscenti nella foto, con le direzioni
individuate dal fascio di semirette uscenti dal ‘punto di fuoco’ al
centro del cerchietto giallo. Non abbiamo sovrapposto raggi rossi su
ogni tratto, per cui e possibile osservare come anche quelli
intermedi, tra i solchi soprapposti da raggi e altri al di sopra e
al di sotto del fascio rappresentato, rispettino lo stesso principio
di orientazione a raggiera. Si può osservare come su una stessa
direzione, talvolta si susseguano più tratti in sequenza, alcuni più
marcati, altri meno, che rivelano la volontà di tracciare raggi
molto lunghi. Eventuali discostamenti, che si possono individuare ad
un’analisi più sottile, dei tratti incisi, dai raggi ideali uscenti
dal fuoco, possono trovare semplice spiegazione se si considera la
rozzezza dei punteruoli o delle martelline che furono impiegate per
l’esecuzione dei solchi. Non dimentichiamo anche, che quanto oggi
osservato ha subito una millenaria azione erosiva ad opera degli
agenti atmosferici cui per secoli, sin dalla sua erezione, il menhir
Vicinanze I è stato ininterrottamente sottoposto. Né tali tratti son
stati mai rimarcati in epoca successiva alla loro realizzazione.
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Controprova |
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Figura 26: del lavoro di controprova effettuato riportiamo una
tavola corrispondente alla fase intermedia, che nello studio su
riportato corrisponde all’ immagine B. Si palesa anche in questa
ulteriore analisi, l'esistenza di un fuoco di irraggiamento esterno
al menhir, indicato statisticamente dal prolungamento dei solchi
lineari.
Faccia orientale del menhir Vicinanze I. |
Ad ulteriore verifica di quanto ricavato dalle
elaborazioni sopra sviluppate, abbiamo riapplicato il medesimo
procedimento ad una foto differente della stessa faccia maggiore del
megalite. Per porci in condizioni diverse da quelle precedenti, è stata
fatta una foto più frontale, e meno prospettica della foto utilizzata nel
soprastante studio; l’abbiamo scattata in un orario differente e con
differenti condizioni di illuminazione, (mentre per la foto precedente:
pomeriggio, cielo sereno; per la nuova foto: cielo nuvoloso, mezzogiorno).
Si è utilizzata anche una fotocamera digitale a più elevata risoluzione.
Abbiamo operato poi su carta, anziché con software grafici. Il risultato
ha portato a conclusioni analoghe a quelle cui eravamo già giunti con il
lavoro precedente.
In questo modo abbiam
potuto verificare la correttezza delle conclusioni tratte, escludendo che
fossero state viziate da variabili legate alla particolare illuminazione,
all’inclinazione dell’apparecchio fotografico, alla distorsione
dell’immagine fotografata per motivi ottici e prospettici, alla
risoluzione della foto o in ultima analisi, condizionate dalle stesse
aspettative psicologiche dello sperimentatore.
Per quei graffiti lineari
si è sottointesa sin ora l’ipotesi, che non si tratti di un motivo
decorativo di epoca cristiana, ma di un petroglifo di epoca più arcaica,
strettamente legato all’originario culto betilico pugliese delle genti che
eressero i menhir a p.s. Vedremo infatti come esso ben si lega ai valori
magico-religiosi del bethilos, che ispiravano l’antica religione salentina
e più in generale pugliese, dei menhir; troveremo anche alcuni riscontri
iconografici con stele pugliesi di epoca eneolitica e dell’età del bronzo,
e aspetto non meno interessante coglieremo a partire da questo petroglifo,
interessanti legami di orientazione del sito con i moti apparenti del sole
dal profondo significato religioso e calendariale per le genti megalitiche
salentine.
Sottolineiamo come il
punto focale dei raggi, appartiene allo stesso piano geometrico della
faccia del menhir su cui ritroviamo i tratti incisi, ma si trova
all’esterno di questa.
Chiamiamo il petroglifo a
raggi del menhir Vicinanze I, “petroglifo a semi-raggiera”; ‘semi’
poiché il fascio di raggi incisi non si sviluppa lungo un intero angolo
giro come nel classico motivo a raggiera dove i raggi si espandono tutto
intorno ad un cerchio.
Sarebbe opportuno uno
studio con tecnologie di indagine superiore e con scannerizzazione laser
per formare un modello 3D della superficie e valutare se quei solchi son
stati scalfiti con l’intento di ricoprire con continuità l’arco
interessato dalla presenza della semiraggiera, o se si è proceduto a
tracciare un preciso numero di raggi, secondo precisi angoli magari di un
qualche significato astronomico.
Sempre uno studio di
questo tipo legato anche a verifiche di archeologia sperimentale,
permetterebbe di capire se quei solchi vennero scalfiti, prima della
erezione del monolite o dopo.
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‘Petroglifo del raggio di luce’ nell’arte megalitica salentina, e suo
significato magico |
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Figura 27: Menhir Franite. Faccia maggiore rivolta a Nord, porzione
medio-bassa. Si notano coppelle distribuite sulla superficie, e una
piccola area dove a queste si sostituiscono delle picchettature, che
paion quasi l’evoluzione filiforme della coppella. Questi solchi
sono di natura petroglifica, dato che compaiono insieme alle
coppelle su una superficie complessivamente ben rifinita. La
somiglianza con i solchi della semiraggiera del menhir Vicinanze I è
altissima. |
Chiamiamo quei solchi
grossomodo lineari, appositamente graffiti, che ritroviamo su alcuni
menhir salentini, per ora tra quelli analizzati, sul Franite e sul
Vicinanze I, “petroglifo del raggio di luce”. Si tratta di graffiti
che hanno certamente valenze non meramente decorative, ma magiche, come
in genere per ogni forma d’arte religiosa dell’antichità.
É stato possibile
arrivare a questa interpretazione del petroglifo del solco con la
rappresentazione di raggi di luce, grazie all’analisi proprio del menhir
Vicinanze I, che mostra nella disposizione a raggiera dei tratti incisi,
forte analogia con i raggi del Sole emessi dal suo ‘disco’ raggiante, il
cui centro è assumibile come punto focale dei raggi irradiati nello spazio
circostante.
Un petroglifo con tale
valore semantico, è inoltre perfettamente in accordo con i valori
simbolici del bethilos e con il culto betilico, come meglio capiremo in
seguito.
La collocazione del fuoco
della semi-raggiera, all’esterno del menhir Vicinanze I, nell’aria,
dimensione che appartiene al cielo e dunque al Sole, è un elemento
ulteriore, che, con buona certezza, permette di interpretare quei tratti
rettilinei, quali rappresentazione di raggi di Sole.
Rappresentare i raggi di
Sole sul menhir ha valenza magico-religiosa. Omeopaticamente quei tratti
invocano sulla stele il Sole e la sua azione magica legata ai fondamenti
del culto betilico; propiziano l’azione riscaldante e illuminante, diremmo
“energetica”, della nostra stella, sulle superfici del bethilos, che hanno
proprio nelle facce maggiori orientazione tale per cui maggiore sia la
loro illuminazione diretta nel corso della giornata e dunque maggiore la
carica ‘energetica’ (fisica e spirituale al contempo) emessa dal divino
Sole ed assorbita dal sacro bethilos. ‘Energia’ ritenuta dotata di magici
poteri, dagli elevatori dei menhir a p.s.
L’estensione dell’analisi
ad altri menhir salentini, permetterà di valutare quanto questo tipo di
petroglifo, fosse diffuso, sulle arcaiche stele salentine. Forse si devono
includere in questa categoria di petroglifo non solo solchi rettilinei o
leggermente curvi di lunghezza variabile, ma anche antichi graffi lineari
e soprattutto fasci di graffi che presentano le stesse caratteristiche di
linearità. Si consideri ad esempio l’analisi dei graffi presenti sulle
superfici maggiori del menhir Crocefisso, pietrafitta a p.s. in agro di
Muro Leccese.
Anche sul menhir San
Paolo a p.s. in agro di Giurdignano, su un lato del monolito, in alto a
sinistra si osservano dei solchi abrasi dal tempo, riconducibili forse al
petroglifo del raggio di luce.
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Figura 28
Menhir San Paolo in agro di Giurdignano. Nonostante l’usura del
tempo, le coppelle incise, e le irregolarità della pietra, il
monolite San Paolo presenta superfici abbastanza lisce.
In foto,
particolare della porzione superiore della faccia esposta ad
occidente. In alto a sinistra si osservano alcuni caratteristici
solchi, forse le tracce sopravvissute all’ erosione del tempo del petroglifo “raggio di luce”. |
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In ogni
caso, prima di poter identificare un solco graffito con il
petroglifo del raggio di luce, è necessaria un’attenta
analisi del tratto stesso e di tutte le superfici della
pietrafitta per poter escludere che non si tratti dei
normali solchi di sgrossatura, o di semplici graffi da
abrasione! |
Analogie del
motivo a semi-raggiera con l’egizia rappresentazione del
dio solare Aton |
La rappresentazione di raggi solari
rettilinei a semi-raggiera sul menhir Vicinanze I, richiama alla mente del
culture o mero studioso di archeologia, alcuni motivi decorativi propri
dell’arte egizia e più in particolare dell’iconografia amarniana; mi
riferisco al motivo dei raggi uscenti, proprio a semi-raggiera, dal disco
solare, l’Aton, venerato sotto il regno del faraone Akhenaton.
|
Figura 29: Rilievo in calcare rinvenuto a Tell
el Amarna, raffigurante la sovrana moglie di Akhenaton, la
bellissima Nefertiti, mentre offre doni al disco solare, il dio Aton
(o ‘Aten’). Foto tratta da
www.sapere.it. |
Il faraone Akhenaton
decimo
sovrano della
XVIII dinastia egizia,
regnò in Egitto dal 1364 al 1347 a.C.
Cambiò il suo nome
da Amenhotep IV (Amenofi IV), che vuol dire “Amon è contento”, in
Akhenaton, cioè “Aton è contento”.
Amon è il nome
del dio del sole venerato a Tebe (Karnak), l’antica capitale, e il
cui culto, controllato dalla casta sacerdotale, era stato esteso a
tutto l’Egitto.
In conflitto con
la potente casta sacerdotale, Akhenaton sostituì al culto della
divinità solare tebana, antica protettrice della regalità, un’altra
divinità sempre solare e di origine semitica, Aton, con cui si
identificò e che proclamo unico (o principale) dio e re.
Aton era
originariamente il nome del disco solare.
Il suo culto,
prima di essere imposto dal faraone Amenofi IV, era stato introdotto
a Karnak sotto il regno di
Thutmose II, tanto che in quella città esisteva un piccolo tempio
dedicato ad Aton.
Sempre in conflitto
con i sacerdoti di Amon, il cui centro di potere era Karnak, sede
del santuario di Amon, e capitale del
regno,
Akhenaton fece costruire un'altra capitale, che chiamò
"Akhet-Aton" ("Orizzonte di Aton"), città consacrata al dio Aton,
l'odierna
Tell el-Amarna, allontanando il centro del potere
politico dalle ingerenze del potente clero tebano.
I bassorilievi di
Tell-el-Amarna, ritraggono frequentemente Akhenaton e i suoi
famigliari mentre offrono doni al
Sole e sono in adorazione del suo disco solare Aton, quest'ultimo
dispensa raggi simili a radiazioni, che offrono l'Ankh, la chiave
della vita eterna, al faraone, a alla regina Nefertiti, sua sposa,
benedicendo in tal modo lui e la sua famiglia per l'eternità.
I raggi, lunghi
segmenti uscenti dal bordo del disco solare e terminanti con mani,
sono le lunghe braccia del dio sole Aton. Questa iconografia tipica
dell’Aton, contraddistingue il suo culto da quello delle altre
divinità egizie, sempre rappresentate in forma antropomorfa,
zoomorfa o zooantropomorfa.
Morto Akhenaton,
già sotto il regno del figlio Tutankhaton,
poi emblematicamente cambiato in Tutankhamon, viene posto fine alla
eresia del padre, abbandonato il culto di Aton come religione di
stato (e dunque con esso la sua tipica iconografia), e ripristinato
quello di Amon. Anche la capitale del regno tornò a Tebe.
L’arte che fiorì
in Egitto sotto il regno di Akhenaton, è definita “arte egizia
amarniana”, dal nome della città Tell-el-Amarna, dove maggiormente
si sviluppo. |
Senza voler assolutamente
stabilire dei legami in termini di influenze dirette, tra queste distanti
espressioni artistiche del motivo del raggio solare, in Egitto e nel
Salento, l’interessante analogia trova la sua naturale ragion d’essere,
nell’alveo di quelli che un po’ troppo genericamente sono chiamati “culti
solari”, e nei quali rientra, con le dovute precisazioni e distinguo,
datane la maggiore complessità, il culto betilico. |
Analisi del sito del menhir
Vicinanze I.
·
Area cultuale e forse
anche sepolcrale: grotticelle, fosse e bacinelle.
·
Un osservatorio
astronomico e un calendario megalitico: studio archeo-astronomico
suggerito dalle peculiarità del petroglifo a semi-raggiera.
·
Note sui principi
basilari del culto betilico. |
Nel menhir Vicinanze I,
la scelta di un preciso punto di fuoco esterno al menhir, come centro di
irradiazione dei raggi di luce graffiti, fa ipotizzare che questo non sia
un punto casuale, ma forse l’indicazione di un preciso punto, che assumeva
significati astronomici di forte valenza magico-religiosa.
Forse, se osservato da
una particolare posizione del sito circostante, in particolari momenti
dell’anno, un astro assumeva nella volta celeste una posizione coincidente
con la proiezione sulla stessa, di quel fuoco, a partire dal punto di
osservazione privilegiato stabilito.
Quell’astro doveva essere
necessariamente molto luminoso, come lascia pensare il fatto che i raggi
graffiti, che da esso irraggiano, son incisi sul menhir con solchi decisi.
Forse allora la Luna, ma considerato lo stretto legame che quasi
universalmente si riscontra esistere, tra bethilos (menhir), e Sole, è più
probabile che sia stato quest’ultimo, l’astro in questione. Non solo i
raggi emessi dal Sole son quelli che più suggestivamente si osservano nel
cielo, soprattutto quando, durante i dì nuvolosi, si aprono degli spazi
sereni da cui filtrano fasci di luce solare, che si espandono maestosi e
lucenti attraverso l’aria, scendendo verso la terra, o salendo verso
l’alto (questi ultimi visibili soprattutto al tramonto o all’alba quando
il Sole è basso sull’orizzonte, e i suoi raggi appaiono diffondere in ogni
direzione).
Tutto il sito circostante
al menhir aveva una profonda valenza cultuale, come fanno ritenere alcune
piccole buche scavate nella roccia ai piedi della pietrafitta e numerose
fosse o grotticelle artificiali, di valenza probabilmente cultuale e/o
sepolcrale presenti nelle immediate vicinanze del monolite e cavate nella
tenera calcarenite affiorante.
Punti comunque che
rianalizzeremo approfondendo il legame menhir-grotta, e quelli aspetti
legati a culti e riti, quali le bacinelle e le canalette scavate nei
banchi rocciosi prossimi ai menhir salentini e ad altri monumenti
megalitici pugliesi.
Figura 30: Foto del sito del menhir Vicinanze I. Scatto effettuato il 7
maggio 2006. Il menhir è qui osservato da Sud-Ovest. Son indicati i
segni di cavature, i resti di grotticelle o incavi artificiali
sub-circolari (A, B, C, D), la posizione di bacinelle, sempre cavate nella
roccia di cui alcune circolari (b), altre ai piedi del menhir, buche
parallelepipede (a); in rosso è segnato il punto focale della
semi-raggiera graffita.
Riguardo alle
bacinelle che si osservano scavate nel banco roccioso affiorante in cui è
infisso il menhir, presentiamo qui una foto delle due che si ritrovano
nelle immediate vicinanze del monolite, nell’area indicata dalla lettera ‘a’,
nella foto che illustra le peculiarità del sito.
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Figura 31: Vista da Est della grotticella o incavo a fossa, indicato
con A nella foto del sito su riportata.
Si intravede un resto della parete arcuata dell’incavo, che si
allarga procedendo verso l’interno; forse il resto della volta di
una piccola grotticella a pianta circolare. |
Figura 32: Bacinelle ai piedi del menhir. |
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Nella foto, la faccia
maggiore del menhir, che si osserva in alto a destra, è quella rivolta a
ponente. La buca ‘1’, di forma parallelepipeda, dista dal menhir 120 cm,
ha larghezza di 32 cm, lunghezza di 26 cm, e profondità di 20 cm. La buca
‘2’, ha forma quadrata di dimensioni 15 cm per 15 cm e profondità di 13
cm, ma è molto più irregolare della buca ‘1’.
Nell’area ‘b’ (vedi foto
del sito), si osservano i resti di quella che sembra una ampia bacinella
subcircolare, concava poco profonda.
La presenza di bacinelle
sub-circolari o rettangolari e di canalette scavate nella roccia
affiorante, tipiche di siti arcaici di valenza funeraria o culturale, l’ho
potuta riscontrare anche in interessanti siti megalitici salentini e più
in generale pugliesi, come pure ai piedi di alcuni menhir a p.s., ad
esempio, per restare nell’area di Giurdignano, cito qui soltanto il menhir
Vicinanze II e il menhir San Paolo; nel banco roccioso ai piedi di quest’ultimo
si osservano anche numerose fosse sub-rettangolari scavate nella roccia,
con moltissima probabilità, tombe per l’inumazione di cadaveri, di cui
sarebbe opportuno con uno scavo archeologico, stimarne l’epoca, e
l’eventuale riutilizzo nel tempo.
Per poter però dire
qualcosa di più relativamente all’ipotesi archeoastronomica qui avanzata,
serve uno studio più approfondito di tutto il sito, purtroppo in parte
alterato da una millenaria e continua antropizzazione, nonché precisi
calcoli archeoastronomici.
Sotto uno spesso strato
di terra è la porzione del sito a settentrione del menhir, al di là del
vicino muretto a secco; coperta da asfalto e pietrisco è poi la porzione a
meridione e a oriente dell’area circostante il monolite. Tutto questo per
sottolineare le difficoltà, in assenza di un preciso scavo archeologico,
della lettura complessiva del sito.
L’area del complesso
archeologico di Vicinanze I che, allo stato attuale, può essere facilmente
indagata, è una striscia di terra larga circa 5 m, e lunga circa 20 m,
compresa tra il tratto di stradina occidentale rispetto all’incrocio su
cui sorge il menhir, e il muretto a secco, che si scorge anche nella foto
seguente sulla destra della pietrafitta, posto a settentrione del menhir,
e che delimita un uliveto, in cui il piano di calpestio è rialzato di
alcuni decimetri a seguito della presenta di uno strato di suolo a cui il
muretto stesso fa da contenimento. La limitrofa stradina corre in prima
approssimazione da SW a NE; in questo stesso senso si estende il muretto a
secco.
In questa lingua di
terra, dal piano della stradina si eleva un basso costone roccioso di
calcarenite, che poi continua al disotto del muretto a secco. Questa
struttura inizia a scorgersi all’altezza del menhir, (il monolite stesso è
in essa confitto), e da qui corre parallela alla stradina, aumentando in
larghezza, da 1 m fino a circa 5 m, procedendo verso SW.
É in questo banco lapideo
che troviamo scavate le bacinelle, le fosse e le grotticelle qui
descritte.
Immediatamente a WSW del
menhir, prima dello scavo indicato come bacinella ‘b’, si osservano in
immediata sequenza, due scavi sub-circolari, del diametro di circa un
metro. Son invasi da terra e pietrisco di recente apporto, e di essi si
scorgono i bordi. Son indicati in figura con la lettera D.
Ancor più a Sud-Ovest, si
distinguono tre grotticelle (‘A’, ‘B’, ‘C’) o scavi subcircolari di
origine artificiale, cavate nella roccia, e di dimensioni maggiori delle
buche ‘D’. Di queste strutture emergono le volte semicrollate, o la pianta
messa a giorno da lavori di cava. Queste cavature di blocchi, di epoca
successiva, condotte sul banco roccioso affiorante della zona, son
testimoniate palesemente dai tagli lineari della roccia, fronti di cava,
osservabili nei pressi delle grotticelle, e che hanno asportato la parte
sommitale di queste, consumandone volte e pareti. Il resto delle cavità
ancora integro, è in gran parte ricolmo di terra.
Con molta probabilità le
cavità scavate nella roccia servivano a scopo funerario e insieme alle
bacinelle erano coinvolte nei riti di libagione e sacrificio, connessi ai
riti funerari e ai culti ctoni e più in generale betilici, che
coinvolgevano il megalite.
Come meglio tratteremo in
altri capitoli, il legame topografico tra tombe ipogee di epoca arcaica,
come di età più recenti, e menhir salentini a p.s., è molto forte, questo
a causa del valore betilico della pietrafitta, sentito non solo dai popoli
che eressero quelle stele, ma anche da gruppi umani di età successiva e di
religioni molto differenti, come quella cristiana, che abitarono i
medesimi luoghi in cui sopravvivevano ancora in piedi molti degli arcaici
megaliti.
Tombe o vere e proprie
necropoli di epoca cristiana, si osservano infatti talvolta ai piedi di
menhir a p.s. salentini.
Nelle leggende che ancor
oggi avvolgono le pietrefitte pugliesi, si scorge nella voce dei locali di
religione cristiana, la percezione dell’antichità, dell’origine
precristiana e del profondo universale valore religioso di quelle pietre.
I danneggiamenti subiti
dalle grotticelle del sito Vicinanze I, rendono arduo stabilire quali
caratteristiche potessero avere le orientazione di quei sepolcri. Forse le
loro aperture, se di piccole grotticelle davvero si trattava, erano
rivolte ad oriente. Ma la stessa scelta di quel costone roccioso per la
loro ubicazione comporta, data la locale orografia, proprio un esposizione
verso levante.
L’orientazione ad
oriente è molto frequente nei sepolcri tanto di epoca arcaica, quanto di
epoche più recenti; orientazione legata alle universalmente diffuse
correlazioni magico-religiose, tra culti funerari e culti solari.
Orientazione rispettata in moltissimi santuari e luoghi di culto tanto
pagani, quanto cristiani e di altre religioni. I resti meglio conservati,
della cavità indicata con A, suggeriscono una possibile orientazione
della sua apertura originaria, proprio ad oriente (vedi foto seguente).
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Figura 33: Vista del menhir Vicinanze I e del suo sito, da oriente.
Due cerchietti bianchi indicano la posizione delle cavità
sub-circolari D. Si nota in fondo a sinistra, indicata da un
cerchietto rosso, l'apertura della grotticella A di cui si scorge
parte della volta interna. Dalla cavità A e dalle posizioni D, era
possibile guardare il menhir e il punto di fuoco della raggiera;
quest’ultimo è indicato in figura con sufficiente precisione, nella
corretta posizione, dal cerchio giallo-rosso. Anche l’arco compreso tra
i raggi estremi rappresentati in rosso, tiene conto delle
effettive dimensioni della semi-raggiera incisa sul menhir. Delle
coppelle presenti sulla faccia maggiore orientale del megalite,
quella a vista nella foto, si è indicata, con un puntino giallo,
solo quella a destra dei segni cruciformi incisi. Questi ultimi son
stati rimarcati in viola. |
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Se fissiamo in
particolare il nostro punto di osservazione in corrispondenza della
grotticella A, ci posizioniamo circa a SW del menhir; il megalite allora,
e il punto focale esterno della raggiera, sono visibili dalla grotticella,
grazie anche alla sua apertura. Rispetto ad A, essi individuano grossomodo
la direzione NE.
In realtà ponendo il
punto di osservazione in ogni cavità del sito e guardando verso il menhir,
si individua una direzione compresa tra NE ed Est. Una orientazione dalle
importanti valenze calendariali come vedremo.
Sorge allora il dubbio
che tali circostanze di orientamento, possano essere forzate dalla
limitatezza dell’area archeologica indagabile. Osserviamo però, in attesa
di un approfondito scavo archeologico del sito, i seguenti due aspetti:
1.
esiste una diffusissima associazione dei menhir a
p.s. salentini con tracciati viari e incroci;
2.
proseguendo dall’incrocio di Vicinanze I verso
settentrione, è possibile raggiungere il vicinissimo menhir a p.s.
chiamato Vicinanze II, certamente eretto in epoche molto prossime al
menhir Vicinanze I, dati i moltissimi punti in comune tra i due;
sulla base di queste
premesse non possiamo escludere che i tracciati viari rurali che si
osservano oggi nei pressi del monolite, esistessero già ai tempi della sua
elevazione.
Alla luce di questa
considerazione, dell’orografia del sito, e del punto di ubicazione del
bethilos, sull’incrocio, all’estremità occidentale del banco roccioso
affiorante, non meraviglierebbe scoprire, che proprio l’area ad occidente
del monolite era quella, di tutto il sito circostante, più interessata
dalla presenza di cavità di valenza cultuale scavate nel banco roccioso.
In merito alla
possibilità che in aree rurali, un tracciato viario si sia mantenuto
grossomodo invariato per millenni, riporto qui una sorta di aneddoto,
ricavabile dai risultati degli studi archeologici condotti sull’immenso
patrimonio di arte rupestre scoperto nel secolo scorso in Val Camonica,
sull’Arco Alpino. Qui alcuni graffiti ritrovati incisi su rocce ubicate
sui fianchi della vallata, rappresentavano mappe dettagliate, di quanto si
poteva scorgere da quei punti; mappe del paesaggio sottostante. Quasi
delle fotografie scattate molti secoli prima e impressionate
indelebilmente sulla roccia. Colpì molto i primi studiosi di quelle
incisioni, scoprire che i tracciati viari, i confini dei poderi e persino
luoghi di ubicazione delle abitazioni di epoca contemporanea ricalcavano
esattamente le stesse posizione delle arcaiche struttura antropiche
riportate sulle mappe petroglifate!
Dopo aver fatto queste
premesse, torniamo allo studio archeoastronomico del sito di Vicinanze I.
Osserviamo che
collocandosi nel punto corrispondente alle cavità sub-circolari ‘D’, e
guardando il menhir e ancor più nello specifico, il centro della raggiera,
che ricade a destra del menhir, sempre dal nostro speciale punto di
osservazione fissato, si individua una direzione proiettata tra Est e NE,
che forma con la direzione dell’asse Est-Ovest, un angolo di circa 30°,
che ben si accorda con l’angolo che individua sull’orizzonte, il punto
esatto in cui sorge il sole, il giorno del solstizio d’estate.
Nel moto apparente del
sole, ogni giorno, l’astro sorge e tramonta in punti differenti
dell’orizzonte, rispetto ad un centro di osservazione fissato. Lo
spostamento di questi punti del sorgere e del tramontare del sole, segue
un percorso ciclico annuale, che scandisce anche l’alternarsi delle
stagioni.
In particolare, nel
giorno detto dell’equinozio di primavera, che segna l’inizio della
stagione primaverile, il sole sorge all’alba esattamente ad Est, e
tramonta esattamente ad Ovest; la durata del dì è uguale a quella della
notte. Da questo momento in poi il sole sorge in punti sempre più spostati
verso Nord, e le ore di luce solare aumentano nell’emisfero boreale, in
cui ricade la Puglia. Il punto di levata del sole continua a spostarsi
verso Nord, sino a raggiungere, nel giorno del solstizio d’estate, il
punto più settentrionale del suo ciclo, posto all’incirca ad ENE, (massima
amplitudine ortiva nord). In questo giorno, che segna
l’inizio dell’estate, il sole tramonta all’incirca ad ONO. Nel solstizio
d’estate la durata del dì è massima e quella della notte minima.
Nei giorni successivi, il
sole sorge in punti che si avvicinano sempre più all’Est, e le ore di luce
diminuiscono. Quando si raggiunge il giorno dell’equinozio d’autunno, che
segna l’inizio della stagione autunnale, il sole sorge esattamente ad Est
e tramonta precisamente ad Ovest, e anche in questo caso si ha un’uguale
durata del dì e della notte. Continuano a diminuire le ore di luce e il
punto in cui il sole sorge si sposta sempre più verso Sud, finché nel
giorno del solstizio d’inverno, che segna l’inizio della stagione
invernale, il sole sorge nel punto più meridionale del suo ciclo,
corrispondente all’incirca alla direzione ESE, (massima
amplitudine ortiva sud), e
tramonta all’incirca ad WSW; in quel giorno si ha la minima durata del dì
e la massima durata della notte. Proseguendo le ore di luce aumentano, il
sole sorge sempre più verso Est, fino al giorno dell’equinozio di
primavera, chiudendo così il suo ciclo annuo.
[In questa descrizione indicativa abbiamo tenuto conto di un
punto di osservazione posto grossomodo alle latitudini dell’area
mediterranea, pertanto le stagioni qui citate sono quelle dell’emisfero
settentrionale].
Il punto in cui il sole
tramonta segue dunque anch’esso un ciclo annuo, le cui posizioni sono
speculari a quelle dei punti in cui esso sorge, rispetto alla linea del
meridiano nord-sud, passante per il punto di osservazione fissato.
L'ampiezza del
"movimento" annuo del punto del sorgere e del punto del tramontare
dipendono dalla latitudine dell'osservatore collocato sulla superficie
terrestre e dalle caratteristiche dell’ orizzonte.
Noi consideriamo il caso
ideale di un orizzonte lineare, privo di rilievi, quale quello che si può
osservare in una ampia regione perfettamente pianeggiante o stando in
mezzo al mare molto lontano dalla terraferma. Data l’orografia dell’ area
circostante, questa approssimazione ideale è applicabile al sito di
Vicinanze I, eccezion fatta per la presenza di copertura vegetale del
terreno.
Per stimare in via
teorica le caratteristiche dell’arco descritto sull’orizzonte ideale dal
punto del sorgere del sole in corrispondenza del sito del Vicinanze I,
effettuiamo il seguente studio, cui sarà interessante far seguire precise
osservazione sperimentali in loco nei giorni dei solstizi e degli
equinozi.
Nell’ ipotesi di
orizzonte ideale:
·
alla latitudine di 0°, cioè all'equatore, l'arco di
orizzonte interessato dalla variazione del punto del sorgere ha la minima
ampiezza: 47° (=23°,5 x 2);
·
alla latitudine di 45°N, l'arco di orizzonte ha
un'ampiezza di circa 68°;
·
alla latitudine di 66,5°N, cioè sul circolo polare
artico, l'arco di orizzonte interessato dal punto del sorgere raggiunge i
180°.
Gli archi di orizzonte
del levare e del calare del sole hanno in uno stesso luogo e sempre
rispetto all’ orizzonte ideale, idem ampiezza e sono centrati
rispettivamente intorno al punto dell’Est e dell’Ovest, cioè hanno il loro
punto medio coincidente con quei punti.
Tenendo conto delle tre
latitudini per le quali conosciamo le ampiezze dell’arco del sorgere del
sole, attraverso una interpolazione possiamo prevedere approssimativamente
alla latitudine di 40° N del sito di Vicinanze, un arco di orizzonte
interessato dalla variazione del punto del sorgere, di circa 60° ( = 30° x
2).
latitudine del punto di osservazione |
ampiezza arco di orizzonte del punto del sorgere |
0° |
47° |
45° N |
68° |
66,5° N |
180° |
da interpolazione dei dati precedenti |
40° N |
circa 60° |
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Figura 34: Curva
di interpolazione. |
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Ovvero nel giorno del
solstizio d’estate il punto del sorgere del Sole si troverà di circa 30°
spostato verso Nord rispetto alla direzione dell’Est, mentre nel giorno
del solstizio d’inverno esso si troverà di circa 30° spostato verso Sud
rispetto sempre alla direzione dell’ Est.
Durante questo suo ciclo
annuo, il sole modifica giornalmente anche l’altezza massima raggiunta
sull’ orizzonte. Alla latitudine della Puglia, nell’emisfero boreale, essa
è minima nel solstizio d’inverno ed è massima nel solstizio d’estate. (Si
osservi lo schema riportato in figura).
Equinozi e solstizi
dunque formano, un complesso di quattro giorni importantissimi ai fini
della suddivisione dell’anno solare, poiché il loro alternarsi, solstizio
d’inverno, equinozio di primavera, solstizio d’estate, equinozio
d’autunno, segna l’alternarsi delle stagioni.
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Figura 35:
Schema riassuntivo del moto giornaliero apparente del sole,
osservato da un punto fisso sulla superficie terrestre; più
precisamente le inclinazioni delle traiettorie solari (archi diurni
del sole) qui riportate, rappresentano, grossomodo, quanto si
osserva nella fascia temperata dell’ emisfero boreale, dove ricade
la Puglia. Qui quando il sole passa sul meridiano locale, a
mezzogiorno per definizione, esso indica sempre inequivocabilmente,
il Sud, anche se la sua altezza sull’orizzonte muta di giorno in
giorno con ciclo annuo.
Sono evidenziate le traiettorie giornaliere del sole nei giorni
estremi del suo ciclo annuo, i solstizi e gli equinozi. |
Il solstizio d’estate è
il giorno dell’anno in cui maggiore è la durata del dì, e il sole
raggiunge la sua massima altezza sull’orizzonte. Un giorno importante
nella stima dell’avvicendarsi delle stagioni, per le antiche civiltà
agro-pastorali del Salento; un momento dell’anno percepito come dotato di
fortissima carica magica, perchè in esso il Sole esprimeva il massimo
della propria potenze, in termini di ore di luce, ma anche il giorno che
segnava l’inizio del declino della sua potenza. Dal solstizio d’estate in
poi le ore di illuminazione diurna diminuiscono, il dì si accorcia, e
tutte le antiche genti dell’emisfero settentrionale, sentivano il bisogno
di fare offerte al Sole, offrirgli doni e olocausti, accendere fuochi,
celebrare feste con canti e balli, per rinvigorire magicamente l’energia
dall’astro lucente e invogliarlo a non abbassarsi sull’orizzonte!
A Vicinanze I, da tutta
l’area interessata dalla presenza delle cavità oggi visibili, il menhir
appare grossomodo a NE.
Posti nella zona delle
grotticella ‘A’, ‘B’, ‘C’, nel giorno del solstizio d’estate, all’alba, il
menhir dovrebbe apparire, date le orientazioni del sito, di pochissimi
gradi spostato sulla sinistra rispetto al punto dell’orizzonte in cui
sorge il sole; il sole nascente dovrebbe apparire quindi, nello spicchio
di cielo immediatamente alla destra della stele, proprio sul lato indicato
dal fuoco della raggiera!
Sostando all’ alba del
solstizio d’estate, in corrispondenza delle fosse ‘D’, il centro della
raggiera indica sull’orizzonte, con buona approssimazione, l’esatto punto
il cui si leva il sacro astro.
L’altezza del fuoco,
circa 2,50 m da terra, permetteva forse di intercettare il sole
immediatamente al di sopra della copertura vegetale, che frastagliava e
copriva la perfetta linea dell’orizzonte, comunque lì abbastanza lineare,
data l’assenza di significativi rilievi collinari a NE del sito di
Vicinanze, e la presenza a circa 6 km di distanza in quella direzione, del
Mare Adriatico.
Si deduce dunque la
possibilità attraverso questo sito megalitico, di avere dei riferimenti
calendariali.
A tal fine infatti, non
vi era metodo migliore, se non quello di registrare nel primo anno le
posizioni del sole all’alba o al tramonto, e quindi in particolare nei
giorni degli equinozi e dei solstizi, fissando opportunamente dei
riferimenti, come solide pietre o pali ben infissi al suolo, che osservati
da prefissati punti di osservazione indicavano sull’orizzonte le
importanti posizioni estreme del sole; quindi disponendo di questo
semplice ma efficace calendario era possibile negli anni successivi,
prevedere il succedersi delle stagioni, prima che queste si palesassero
con i loro tipici fenomeni naturali.
Non solo nel sito del
Vicinanze I, si poteva stabilire il raggiungimento del giorno del
solstizio d’estate, ma il menhir stesso con le sue facce, almeno
originariamente, ortogonali alle quattro direzioni cardinali, permetteva
il loro riconoscimento, in particolare segnava la direzione del meridiano
passante per quel punto, essendo le sue superfici maggiori, ad esso, con
altissima precisione, parallele.
In merito al moto celeste del sole il menhir, permetteva
l’individuazione degli equinozi. Stabilito che la faccia maggiore del
menhir su cui è incisa la semi-raggiera solare, era perfettamente rivolta
ad oriente, era sufficiente mettersi esattamente dietro di questa, a
perpendicolo, per ‘vedere’ sorgere il sole esattamente dietro il menhir
nell’alba degli equinozi. E gli equinozi, come già ricordato, son due
giorni importanti nello studio del moto del sole a fini calendariali;
cadono in primavera ed autunno e sono gli unici due giorni dell’anno, in
cui il sole sorge esattamente ad est e tramonta esattamente ad ovest,
facendo sì che la durata del dì e della notte siano uguali.
Equinozi e solstizi hanno
da sempre scandito la vita economica e religiosa dell’ uomo.
Guardando la faccia
principale del megalite, quella esposta ad oriente, ponendosi di fronte ad
essa, si avrebbe anche un riferimento per il tramonto del sole negli
equinozi, e il punto di fuoco della raggiera esterno al bethilos e sulla
sua sinistra, può porsi in relazione con il punto dell’orizzonte in cui
tramonta il Sole nel giorno del solstizio d’ inverno, direzione WSW.
Attraverso il sito
megalitico di Vicinanze I, le genti locali avevano creato molto
probabilmente, un semplice sistema per misurare lo scorrere del tempo, al
fine di prevedere gli eventi stagionali; aspetto di essenziale importanza
per programmare attività agricole, pastorali, di caccia e raccolta, come
anche di pesca e navigazione; tutte attività umane in cui esigenze
economiche e magico-religiose erano inscindibilmente fuse tra loro. La
stessa inscindibile fusione che ritroviamo nel complesso megalitico di
Vicinanze I.
In merito alle
grotticelle ‘A’, ‘B’, ‘C’, alla bacinella ‘b’, e alle cavità sub-circolari
‘D’, praticamente la quasi totalità delle cavità artificiali osservabili
nel sito di Vicinanze I, sottolineiamo come la loro pianta,
prevalentemente circolare, potrebbe non derivare da mere esigenze
pratico-funzionali, ma celare simbologie astronomiche legate alla Luna e
al Sole, corpi celesti sferici, che appaiono dunque nel cielo, visti da
terra, come dischi, ovvero come corpi dal contorno circolare. Simbologie
di questo tipo, dalle valenze magico-religiose, hanno sempre influenzato
l’arte e l’architettura civile, religiosa e funeraria dell’uomo.
La presenza di simili
simbologie celesti nel contesto di Vicinanze I, risulta inoltre
perfettamente coerente e in accordo con quanto si sta scoprendo
attraverso questo studio sul sito archeologico indagato.
Riproducendo forme
celesti con piante circolari, in capanne, tholos, cavità semi-ipogee,
tombe ipogee, dolmen, tumuli, bacinelle, recinti ecc., si rappresentano
più o meno consapevolmente, astri del cielo sulla terra, si disegna cioè
il cielo in terra, invocando in tal modo, magicamente, un contatto in quei
luoghi, tra la dimensione celeste e quella terrena, la cui unione così
propiziata, è percepita archetipicamente e più o meno consciamente a
seconda della speciale cultura umana, come fonte di benessere per l’uomo,
il mondo vegetale e animale e persino per gli stessi defunti; unione tra
cielo e terra che trova, come meglio esporrò in seguito analizzando i
principi del culto betilico, nelle simbologie del bethilos, la sua massima
catalizzazione e realizzazione.
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Figura 36:
Vista satellitare del sito di Vicinanze I.
Si riconosce il quadrivio di strade presso cui sorge il megalite.
La linea rossa
rappresenta la direzione lungo la quale viene visto il Sole,
all’alba, nel giorno del solstizio d’estate, dal punto individuato
dal fuoco esterno della raggiera e il cui prolungamento raggiunge la
posizione delle cavità ‘D’. La linea azzurra indica la direzione
Est, in cui sorge il sole nei giorni degli equinozi, direzione
ortogonale alle facce maggiori del menhir, almeno nella sua
originaria orientazione.
La struttura
rettangolare grigia in basso al centro, è un edificio agricolo in
muratura, non molto antico; alla sua sinistra in verde si osservano
alcuni alberi di quercia, leccio, che in parte ricoprono con la loro
chioma l’area delle grotticelle. Si confronti questa foto con
quelle precedenti, per una migliore comprensione. |
É auspicabile, uno scavo
archeologico del sito. Esso permetterebbe di aumentare la nostra
conoscenza sulla vita e sul pensiero delle genti megalitiche salentine, e
fornirebbe uno studio attento delle cavità artificiali presenti, al fine
di far luce sulla loro destinazioni.
Anche uno studio
archeo-astronomico ancor più dettagliato e accurato, permetterebbe una
migliore comprensione degli eventuali ulteriori orientamenti del sito con
la volta celeste e con i moti degli astri.
Le suggestioni che
suscita il motivo della semiraggiera sono molto forti, e il pensiero corre
alla meridiana, lo strumento che serve per la misura del tempo, la
determinazione delle stagioni, e anche come mezzo di orientamento. Essa
utilizza a tal fine l’ombra del Sole proiettata da un asse rigido, detto
gnomone, su una superficie detta quadrante, in cui son generalmente incisi
a semiraggiera dei segmenti uscenti dalla base dello stilo.
Lo stesso menhir poteva
fungere da gnomone, e i menhir a pilastro squadrato potevano servire anche
per orizzontarsi, grazie alla loro precisa orientazione secondo i punti
cardinali, con le facce maggiori rivolte Est – Ovest, e le minori Nord –
Sud. Ciò nonostante ritengo che il bethilos, nasca essenzialmente con
valenze magico-religiose e assuma solo secondariamente valenze funzionali,
legate al rapporto dell’uomo con il territorio (orientazione, segnacolo di
confine, simbolo della proprietà privata), e con il tempo (gnomone, o
altro uso legato allo studio dei moti celesti). Ed è sulla base di questa
convinzione che nasce dallo studio dell’antropologia e delle religioni,
che in questo lavoro monografico sul menhir Vicinanze I, procederemo nella
valutazione dei dati raccolti.
La scoperta nei siti
megalitici e templari arcaici di importanti progettazioni astronomiche, e
la correlazione di queste soluzioni architettoniche con i valori
magico-religiosi del cielo e dei suoi astri, percepiti culturalmente e
archetipicamente dall’uomo in ogni epoca, ci spingono ad avanzar ipotesi
in tal senso, non solo per il complesso di Vicinanze I, ma anche per altri
siti archeologici salentini; ipotesi che naturalmente, devono essere più
accuratamente indagate e vagliate scientificamente.
Note sui
principi basilari del culto betilico |
Dopo aver discusso le
valenze economico-calendariali di un orientamento astronomico, le valenze
simboliche magico-religiose di un’eventuale correlazione del sito del
Vicinanze I, con i moto celesti, possono essere, facilmente comprensibili:
il legame degli ipogei sepolcrali con il Sole, la correlazione tra culti
ctoni e culti solari per propiziar la rinascita spirituale o materiale dei
defunti, e i riti di fecondità per l’uomo e la natura, che guardavano
all’inscindibile coppia cosmica Terra-Cielo( Sole ), che trovava nel
bethilos eretto con continuità (=monoliticità), tra la terra in cui
affonda la sua base e il cielo in cui svetta la sua sommità, la sua unione
fisica e simbolica. Ed è proprio da questa unione della coppia cosmica,
che si compie nel bethilos e che il bethilos stesso propizia, che deriva
il benessere per la natura e per l’uomo, la fecondità, e la rinascita
stessa dei defunti. Questo uno degli archetipi più importanti che ho
scoperto nello studio dei culti betilici, archetipo che affonda le sue
radici universalmente nelle strutture di pensiero più profonde dell’uomo,
e che oltre ai suoi forti aspetti magico-religiosi, non manca di avere un
contatto con la realtà fisica e biologica della vita! |
|
Confronto del motivo “petroglifo a
semi-raggiera” del menhir Vicinanze I con graffiti rupestri della Val
Camonica.
·
Il motivo del sole
nell’arte rupestre e megalitica. |
Il motivo del raggio di
sole e in particolare della raggiera e della semiraggiera compare in tutta
l’arte antica neolitica e protostorica soprattutto nella rappresentazione
del sole e di copricapi raggiati di eroi, sciamani o divinità. Molteplici
esempi in tal senso potremmo fare considerando gli ideogrammi trovati
incisi sulle rocce della Val Camonica sull’Arco Alpino, o dipinti sulle
pareti del santuario ipogeo neolitico e della prima età dei metalli di
Porto Badisco nel Salento; si pensi al copricapo semiraggiato del famoso
pittogramma noto come “lo stregone di Porto Badisco”, o “il dio danzante”,
o ai numerosi soli raggiati raffigurati lungo i cunicoli sotterranei della
sacra grotta carsica pugliese.
In questa sede
particolarmente significativo è il richiamo di un famoso “petroglifo del
sole” ritrovato in Val Camonica nel comune di Paspardo, in località Plas,
nella provincia di Brescia, e datato al periodo camuno III-A (III
millennio a. C.).
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Figura 37 |
Figura 38 |
Petroglifo del sole in località Plas, nel comune di
Paspardo in provincia di Brescia; foto del graffito a sinistra e
sua rese grafica a destra. Il petroglifo ha un altezza complessiva
di circa 35 - 40cm.
Per le accurate indagini
archeoastronomiche
effettuate sul petroglifo rimando al sito:
http://www.archaeoastronomy.it/la_roccia_camuna.htm,
da cui è anche tratta la foto qui riportata. |
É costituito da un cerchio affiancato da altri due più
piccoli e dal quale si dipartono tre fasci di raggi rivolti verso il
basso, con andamento verticale quello centrale ed obliqui gli altri due.
Ciascun fascio consta di tre lunghi raggi paralleli.
É inciso su una parete rocciosa quasi verticale e dalla sua
posizione è possibile scorgere durante tutto l’anno il punto in cui il
sole tramonta sulla linea dell’orizzonte disegnata dai profili dei monti
circostanti. Data anche la presenza di altri graffiti nell’area, sulla
stessa formazione rocciosa in cui è inciso il petroglifo, si è
interpretato quel sito come luogo di culto su altura dedicato al Sole
tramontante. Accurate analisi archeoastronomiche hanno permesso di
avvalorare l’ipotesi di una relazione del petroglifo e dei suoi raggi con
la rappresentazione simbolica dell'escursione annua solare sull'orizzonte
occidentale visibile dalla località Plas. Anche l’andamento dei suoi raggi
verso il basso è considerato simbolo di sole calante, mentre di solito
raggi uscenti dal disco solare verso l’alto negli arcaici ideogrammi, son
interpretati come simboli di sole nascente.
Nel sito di Plas la connessione tra raffigurazione del sole e
studio astronomico del suo moto apparente annuo è connaturata, con valenze
magiche, nel petroglifo stesso, poiché esso, oltre a rappresentare il sole
calante, contiene nella particolare apertura dei suoi tre fasci di raggi
uscenti, riferimenti angolari ai solstizi e agli equinozi osservati dal
sito della sua collocazione, e dunque relativamente ai punti di tramonto
dell’astro.
Questo legame tra sole
semi-raggiato inciso su pietra e osservazioni archeoastronomiche, rende il
petroglifo di Plas particolarmente suscettibile di confronti con la
semiraggiera di Vicinanze I, anch’essa incisa su “pietra” e intrisa di
significati magici e astronomici.
Il graffito solare di
Plas, non solo concettualmente, ma anche dimensionalmente, dato che è
lungo complessivamente circa 35 - 40 cm, è confrontabile con la, comunque
più grande ed ampia, semiraggiera di Vicinanze I.
Petroglifi del sole di
caratteristiche simili a quello di Plas si osservano sempre in Val
Camonica (ad esempio sulla faccia n. 1 del masso di Borno) e in altre
località europee. Non solo, petroglifi simili si ritrovano persino su
statue-menhir Valtellinesi di Caven e in quelle di Cornal e Valgella.
Si tratta probabilmente
della raffigurazione di pendagli ornamentali di valenza magica
rappresentanti il sole, e che conservano la loro valenza simbolica solare
anche nella rappresentazione sulle stele.
Il tema del più generico
sole come disco solare semplice o raggiato è ricorrente nell’arte rupestre
mondiale così come sulle rupi della Val Camonica.
In Val Camonica inoltre
soli raggiati si osservano frequentemente rappresentati anche sulle stele
incise ritrovate nella valle.
Questi veloci excursus ci
ha permesso di osservare la frequenza con cui compare il motivo del sole e
dei suoi raggi non solo nell’arte rupestre, ma anche nell’arte megalitica,
proprio raffigurato, in quest’ultimo caso, su “statue-menhir”
(“statue-stele” anche dette) e su semplici stele di età protostorica. Sui
significati magici di tali rappresentazioni torneremo nei paragrafi
successivi.
Nota: qui parliamo di
arte rupestre quando il supporto usato per graffiti e pitture, è
roccia naturale in loco, e di arte megalitica quando fan da
supporto pietre spostate dal sito e dalla giacitura naturale di origine,
collocate opportunamente ed eventualmente sbozzate o rifinite. |
|
Confronto del motivo “petroglifo a
semi-raggiera” del menhir Vicinanze I con motivi decorativi raggiati
dell’arte megalitica pugliese ed italiana.
·
Similitudini tra arte
rupestre e arte megalitica.
·
Note sulla simbologia
dell’ “occhio del menhir”; parallelismi con la cultura egizia. |
Nell’analisi delle
espressioni artistiche megalitiche italiane e pugliesi, possiamo ritrovare
alcuni interessanti esempi di riproduzione di raggi di luce su particolari
menhir, le cosiddette statue-stele o statue-menhir. Entrando più nello
specifico, i petroglifi, che qui analizzeremo, si osservano su alcune
statue-stele antropomorfe decorate calcolitiche, cioè del III millennio
a.C., della Lunigiana in Liguria, e della Puglia, e in Puglia anche su
statue-stele antropomorfe decorate del II millennio a.C..
Si tratta di uno o più
fasci di linee, che divergono da coltelli a punta triangolare di foggia
remedelliana (cioè con manico lunato), o campaniforme (cioè con manico a
pomo globoso o ogivale), rappresentati sulle stele maschili. Sporgono
generalmente dalla punta del coltello o in casi più rari da altre parti
dello stesso e si prolungano per brevi tratti. Questi fasci son chiamati
in gergo tecnico ‘fiocco’, nome dei ciuffi di cotone o lana non ancora
filati. Il nome indica implicitamente, come ancora non si sia data una
corretta interpretazione a questi elementi decorativi. Vengono
interpretati come rappresentazione di un fiotto di sangue o del fodero o
altra bardatura del coltello, oppure come raggi di luce o di “energia”
emessa dal pugnale. Se lo si interpreta come fiotto di sangue, il fiocco
rappresentava allora la potenza del pugnale, in grado di ferire e
uccidere.
Figura 39 |
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Figura 40. |
Si mostrano due coltelli a lama triangolare,
entrambi con raggi uscenti a semi-raggiera dalla punta, incisi su
stele calcolitiche della seconda metà del III millennio a.C.,
ritrovate a Sterparo Nuovo, nel foggiano. Sopra vediamo la resa
grafica di un frammento di stele maschile. A fianco si mostra la
resa grafica di una stele maschile integra alta 161 cm. Il coltello
sulla stele superiore è a pomo circolare (o globoso), quello sulla
stele a fianco ha pomo lunato.
Per ulteriori
dati sulle stele di Sterparo Nuovo, rimando agli interessanti studi
dell’archeologa Laura Leone, specializzata nello studio delle stele
calcolitiche europee, e che posson esser letti sul sito
www.artepreistorica.it,
di cui la studiosa è attenta e professionale curatrice. |
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Figura 41.
Stele antropomorfa recuperata nell’agro di
Mattinata, in provincia di Foggia. Era stata impiegata come
materiale lapideo per la costruzione di un muretto a secco. Il cippo
è in calcare locale, in forma di piatta lastra sub-rettangolare. É
lisciata nella faccia anteriore e solo grossolanamente sbozzata sul
retro. I bordi sono arrotondati. La stele presenta fratture in
corrispondenza della spalla sinistra e della sommità, dove era
abbozzata la testa.
Tre marcate linee orizzontali definiscono la cintura. La zona al di
sopra, corrispondente al petto, è dominata dalla raffigurazione a
rilievo di un grande pugnale a lama triangolare. Dalla punta
dell'arma fuoriescono quattro linee divergenti verso il basso, che
costituiscono il caratteristico ‘fiocco’. Il coltello caratterizza
inequivocabilmente, la stele come statua maschile. Sono
stilizzatamene raffigurate anche le braccia e le mani. La stele è
ritenuta risalente al II millennio a.C. Figura tratta da:
www. lunigiana
.net . |
Nell’età del rame e del
bronzo, portavano l’arma solo i maschi adulti, come simbolo della loro
virilità e della loro abilità guerresca messa al servizio della difesa
della famiglia e del clan. Rappresentato sulla stele, il coltello
simboleggiava questa valenza guerresca, di offesa e difesa, propria del
maschio in generale o del defunto cui la statua era associata, se questi
era morto in età adulta ed era di sesso maschile.
Rappresentare il
coltello aveva anche valenze apotropaiche e serviva per tener lontani
ladri, nemici e stranieri dal luogo sacro e/o funerario in cui le stele
erano poste, o da tutta l’area circostante, di cui le stele ribadivano
indirettamente il possesso da parte della comunità, che le aveva erette e
che lì risiedeva, come esse stesse attestavano con la loro presenza, da
generazioni. La proprietà privata derivava dalla consuetudine di
insediamento e sfruttamento di un luogo. Queste stesse valenze son
ovviamente presenti anche tra i valori semantici dei più tradizionali
menhir.
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Figura 42: Pugnale remedelliano scolpito sulla statua stele
lunigianese classificata come Bagnone A. Si osserva la classica
fascia di raggi, uscente in tal caso dal manico del coltello. |
Tornando all’analisi del
fiocco, a mio avviso, la forma dei raggi di questo, par maggiormente
concordare, tra le varie sin ora proposte, con l’ipotesi di
rappresentazione di raggi di luce; si osservano tratti rettilinei continui
incisi, più compatibili con raggi, che con gocce o fiotti di sangue. Il
coltello in rame aveva valore sacro data la sua alta utilità funzionale e
difensiva. Il colore rosso-giallo del rame, il suo esser ottenuto per
fusione della roccia metallifera, e dunque attraverso il fuoco, nonché la
sua lucentezza, lo associavano al Sole, e sebbene si trattasse di un
materiale estratto dalla terra, era ritenuto di origine solare. La luce
che rifletteva la lama era allora considerata come energia dell’astro di
origine, conservata nel rame ed emessa dal coltello. Quei raggi avevano
pertanto valore magico ed erano simbolo del legame sacrale del coltello
con il divino mondo celeste; simbolo della sacralità del coltello;
sacralità cui partecipava l’uomo, il maschio che possedeva la metallica
arma.
Dunque, ricapitolando,
anche se indirettamente riflessi, o emessi dal rame riscaldato, quei raggi
erano pur sempre ritenuti radiazioni di energia luminosa originata dal
sommo astro, principale fonte di luce nella natura, il Sole.
Le stele antropomorfe e i
loro decori, oltre al valore di comunicazione figurativa infraspecifica,
cioè tra uomini (trasmissione del ricordo degli antenati, preservazione
del loro culto, e attestazione del possesso della terra da parte di una
comunità), avevano un valore magico-religioso (apotropaico, betilico e
funerario); valori che riscontriamo nei più semplici e stilizzati menhir.
Pertanto oltre a ribadire
la magica potenza del pugnale di rame, anche i raggi provenienti dal
petroglifo del coltello, come i raggi di Sole rappresentati sui menhir,
hanno le stesse valenze, sono cioè simboli magici, invocazioni del Sole,
affinché inondi di luce il bethilos, e tanto il menhir, tanto la
stele-statua sono dei sacri betili. [Sul significato preciso del termine
bethilos e sulle sue valenze si veda quanto scritto nel glossario allegato
al termine di questo studio, in ogni caso su questi aspetti tornerò nella
monografia che intendo dedicare allo studio del culto betilico].
Non solo lo stesso
coltello di metallo, è ritenuto, per quanto osservato, simbolo solare,
talvolta ha persino pomo di forma sferica o circolare, come il disco del
Sole. Rappresentarlo vuol dire allora, raffigurare anche lo stesso Sole e
invocarne in tal modo magicamente, attraverso la sua rappresentazione, la
luce e il calore, la sua energia e dunque il suo spirito, sulla e nella
pietra betilica su cui è effigiato. Identico valore magico hanno gli
ideogrammi del sole graffiti su stele, come le rappresentazioni di
pendagli-simboli-solari sulle stele-statue citate nel precedente
paragrafo.
Allo stesso modo le
rappresentazioni dell’astro su rocce naturali in aree dalla valenza sacra,
perseguono il medesimo magico intento, con l’unica variante, che qui la
pietra supporto della rappresentazione non è stata asportata dal suo sito
geologico naturale, e opportunamente posizionata e sbozzata, ma è roccia
naturalmente lì presente, (al più preparata in superficie per accogliere
le incisioni talvolta evidenziate con pigmenti), che diviene però per la
sua forma o per la sua posizione, pietra sacra, dalle valenze potremmo
dire simili a quelle del classico bethilos. Ecco perché i petroglifi che
compaiono nell’arte megalitica come nell’arte rupestre rispondono alle
stesse logiche e agli stessi archetipi che spiegano le similitudini, che
si riscontrano tra le due espressioni artistiche, dove ritroviamo spesso
motivi simili (come coppelle, microcoppelle, bacinelle, canalette, simboli
solari, raggi di luce, rappresentazioni di coltelli di fogge eneolitiche
ecc.), e che sottendono anche similitudini cultuali relative al pensiero
religioso, ai riti e alle cerimonie che si compivano in corrispondenza di
stele e rocce naturali sacre.
Per restare in ambiente
salentino pensiamo alla coppelle, bacinelle e canalette di origine
artificiale che ho potuto riscontrare sui grandi massi sacri del campo
detto volgarmente “ de la Vecchia e de lu Nanni”, sull’altura in agro di
Giuggianello. Questi antichi segni attestano il coinvolgimento in antichi
riti di quei grandi massi levigati naturali, sporgenti dal suolo, e che
per la loro forma furono caricati delle stesse valenze religiose, che
vengono attribuite al bethilos per la sua verticalità e monoliticità. [Al
campo della Vecchia, e alle interessanti nuove osservazioni fatte sul
sito, dedicheremo uno studio monografico].
Nei menhir la presenza di
un solo “occhio” di forma circolare, nella parte media o superiore del
loro fusto, che ho osservato su numerose pietrefitte a p.s. pugliesi e su
alcune maltesi, ha dunque, tra i suoi molteplici valori semantici, anche
quello di rappresentazione del disco solare, con la stessa valenza magica
poc’anzi espressa.
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Figura 43: “Occhio del menhir”, nella pietrafitta Vicinanze I; si
tratta di un foro circolare cieco posto in alto al centro della
faccia maggiore rivolta a West (Ovest). In foto: vista da WNW
della parte superiore della stele. |
Il Sole nel suo
geroglifico del disco, viene comunemente rappresentato sugli
obelischi egizi decorati, tanto nelle iscrizioni lungo le pareti,
quanto nella porzione più alta di questi, sulle facce del piramidone
sommitale. É doveroso pertanto osservare la similitudine tra l’
“occhio del menhir”, soprattutto quando esso si presenta di forma
circolare, come nel menhir Vicinanze I e la raffigurazione del disco
solare sull’obelisco. La similitudine si deve al fatto che entrambi
i culti, quello dell’obelisco e quello del menhir, si fondano sulle
medesime radici psico-antropologiche, e son espressioni
diversificate, per motivi storici, culturali e geografici, della
medesima religiosità betilica. |
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Figura 44:Piccolo
obelisco con iscrizioni geroglifiche, risalente alla XX dinastia,
fatto ergere da Ramses III, nel tempio di Amon a Karnak. Si osservi
nelle due facce a vista, la presenza di un foro circolare cieco,
scolpito nella parte alte dell’obelisco, si tratta del simbolo
geroglifico di Amon-Ra, dio del sole. |
Il motivo a semi-raggiera
osservato sul menhir Vicinanze I, presenta moltissime similitudini con il
motivo a semi-raggiera del fiocco delle statue-stele. Per quest’ultimo
abbiam qui proposto per la prima volta, una spiegazione coerente con tutto
l’impianto simbolico dei menhir e delle stele-statue. Spiegazione che non
sarebbe stata possibile senza una comprensione profonda dei culti betilici,
e del pensiero magico dell’uomo, che risponde a profonde istanze
psico-antropologiche e trova la sua ragion d’essere nelle stesse strutture
psitiche inconsce dell’uomo.
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Il motivo a raggiera nella
cultura e nell’arte cristiana.
·
Origine
precristiana del petroglifo a semi-raggiera del menhir
Vicinanze I. |
Nel cristianesimo,
troviamo frequentemente rappresentato il motivo della raggiera completa,
nell’ostensorio, l’arredo in cui si mostra ai fedeli l’ostia consacrata;
qui da un cerchio centrale si diparton raggi tutt’intorno. Semi-raggiere,
che dall’alto scendono verso la terra, sono frequenti in rappresentazioni
dello spirito santo e della sua discesa dal cielo, in forma di bianca
colomba lucente e raggiante. Frequente è anche la raffigurazione di
semi-raggiere, che irradiano da un crocifisso o dalla statua di un santo,
di Cristo o della Madonna e che inondano di luce soggetti santi
rappresentati in momenti di valenza agiografica, quali lo stato di estasi
mistica o l’impressione delle stigmate. Spesso avvolti da contorno
luminoso e raggiato sono rappresentati santi, il Cristo e la Madonna,
soprattutto nella narrazione figurativa di loro leggendarie apparizioni.
Ciò nonostante, tentar di
ricondurre il motivo dei raggi di luce del menhir Vicinanze I, ad una mera
raffigurazione cristiana, risulta alquanto difficile, e questo anche se
poco più in basso, sulla stessa faccia con raggi, si osserva la presenza
di due croci ben incise, sulle quali molto diremo nel paragrafo
successivo.
La mancata
rappresentazione sul menhir, del disco solare irraggiante del fascio, che
ricade idealmente all’esterno dove è il punto di fuoco, connota il
graffito dei raggi come elemento magico di congiunzione del menhir fisico
con un’entità concettuale e reale esterna ad esso, il Sole. Sebbene ogni
raffigurazione religiosa, pagana e cristiana, abbia di fondo un valore
magico-propiziatorio nei confronti del divino, questo aspetto è espresso
nella massima potenza in forme artistiche arcaiche meno convenzionalizzate
e normate, quali quelle ad esempio dell’arte megalitica e rupestre, mentre
nell’arte cristiana la valenza descrittiva e narrativa dell’opera
figurativa spesso supera quella magica. Proprio questo aspetto meramente
descrittivo è assente nel menhir Vicinanze I, come dimostra la non
rappresentazione dell’entità fonte di quella luce, che pur si raffigura
sul menhir con valenza pertanto pienamente magica.
Riguardo alla presenza
poco più in basso di croci graffite, ci limitiamo in questo paragrafo a
sottolineare che questi segni cruciformi sono incisi con tratti molto
diversi e più evidenti, rispetto ai tratti della semi-raggiera; differenze
dovute al fatto che probabilmente mani diverse e con diverse tecniche,
hanno inciso le croci e i solchi-raggio di luce. Si aggiunga anche, che i
due motivi graffiti paion tracciati in epoca diversa; più antica per i
raggi poiché questi sembrano molto più usurati dei segni cruciformi.
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Il menhir raffigurato sul menhir.
·
Analisi dei petroglifi
cruciformi incisi sul menhir Vicinanze I.
·
Scoperta di un antico
graffito raffigurante sul menhir il medesimo menhir. |
Anche se sin ora nello
studio dei menhir a p.s. salentini, abbiamo rimandato l’analisi attenta
dei segni cruciformi incisi ad un approfondimento successivo, in questa
sede analizzeremo attentamente quelli presenti sul menhir Vicinanze I,
perché come mostreremo, sono stati realizzati integrando un petroglifo più
antico.
Iniziamo dalla semplice
descrizione dei segni cruciformi osservabili.
Il menhir presenta solo
due croci evidenti, incise entrambe con forte tratto, presenti entrambe
sulla faccia maggiore del monolite rivolta ad Est.
L’analisi delle superfici
con tecnologie più sofisticate, potrebbe portare alla scoperta di altre
croci graffite sulla stele solo superficialmente e ormai molto abrase. Sui
menhir a p.s. è infatti frequente ritrovare croci graffite in maniera più
decisa e altre solo lievemente scalfite.
Tornando all’analisi
delle due più evidenti e certamente principali croci, procediamo ad una
loro accurata descrizione.
Sono disposte quasi
centralmente, e si sviluppano a partire da un’altezza di 90 cm dalla base
della pietra verticale. Son poste l’una al di sopra dell’altra, a circa 1
cm di distanza.
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Figura 45:
Menhir Vicinanze I. Particolare delle due croci
incise sulla faccia maggiore rivolta ad Est.
Si
può osservare nella foto una microcoppella a destra della croce
superiore. |
Figura 46: Resa
grafica delle due croci. Definiamo ‘croce piena’, quella superiore,
‘croce lineare’ quella
inferiore. |
La croce lineare, ha tratto inferiore, basale, allungato; è
dunque una ‘croce latina’. É leggermente spostata sulla sinistra rispetto
all’asse verticale della faccia della pietrafitta, su cui è graffita. É
ottenuta incidendo due segmenti, che si intersecano a perpendicolo,
secondo lo schema lineare più semplice e schematico adottato per
rappresentare la croce cristiana, ed uno dei più frequenti tra quelli
adottati per la raffigurazione di croci incise sui menhir pugliesi e non
solo, anche maltesi e bretoni ad esempio. Su questi menhir europei,
troviamo frequentemente croci incise allo scopo espressamente perseguito,
o anche semplicemente inconscio, di cristianizzare il menhir.
L’incisione della croce però, la troviamo anche su massi e
rupi interessati da graffiti di arte rupestre, espressione di religioni
pagane; si tratta anche lì di croci incise in epoca cristiana con i
medesimi intenti cristianizzanti, e anche in questo caso le croci più
frequentemente graffite sono quelle lineari.
Al di sopra della croce latina schematica, che abbiamo
chiamiamo ‘croce lineare’, del menhir Vicinanze I, ne osserviamo una
seconda, sempre latina, di dimensioni poco maggiori e piena, che
chiameremo ‘croce piena’; è cioè costituita da un gambo centrale, ottenuto
incidendo il perimetro di un rettangolo verticale, e da due braccia,
ottenute tracciando lateralmente nel medesimo modo, due rettangolini
orizzontali;
questi ultimi hanno lato minore più piccolo del lato minore
del rettangolino verticale centrale.
Si tratta di una tipologia di croce originale, attestata sin
ora solo su questo menhir.
Il De Giorgi, come già
ricordato, scriveva nel suo articolo sui menhir della Provincia di Lecce,
in merito al Vicinanze I: “sulla faccia volta ad Est vi è graffita una
croce. “
Il De Giorgi parla
solo di una croce sulla faccia levantina, mentre oggi se ne leggono due.
Credo che tale anomalia, tra quanto riportato dallo studioso e quanto oggi
osservabile, possa avere una delle due seguenti spiegazioni:
-
delle due
croci molto vicine tra loro, una, quella che chiamiamo ‘piena’, spicca
decisamente sull’altra; forse questo porto il De Giorgi a non accorgersi
e a non registrare nei suoi appunti presi in loco, o a non ricordare in
seguito nel momento della stesura dell’articolo, la presenza della
seconda croce meno appariscente, quella ‘lineare’;
-
una delle
due croci è stata forse eseguita successivamente alle osservazioni dello
studioso, e in virtù delle ipotesi che faremo in seguito, credo debba
ritenersi, in tal caso, preesistente la ‘croce piena’
Delle due ipotesi
quella che ritengo più probabile è la prima, più coerente con la lettura
complessiva della genesi dei due graffiti cruciformi che qui svilupperemo,
e con l’antichità di molte delle croci che si osservano sui menhir a p.s.
; si aggiunga anche che il De Giorgi, nei suoi studi sui menhir salentini,
non si soffermò mai particolarmente sull’analisi dei petroglifi incisi
sulle loro superfici, limitandosi solo a indicazioni, generalmente
sommarie e indicative, sulla presenza di eventuali ed evidenti segni
cruciformi, solo saltuariamente descritti con l’aggiunta di qualche
osservazione.
Colpisce subito la differenza tipologica delle due croci, che
però son incise con tratti forti e decisi, come se fossero state
realizzate quasi dalla stessa mano, e son inoltre entrambe ‘croci latine’!
[Si definisce ‘croce latina’, quella in cui il ramo inferiore è allungato;
‘croce greca’ quella in cui tutti e quattro i raggi della croce son
uguali].
Non si comprende poi, neppure l’esigenza di rappresentare due
croci, così diverse, tanto vicine tra loro, quando le facce del monolite,
prive di segni cruciformi, per lo meno così decisi come questi, si
presentavano atte, ad una più omogenea distribuzione delle due grandi
croci!
Si aggiunga che il
petroglifo della ‘croce piena’ con le modalità stilistiche che compaiono a
Vicinanze, non si è riscontrato sin ora su nessun altro menhir, dove pure
si trovano croci incise in varie e molteplici varietà (come elencheremo
nello studio dedicato alle croci incise sui menhir), né ho sin ora
osservato alcun motivo rupestre o altrove inciso, paragonabile a questo,
con gambo continuo rettangolare e braccia formate da due altri
rettangolini con margini graffiti, come per il rettangolino verticale
centrale. Né la ‘croce piena’ di Vicinanze rientra in alcuna delle
classiche e più note tipologie stilistiche di croce cristiana.
L’analisi della composizione delle due croci di Vicinanze I,
suscita tanti interrogativi e perplessità cui possiamo dare le seguenti
risposte chiarificatrici.
Le anomalie sin qui sottolineate, si spiegano, come esporrò,
alla luce della seguente osservazione-ipotesi: le due croci incise sul
menhir Vicinanze I, non rappresentano solo la cristianizzazione del menhir,
ma anche e al contempo quella di un antico petroglifo, arcaico e ‘pagano’,
integrato all’interno del petroglifo ‘croce piena’!
|
Figura 47: Resa grafica del petroglifo rappresentante un menhir a
p.s. in generale o il medesimo menhir Vicinanze I, riprodotto sullo
stesso menhir, ed estrapolato dal petroglifo della ‘croce piena’, di
cui costituisce il gambo centrale. Lo chiameremo ‘petroglifo
betilico’. |
Osservando attentamente quest’ultima, notiamo che le braccia
laterali non intersecano l’asse centrale, palo della croce. Quest’ultimo
poi in quanto di forma rettangolare, verticale e continuo ricorda
immediatamente la sagoma dello stesso menhir, proprio come appare
guardando frontalmente la faccia maggiore del megalite, dove le due croci
son graffite.
Ricapitolando, l’ipotesi che qui propongo, è che quel
rettangolo centrale sia un graffito già presente sul menhir prima
dell’intervento cristianizzante, e della conversione in croce dello stesso
petroglifo attraverso l’aggiunta delle braccia.
Il rettangolo verticale inciso rappresentava lo stesso menhir
sul menhir, e fu graffito contemporaneamente all’elevazione del menhir o
dopo, comunque sempre in seno alla cultura locale pre-cristiana, che
riconosceva profondi valori religiosi ai menhir.
Il menhir è rappresentato in maniera molto semplice,
bidimensionalmente e in vista frontale. Trattandosi di un rettangolino con
lato maggiore verticale, è dunque un menhir a p.s., la stessa tipologia
del menhir su cui è graffito, e qualora si trattasse proprio della
rappresentazione dello stesso menhir Vicinanze I, come è molto plausibile,
di quel monolite l’antico incisore ha inteso rappresentare proprio la
stessa faccia maggiore e principale, su cui è effigiato il graffito. Una
raffigurazione stilizzata che ben si accorda all’antica arte megalitica e
più in generale rupestre.
La rappresentazione della stele sulla stessa stele (menhir),
che può apparire un’azione poco comprensibile e inutilmente ridondante,
nasconde invece profonde valenze religiose.
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Il menhir rappresentato sul menhir.
Confronti con la civiltà punica.
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La stessa usanza di rappresentare un bethilos su un bethilos,
la si riscontra anche in altre culture che espressero il loro culto
attraverso l’elevazioni di cippi sacri. Ad esempio presso le genti fenice,
e dunque a Cartagine, nella Fenicia, nella Sardegna punica e in altre
isole dominate da Cartagine, come nelle colonie puniche più in generale,
si immolavano fanciulli alle divinità, in particolare alla divinità solare
chiamata Baal-Ammon, o più genericamente Baal, principale divinità
maschile, e, in misura minore, ad Astarte (la punica ‘Tanit’), principale
divinità femminile. I loro resti erano sepolti in aree chiamate ‘tophet’
(‘area sacra’), preposte ad accogliere nella terra i vasi fittili
contenenti le ceneri delle vittime cremate, talvolta persino bruciate
vive. Accanto all’urna cineraria, veniva eretta una stele, e se ne
ritrovano talvolta a centinaia nei ‘tophet’. Il termine ‘molk-moloch’
inciso talvolta sulle stele, designava il sacrificio celebrato per il dio.
Alcune di queste stele avevano raffigurato sulla loro faccia
principale in bassorilievo, semplici betili, cioè la sagoma di una
colonnina o di un cippo.
Si trattava cioè di cippi raffigurati sugli stessi cippi!
L’ipotesi più accreditata, e in parte corretta, è che questi
semplici petroglifi-betilici fossero rappresentazioni della divinità in
maniera aniconica, cioè non figurativa, ma una loro piena comprensione non
può aversi senza una approfondita conoscenza dei principi del culto
betilico.
Nel “tophet” di
Cartigine, vero e proprio cimitero per bambini sacrificati al dio
Baal-Ammon, fra il 400 a.C. e il 200 a.C. fu deposta una quantità di
urne che si stima in circa 20.000 unità. Queste urne contenevano le
ossa calcinate di neonati e in qualche caso di feti o di bimbi
attorno ai due anni. |
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Figura 48:
Vista del tophet di Cartagine.
Partendo dall’angolo destro inferiore della foto e proseguendo verso
l’alto, il
secondo pilastro che si incontra mostra scolpito al centro un
pilastro, un colonnino. Dalle due foto si comprende la grande
varietà di forme e decori delle stele dei tophet.
Foto
tratta da
http://homepage.mac.com/melissaenderle/tunisia/carthage.html |
Figura 49:
Cippi monolitici proveniente dal
tophet di Cartagine. Quello di maggiori dimensioni rettangolare e di
piccolo spessore ha la faccia maggiore e principale scolpita; in
particolare si osserva rappresentata al centro in altorilievo una
generica stele a pilastrino squadrato, non dissimile da quelle
reali, che si osservano di fronte ad esso nella foto.
Foto
tratta da
http://homepage.mac.com/melissaenderle/tunisia/carthage.html |
In coerenza con la concettualità betilica, il menhir stesso
ha tra i suoi molteplici e tra loro coerenti, valori semantici, quello di
esser rappresentazione aniconica delle divinità.
Le stele rappresentate sui cippi fenici, non sempre
riproducono il medesimo cippo su cui son rappresentate, ma un cippo o
colonnino eventualmente di fattezza differenti, o addirittura il ‘triplo
betilo’, sulla cui simbologia torneremo in seguito. É il concetto del
bethilos a se, quello che si vuole rappresentare sulle stele puniche, cioè
il concetto generale e idealizzato del cippo, nel suo valore semantico
magico e religioso.
A Vicinanze, il bethilos-petroglifo rappresenta un menhir a
p.s., effigiato su una pietrafitta della medesima tipologia. Data la
diffusione della tipologia di menhir a p.s. nella cultura betilica
salentina, è difficile stabilire se l’incisore abbia voluto rappresentare
il medesimo menhir, o il concetto più generale di bethilos sul bethilos.
Probabilmente entrambe le intenzioni operarono nella mente dell’“artista”
(o forse uomo preposto al culto), sebbene a livelli di coscienza
differenti.
Un processo psicologico a “circolo chiuso”, spiega il senso
della rappresentazione semanticamente rafforzativa, del bethilos sul
bethilos. Nel culto betilico, il bethilos è, religiosamente, sede del dio
e diviene perciò raffigurazione del dio stesso. Per far sì che un bethilos
fisico, reale, sia pervaso dallo spirito del dio, vi si rappresenta sopra
l’icona del dio medesimo, lo stesso bethilos, sperando che il dio più
facilmente riconosca la propria casa nel menhir, vedendo la sua
rappresentazione aniconica sulla struttura lapidea, e vi si stabilisca o a
livello magico per il potere attribuito alla raffigurazione artistica, la
stessa rappresentazione dell’icona del dio sul cippo, garantisce la
presenza in esso del divino spirito.
Abbiamo effettuato questo confronto con la civiltà punica
senza voler per questo stabilire influssi diretti, tra la Puglia e la
civiltà fenicia. Lo stesso dicasi per il seguente confronto con la civiltà
egizia. Indubbiamente contatti molteplici e frequenti con fenici e altre
genti d’oriente vi furono nella Puglia antica, ma i confronti qui esposti,
servono solo per far capire come, quella che io chiamo, la pugliese
“religione dei menhir”, non sia avulsa dal contesto mediterraneo ed
europeo, ma rappresenti una peculiare forma assunta in questa terra,
protesa tra occidente e oriente, del più generale e universalmente diffuso
culto betilico. Evoluzione locale manifestata dalla forte tipicità
tipologica del menhir a pilastro squadrato, particolarmente diffuso nel
Salento e della quale sarà interessante ricercare i fattori culturali,
tecnici e legati alle disponibilità materiche del territorio, ricco di
differenti varietà di roccia calcarea, che modellarono la “forma”, assunta
in Puglia dal “culto betilico”.
Il sacrificio umano
nella Puglia antica.
La pratica del sacrificio umano (legata spesso al culto della
stele, come facilmente comprensibile presso le genti puniche), era
diffusissima in Europa e nel Mediterraneo in epoca protostorica e in
alcune aree continuo ad esser praticata fino alla definitiva
diffusione del cristianesimo. In Puglia è attestata con certezza
nella Daunia, come si deduce da alcune scene scolpite sulle locali
stele daune della prima età del ferro. Ma, medesime pratiche
interessarono anche il resto della Puglia e la sua propaggine
meridionale, il Salento, e anche qui in relazione al locale culto
dei menhir; queste recenti scoperte, frutto sempre dei miei studi,
saranno ampiamente esposte in un mio intervento monografico. Sempre
in un altro scritto, spiegherò, alla luce degli archetipi del “culto
betilico”, le ragioni per cui la stele è collegata alla pratica del
sacrificio di animali in generale e a quella del sacrificio umano
più in particolare. |
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Il menhir
rappresentato sul menhir. Confronti con la civiltà egizia.
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Rappresentazioni di un bethilos sullo stesso bethilos, si
hanno anche sui più noti monoliti megalitici egizi, gli obelischi. Questi
hanno quattro facce lisce come i menhir a p.s. salentini e sono
caratterizzati da sezione quadrata, facce verticali o rastremate verso
l’alto, soprattutto nei più grandi, e piramidetta in testa, il cosiddetto
piramidone. Furono eretti in tutta la storia antica dell’Egitto, con
certezza, almeno a partire dal III millennio a.C., fino all’epoca della
dominazione romana.
Nelle iscrizioni geroglifiche, che spesso adornano le loro
superfici, ritroviamo frequentemente, proprio il geroglifico
dell’obelisco. Questo rappresenta un piccolo obelisco in maniera
bidimensionale e frontale, generalmente con un quadrato per la base, un
rettangolo verticale per il fusto, e un triangolo in sommità per
rappresentare il piramidone. Il suo valore semantico è l’obelisco medesimo
su cui è effigiato o un qualsiasi altro obelisco, questo a seconda del
senso della frase geroglifica in cui è inserito. Dunque anche qui il
petroglifo-bethilos rappresentato su un bethilos, può rappresentare il
medesimo o un altro qualsiasi bethilos.
Le iscrizioni geroglifiche che spesso adornavano gli
obelischi regali egizi, esprimevano la dedica del megalite al dio sole, e
la erezione dello stesso per volontà del faraone, per glorificare la
propria grandezza, o commemorarne le gesta, compiute sempre grazie al
favore delle divinità solari sue protettrici e delle quali era anche
ritenuto egli stesso, terrena incarnazione.
L’obelisco egizio come il
menhir salentino, appartengono alla stessa categoria simbolica e
monumentale, quella del “sacro bethilos”. E così come talvolta i menhir
salentini son correlati a tombe o piccole necropoli, così anche in Egitto
si ritrovano, oltre agli obelischi dei santuari, spesso di grandi
dimensioni, obelischi minori collocati davanti alle tombe; si parla in
questo caso di obelischi di piccole dimensioni o di monumenti obeliscoidi.
Come ricaviamo da dati
archeologici e soprattutto dalla traduzione dei testi geroglifici, la
principale divinità connessa all’erezione degli obelischi egizi era Ra,
dio del sole, e proprio il legame con il Sole dei menhir salentini è uno
degli elementi, che attraverso questo studio sul Vicinanze I, in maniera
molto forte è stato riscontrato, confermando così quelle previsioni, che
sempre in base ai principi della religiosità betilica, già avevamo
dedotto.
Così come i menhir a p.
s., anche gli obelischi erano orientati e posizionati con molta precisione
in punti prestabiliti, in relazione al moto apparente dal sole, in modo da
far sì che in momenti importanti dell’anno, questo sorgesse o tramontasse,
se osservato da speciali e significative posizioni nelle aree santuario in
cui erano collocati, passando al di sopra dell’obelisco o al suo fianco;
aspetti analoghi a quanto stiamo scoprendo per i menhir salentini a p.
s..
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Figura 50: Foto del grande obelisco ancora in piedi
nella città di Luxor, in Egitto, che traduce suggestivamente,
l’archetipo del bethilos come raggio di luce che unisce il mondo
celeste al mondo terrestre e ctonio, degli inferi.
Foto tratta da:
www.touregyptphotos.com |
Aggiungo che nelle
iscrizioni geroglifiche egizie, degli obelischi si esaltava la loro
monoliticità, aspetto che assume spesso grande importanza simbolica nel
culto betilico, e che è rispettato anche nella cultura megalitica
salentina.
Ma elemento qui ancor di più forte rilevanza, che non
posso tralasciare, è il legame simbolico dell’obelisco egizio con i raggi
del sole.
Il grande scrittore
latino Plinio il Vecchio, vissuto tra il 73 e il 29 d. C., nella sua opera
enciclopedica intitolata ‘Storia Naturale’, riferisce (36,14), che gli
obelischi simboleggiavano i raggi del sole.
Non solo da
iscrizioni geroglifiche sappiamo che durante la breve riforma religiosa di
Akhenaton, prima accennata, quando
alla venerazione del dio sole Amon-Ra, si sostituì quella del dio sole
Aton, si diceva che l’obelisco fosse un raggio di sole pietrificato
uscente dal disco solare, chiamato proprio Aton e massima rappresentazione
del dio omonimo.
Tutto questo esalta ancor più l’importanza delle scoperte
fatte a Vicinanze, dove raggi di sole son effigiati proprio sul menhir, e
‘illumina’, è il caso di dire, sugli archetipi stessi della concettualità
betilica.
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Il menhir come
rappresentazione aniconica
del dio
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Presso i nabatei.
Considerazioni sulla
destinazione di bacinelle, coppelle, canalette e fori scavati ai piedi e
in testa ai menhir salentini.
Considerazioni sul legame menhir-grotta.
Ulteriori esempi, oltre a quello punico, della raffigurazione
del dio in forma betilica, si hanno considerando la cultura dei nabatei,
antica popolazione dell’Arabia settentrionale. Capitale del regno nabateo
tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C., fu una città posta nella
regione della Giordania, caratterizzata dal fatto di esser stata
interamente scavata nella roccia, tanto che i greci la battezzarono Petra,
cioè “città di pietra”. Nella capitale nabatea, si osservano numerose
rappresentazioni di betili a p.s. o obeliscoidi, scolpiti sulle pareti
rocciose; sono rappresentazioni aniconiche di divinità nabatee, in
particolare del dio Dusares, principale divinità maschile del pantheon
nabateo. La corrispondente massima divinità femminile era Al-Uzza.
I nabatei svilupparono un
forte culto betilico, tanto che nei luoghi di valenza cultuale della città
di Petra, templi, santuari e aree funerarie, oltre ai bethilos raffigurati
sulle pareti rocciose, vi si erano stati eretti molti altri cippi o pietre
sacre.
Spiccavano tra tutti i betili della città, due
obelischi alti ciascuno 6 metri e ricavati scavando tutto intorno a loro,
la montagna. Sorgono a 30 metri di distanza l’uno dall’altro in un’area
chiamata Djebel al-Madhbah (letteralmente “Posto Alto del Sacrificio”),
sulla colina di Attuf. Là, in correlazione a quelli obelischi, i nabatei
compivano i loro sacrifici rituali, in accordo con il legame, che nel
culto betilico, si osserva tra menhir e sacrifici.
Figura 51: Uno dei due obelischi di Petra, situati sulla collina di
Attuf, nel Djebel al-Madhbah. |
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Nel sito di Djebel al-Madhbah, si osservano bacinelle e
canalette scavate nella roccia; servivano per raccogliere il sangue delle
creature immolate. Il ritrovamento di alcune bacinelle e canalette ai
piedi di alcuni menhir salentini, tra cui lo stesso Vicinanze I, conferma
l’esistenza di pratiche di sacrificio anche nella ritualità che
coinvolgeva le pietrefitte salentine, il tutto coerentemente con la
religiosità betilica. Vedi anche a tal proposito la mia monografia
“Antichi sacrifici all’ombra dei menhir ”.
Quei due grandi obelischi del Djebel al-Madhbah son ritenuti
monumenti votivi dedicati alle due più importanti divinità nabatee,
Dusares e Al-Uzza, e molto probabilmente erano identificati con le
divinità stesse, o con la loro dimora terrena, motivo per cui i sacrifici,
che lì si svolgevano, era celebrati anche in loro onore. Ma lo scopo
profondo di quei riti, come in generale di ogni rito betilico, era
propiziare la fertilità, cui si legava la duale coppia divina, Dusares e
Al-Uzza, infatti Al-Uzza, femminile dea della Luna, era invocata dalla
popolazione, come la guardiana della prosperità e della fertilità.
Osserviamo infine che la regione di Petra, prima
dell’occupazione degli arabi nabatei, era abitata nel XIII secolo a.C. da
genti semitiche, lo stesso gruppo etnico, cui appartenevano i cananei
(fenici) e le tribù israelitiche. La regione di Petra era chiamata nella
Bibbia, Shera o Seir, e lì già gli elamiti, veneravano un dio, certamente
solare, appellato “Dhu-esh-Shera”, letteralmente, il “Signore di Shera”. I
nabatei, conquistata la regione di Seir, mantennero la venerazione della
locale divinità, deformando nel nabateo Dusares, l’antico titolo divino
Dhu-esh-Shera.
I cananei e le tribù nomadi arabe erano solite sacrificare
animali su grandi rocce erette verticalmente, preferibilmente in luoghi
elevati. Qui versavano il sangue delle vittime sulla stessa pietra o in
piccoli fori vicino a questa.
Queste pratiche permettono di far ulteriormente comprendere
la destinazione di fori, scavi, bacinelle, e canalette riscontrabili in
siti pugliesi di tradizione megalitica, come anche ai piedi dei menhir
salentini. Non solo anche le stessa bacinelle, coppelle, fori e canalette
scavate nella parte sommitale, non a caso piatta dei menhir a p.s.
salentini, possono trovare lettura in tal senso. A questo argomento
dedicherò presto uno studio più esteso e documentato.
Considerazioni
sul legame menhir-grotta |
Un elemento interessante della città di Petra è l’intima
correlazione che si riscontra tra bethilos e santuari, templi e luoghi di
sepoltura scavati interamente nella roccia. Benché motivazioni culturali,
economiche, storiche e geografiche, spieghino la realtà rupestre della
capitale nabatea, non possiamo non sottolineare come la correlazione
bethilos-ipogeo, che ritroviamo frequentissima anche nel Salento, abbia le
sue radici più profonde negli archetipi stessi della concettualità
betilica.
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Figura 52: Petra, sepolcro ipogeo scavato nel monte, noto come
“Tomba dell’Obelisco”. É così chiamato per via della presenza di
grandi betili obeliscoidi scolpiti in altorilievo sulla parete
esterna del colle in cui si apre l’ingresso del sepolcro ed è
scolpita la facciata dello stesso.
Si noti l’intima correlazione tra bethilos ed ipogeo.
Foto tratta da
www.shieldsaroundtheworld.com |
Di questi aspetti tratterò più approfonditamente analizzando
il legame bethilos-grotta, che ha caratterizzato la civiltà salentina da
epoche arcaiche, sin quasi all’età moderna.
Presso i fenici.
La principale divinità
maschile fenicia era Baal, mentre la principale divinità femminile, dea
dell’amore e della fertilità, era Astarte (corrispondente alla punica
Tanit).
Baal simboleggiava il
principio maschile in tutti i suoi aspetti, così come Astarte
rappresentava quello femminile; insieme costituivano la divina coppia
fenicia.
Nelle vicinanze degli
altari dedicati al dio Baal, venivano spesso erette colonne sacre,
rappresentazioni aniconica del dio.
Presso gli antichi egizi.
L’identificazione del bethilos con la divinità stessa o con
la sede della divinità, appare anche ancor più evidente nel pensiero
teologico egizio.
Si credeva infatti, come si deduce da iscrizioni egizie, che
il dio sole stesso, Ra (o ‘Amon-Ra’) esistesse all'interno della struttura
monolitica, che pertanto ne diveniva sua stessa rappresentazione e
simbolo.
Per questo motivo anche, ai piedi degli obelischi egizi si
offrivano al dio offerte e doni devozionali, e si versavano libagioni;
anche in questo caso il tutto doviziosamente narrato da testi geroglifici
e confermato da scavi archeologici.
Presso gli israeliti.
Nella Bibbia, sacro testo delle genti ebraiche, si legge nel
libro della Genesi (Genesi 28,22), <<questa pietra, che io ho
eretto come stele, sarà una casa di Dio>>. A parlare è Giacobbe, chiamato
anche Israele, nipote del patriarca capostipite del popolo ebraico, Abramo
(1850 ca. a. C.). Giacobbe chiamò il luogo in cui eresse la stele, e
probabilmente la stele stessa, “Betel” (Genesi 28,19). Betel deriva
dall’ebraico Bet-El, che significa letteralmente “la casa(bet) di
Dio(El)”. Questo passo vetero testamentale, mostra come il culto
megalitico della sacra stele fosse presente in antichità, anche presso gli
israeliti. Dal breve passo si deduce anche, come per questa cultura, la
stele sacra era ritenuta casa della divinità, e conseguentemente
identificata con la divinità stessa. Ecco perchè era anche fatta oggetto
di attenzioni rituali, quali quella di ungerla d’olio; come si racconta
nella Bibbia, sempre a proposito del cippo eretto da Giacobbe, <<egli
eresse la pietra come stele e versò dell'olio sulla sua sommità>> (Genesi
28, 18).
Il termine grecizzato bethilos, italianizzato in
betilo , che usiamo generalmente come sinonimo di menhir, deriva
proprio dall’ebraico nome della sacra stele di Giacobbe, Betel, e contiene
nella sua etimologia, proprio il concetto dell’identificazione della stele
con la dimora terrena della divinità, con lo scrigno dello spirito divino,
e di conseguenza con la divinità stessa.
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Il menhir
rappresentato sul menhir. Confronti con la civiltà dei templi maltese.
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La raffigurazione del menhir sul menhir osservata a
Giurdignano, permette un parallelismo ulteriore con quelle che a volte
vengono interpretate come ‘firme dell’architetto’, ovvero le
rappresentazione graffite su un monumento o costruzione architettonica,
della stessa opera, come appariva agli occhi degli artisti incisori.
Forse opera degli operai che lavorarono all’edificazione del
progetto, o dei progettisti e direttori dei lavori, o opere successive
alla costruzione, realizzate da viaggiatori, pellegrini, o frequentatori
di quei siti, questi graffiti, nascondono certamente umane esigenze
artistico-psicologiche e profonde valenze magico-religiose.
Il paragone che qui facciamo è con un’incisione di arte
megalitica, che si osserva a Malta nel tempio neolitico/eneolitico di
Mnajdra, la cui costruzione risalirebbe prevalentemente all’epoca compresa
tra il 3000 a. C. e il 2500 a. C. (epoca detta, per la cultura maltese
della ‘civiltà dei templi di pietra’, ‘periodo di Tarxien’).
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Figura 53:
Mnajdra, ingresso sud del tempio.
Prospetto esterno.
Foto tratta da
www.megalithic.co.uk
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Figura 54:
Petroglifo
nel tempio di Mnajdra,
raffigurante il prospetto esterno originario dello stesso luogo
sacro, ormai da molti secoli danneggiato.
Foto tratta da
www.megalithic.co.uk |
Si tratta di un petroglifo che riproduce il prospetto del
tempio stesso sulle cui pietre è stato segnato. Il graffito ci trasmette
come in una foto millenaria l’originario fronte esterno del tempio,
permettendoci una ricostruzione virtuale dello stesso sulla base di quanto
ancor oggi ancora in piedi.
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Conclusioni sulla serie di
confronti effettuati con altre civiltà mediterranea antiche |
Ora, dopo aver fatto notare come la riproduzione di un menhir
sullo stesso menhir, trova parallelismi in antichi culti betilici
praticati da civiltà mediterranee, quali quella fenicia o quella egizia, e
dopo aver ritrovato a Malta, petroglifi di ‘arte megalitica’,
rappresentanti la medesima costruzione megalitica su cui sono incisi,
l’arcaico graffito rettangolare estrapolato dalla composizione di croci di
Vicinanze, appare meno ‘esotico’ e più comprensibile. |
Cristianizzazione del menhir
Vicinanze I e
del suo pagano petroglifo
|
Vediamo ora come sulla base dell’ipotesi fatta, in merito
all’esistenza di un arcaico petroglifo poi cristianizzato, le perplessità
e le anomalie che il complesso di croci di Vicinanze suscitava, vengono
meno.
In epoca cristiana, al fine di cristianizzare il menhir, si
decise di incidere una grande ‘croce latina lineare’ su una delle facce
maggiori, che son le facce più rilevanti del menhir.
Si optò allora di inciderla sulla faccia rivolta ad Est, per
i seguenti motivi:
-
questa faccia era rivolta verso l’incrocio, punto di maggiore transito,
a pochi metri dal quale il menhir sorgeva;
-
questa faccia era rivolta verso l’oriente, direzione di massima valenza
simbolica sia per le locali religioni pagane pre-cristiane, sia per la
religione cristiana;
-
su questa faccia, forse prescelta tra le due maggiori, anche sotto
l’influsso delle medesime ragioni sopra esposte, era già stato inciso in
antichità il ‘petroglifo betilico’, che poiché simbolo di una religione
pagana si voleva cristianizzare insieme al menhir.
-
non solo, aggiungiamo che su questa faccia vi erano le tracce
dell’antica semi-raggiera, che la qualificavano inequivocabilmente,
all’occhio del cristiano, quale faccia principale del monumento. Apporre
la croce su quella superficie, permetteva di cristianizzare non solo il
menhir, ma anche il petroglifo rettangolare e tutto l’impianto
decorativo megalitico lì presente. La semi-raggiera, non rappresentava
comunque, alcun ostacolo simbolico al progetto di coinvolgimento della
pietrafitta, venerata probabilmente ancora dai locali nei secoli
dell’evangelizzazione di questa terra, nella nuova fede della croce,
anzi essa ben si accordava alla nuova confessione, data l’ampia presenza
del motivo della luce nell’iconografia sacra e nel pensiero teologico
del cristianesimo. Rispetto alla semi-raggiera pertanto, più bisognoso
di ‘cristianizzazione’, doveva apparire proprio il graffito del
rettangolino.
La fortissima vicinanza della ‘croce lineare’, al rettangolo
betilico, e la sua unicità come croce lineare sull’ampia superficie,
testimoniano questo duplice intento: cristianizzare il menhir, apponendo
la croce sulle sue superfici litiche, cristianizzare l’antico graffito
betilico ponendo la croce nelle sue immediate vicinanze.
Se il petroglifo rettangolare, non fu scalpellato e
distrutto, questo si deve al fatto che esso è ‘abbastanza anonimo’, tale
da non risultare blasfemo per il culto cristiano; una semplice figura
geometrica, un rettangolo, la cui valenza betilica forse non fu neppure
consciamente colta all’epoca della cristianizzazione, ma che, poiché di
arcaica età e posto su una pietra di origine pagana, venne comunque
ritenuto simbolo pagano da cristianizzare.
Alcune
osservazioni sul processo di “cristianizzazione”.
Le croci lineari son una delle più diffuse tipologia di croci
graffite sui menhir salentini.
La cristianizzazione dei menhir con croci, è una pratica
abbastanza frequente e diffusa, testimoniata dal ritrovamento di
croci incise su menhir maltesi, francesi e pugliesi.
La cristianizzazione di petroglifi rupestri è attestata dalla
frequentissima presenza di croci incise in età sempre cristiana, e
in luoghi in cui si diffuse il cristianesimo, su pareti rocciose o
pietre decorate con coppelle o altri graffiti rupestri pre-cristiani.
Significativo è, in questo contesto, citare la cristianizzazione
subita dal complesso di petroglifi della località Plas, in Val
Camonica, a cui si è accennato nei paragrafi precedenti per la
presenza di un petroglifo del sole con semiraggiera uscente. Lì
proprio come sul Vicinanze I, fu incisa una croce latina lineare,
alta circa 14 cm, sulla stessa parete rocciosa che ospitava gli
antichi graffiti. La croce latina lineare del Vicinanze I è alta
circa 17 cm.
Il processo di cristianizzazione di monumenti o aree pagane
dalla forte sacralità e dei loro simboli, attraverso l’incisione di
croci, è un processo che può esser compiuto dal cristiano, o per
esplicita intenzione evangelizzante o inconsciamente. In quest’ultimo
caso, mosso dalla percezione della sacralità del sito, della
struttura o del particolare motivo decorativo pagano, insorge in lui
la volontà di partecipare a quell’atmosfera “religiosa” attraverso i
simboli della religione che conosce, come la croce, che appone in
quel luogo credendo così di poterne ricavare benessere.
Ecco perché non
tutte le croci che ritroviamo sui menhir salentini, risalgono ai
primi secoli del cristianesimo, ma se ne trovano, a volte anche
sullo stesso menhir, molte di diversa tipologia e risalenti ad
epoche differenti. Ad esempio, sul menhir a p. s. noto come Sant’Antonio,
in agro di Muro Leccese, ho osservato (in data13/marzo/2006 ) una
piccola croce che è stata molto debolmente graffita, solo pochissimi
anni addietro, come rivela il colore della pietra, non intaccata
ancora da licheni, in corrispondenza del tratto inciso, (è ubicata
nella porzione medio-bassa della faccia settentrionale del menhir).
[Rimando per un approfondimento alla monografia che dedicherò ai
petroglifi cruciformi, che si osservano sui megaliti pugliesi].
|
|
Croci graffite
accanto a coppelle. Probabilmente le croci furono incise con lo
scopo di cristianizzare i luoghi e le rocce, ritenuti sede di
antichi culti pagani, come coppelle e altri petroglifi lasciavano
credere o attestavano, ma anche per cristianizzare gli stessi motivi
graffiti.
Foto relativa a
coppelle e croci rupestri ritrovate a Premana (Sondrio), in
località "Piode dal Croos", a circa 1400 m. di quota, nell'Alta Val
Varrone.
Foto tratta da
http://ics.pre mana.lc.it/incisioni_rupestri1.htm
|
Figura 55 |
Dopo questa prima fase di cristianizzazione del menhir
Vicinanze I, si decise di rafforzare ulteriormente l’opera. Il confronto
tra la verticalità del rettangolo e quello del palo centrale della croce,
suggerito ancor più dalla vicinanza della croce lineare incisa, porto
l’incisore cristiano, forse lo stesso esecutore della ‘croce lineare’,
come la similitudine dei tratti lascia pensare, ad integrare in una croce
il petroglifo betilico, incidendo due rettangolini sui lati a mo’ di
braccia.
Ipotesi di
evoluzione storica dei petroglifi cruciformi incisi sul menhir
Vicinanze I,
sulla sua faccia
maggiore rivolta ad Est |
Periodo arcaico |
Periodo
cristiano |
Prima fase di
cristianizzazione
|
Seconda fase di cristianizzazione |
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Figura 56:
Graffito
riproducente il menhir sullo stesso menhir. |
Figura 57:
Graffito di croce
latina aggiunto per cristianizzare il menhir e l’antico petroglifo,
come la vicinanza a quest’ultimo testimonia. |
Figura 58:
Conversione in
croce dell’antico petroglifo, attraverso l’incisione delle braccia. |
Probabilmente l’incisore ricalco i nuovi e i vecchi tratti
del nuovo petroglifo composto (‘croce piena’), in modo da farlo apparire
tutto contemporaneo, e per eliminare alcune differenze di tratto, tra il
vecchio graffito e il nuovo.
Nonostante tutto colpisce il fatto che l’incisore non abbia
alterato la continuità del rettangolo centrale, intersecandolo con le
linee delle braccia laterali!
Lo stesso rispetto, che per alcuni menhir a p.s., fu
manifestato dai cristiani salentini, lo ritroviamo espresso anche per il
petroglifo, che li rappresenta. E come le pietrefitte furono convertite in
colonne votive cristiane, talvolta con una croce posta in testa (‘sannà’
o ‘pasca sannai’ o ‘osanna’ son i nomi con cui son chiamate
frequentemente queste colonne devozionali cristiane, nel vernacolo
locale), così il petroglifo del menhir effigiato sul menhir, fu qui
convertito in croce, tutto coerentemente col nome dialettale “cruci”
(in italiano “croci”), con cui i menhir son spessissimo chiamati nel
Salento. [Un altro nome diffuso, nel vernacolo locale, per indicare le
pietrefitte, è “culonne”, (in italiano “colonne”)].
La conservazione della continuità del rettangolino verticale,
non intersecato dagli assi delle braccia laterali della “croce piena”,
sottintende il rispetto e la volontà di mantenere inalterata la
verticalità e la continuità(=monoliticità) della pietrafitta, che son i
due elementi essenziale di ogni bethilos-menhir (come meglio
approfondiremo nella mia monografia sul culto betilico). Questo agire
dell’incisore fu guidato dal suo estro artistico, ma inconsciamente in lui
operarono, condizionando le sue scelte creative, quelli archetipi che
riconoscono le valenze simboliche del petroglifo betilico, come di ogni
bethilos, e che hanno la loro ragion d’essere proprio nella
monoliticità-continuità della pietra e nella sua verticalità. Continuità e
verticalità che devono essere conservate nell’opera di conversione di quel
simbolo universale che il bethilos-menhir, nel nuovo bethilos cristiano
per eccellenza, la croce.
L’assimilazione dei menhir nel culto cristiano, attraverso la
loro conversione in ‘croci’ (‘sannà’), avviene dunque anch’essa con
le medesime istanze e con dinamiche analoghe, in parte cosce e in parte
inconsce, proprio come accaduto per la conversione in croce del petroglifo
betilico di Vicinanze.
Ricapitolando, la verticalità e continuità del petroglifo,
non a caso conservata e la verticalità e monoliticità(=continuità) stessa
dei menhir, son quelli elementi essenziali che permisero la conversione in
croce cristiana, tanto del petroglifo betilico quanto più in generale dei
menhir.
La verticalità è infatti propria del palo della croce di
Cristo, come di ogni bethilos, e i due simboli bethilos e croce
condividono inconsciamente i medesimi archetipi, condizione questa
indispensabile perchè si possa passare, come di fatto è avvenuto, da uno
all’altro con continuità, nel passaggio dalla religione pagana a quella
cristiana, senza che la transizione provocasse una insanabile cesura, tale
da comportare l’abbattimento di tutti i precedenti menhir pagani.
L’aniconicità di molti menhir, poi, fu un elemento
importante, perchè si potesse procedere all’assimilazione di questi nel
nuovo culto. Stele con iscrizioni, cippi con statue o teste di divinità
scolpite in sommità (le erma), più facilmente riconoscibili come
espressioni palesi di culti pagani, subirono una sorte peggiore di tanti
menhir, e furono in larga parte abbattuti e distrutti nei secoli del
cristianesimo.
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Interpretazione dell’arcaico impianto
decorativo della faccia rivolta ad oriente del menhir Vicinanze I.
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La rappresentazione schematica di raggi di luce solare sulle
superfici del menhir, orienta verso la corretta interpretazione delle
micro-coppelle e coppelle rappresentate sulle superfici verticali delle
pietrefitte salentine e non solo, e permette una comprensione più generale
di uno dei valori semantici della coppella dell’arte rupestre e
megalitica.
La rappresentazione del Sole con il petroglifo dell’“occhio
del menhir”, o con il motivo del raggio di luce, esprime un rito magico
volto a far sì che il dio del cielo e dio del sole inondi di luce la
pietra, la riscaldi col suo calore, e infondi della sua energia e del suo
spirito la pietra stessa, e pertanto trasmigri esso stesso in essa,
trasformandola nella sua casa, ed identificandosi in ultima analisi con il
medesimo blocco litico, secondo una concettualità “magica” (a livello
psicologico diremo “associativa”), tipica del culto betilico, e che si è
evidenziata nella religione nabatea, ebraica ed egizia, dove maggiori
fondi documentarie ci hanno permesso di penetrare nel pensiero religioso
di quelle culture orientali elevatrici di stele e obelischi. E l’obelisco
altri non è che una particolare tipologia di menhir, ma proprio l’uso di
una terminologia differente, necessaria per distinguere il bethilos
monolitico europeo, il menhir, da quello orientale per antonomasia,
l’obelisco, ha tenuto lontano da un serio e fecondo confronto tra i due,
che per lo meno nella terra salentina, protesa tra oriente ed occidente,
doveva esser fatto!
Il contatto del menhir con il dio del sole e dunque anche dio
del cielo, viene ulteriormente propiziato rappresentando il cielo stesso
sul menhir. Le coppelle cioè altri non sono che rappresentazioni degli
astri del firmamento. Si era già intuita la loro possibile simbologia
planetaria, ma alla luce della comprensione del culto betilico, essa trova
più forti conferme. Così laddove si scolpiva il motivo della coppella, su
rocce di valenze sacra, su menhir, o su pietre di aree templari, quel
petroglifo rappresentando gli astri, propiziava la discesa dell’energia e
del divino spirito celeste in quelle pietre o in quelle aree sacre.
I meccanismi psicologici di pensiero magico, che spiegano
ciò, son gli stessi che portano il fedele ad identificare un’immagine o
scultura della divinità, con la divinità stessa. Questo era
particolarmente evidente ad esempio, in Mesopotamia, dove il simulacro del
dio veniva riverito, ossequiato e servito come vera e propria divinità in
terra. Plasmare la materia di una statua con le fattezza credute di una
divinità permette di ritenere la divinità stessa magicamente presente nel
simulacro, ed è questo un atteggiamento psicologico connaturato ad ogni
pensiero religioso per lo meno nella sua espressione popolare e spontanea.
Permettono il magico passaggio dello spirito del cielo nel
menhir:
il contatto con il calore e la luce emessi dal Sole, dalla
Luna e dagli altri astri, questo spiega il perchè dell’orientazione delle
facce maggiori dei menhir a p.s., affacciate Est-Ovest; nel loro moto
giornaliero, il Sole, la Luna e i pianeti, gli astri quindi dai quali
irradia la maggior parte della luce celeste che giunge sulla terra,
sorgono grossomodo ad oriente e tramontano ad occidente. La speciale
orientazione dei menhir a p.s. massimizza la loro esposizione a questa
luce, e incrementa pertanto il loro “contatto” con lo spirito celeste che
infonde dal cielo, e che è di primaria importanza nella concettualità
betilica.
La verticalità del bethilos lo avvicina idealmente al cielo e
favorisce il contatto con l’aria, che è l’elemento attraverso cui si
diffondono i raggi luminosi e muove dunque lo stesso spirito divino,
motivo per cui anche l’impalpabile aria finisce per divenire, nel pensiero
“associativo”, essa stesso spirito divino, tale ad esempio è considerato
il vento, nella religiosità precristiana, che diviene manifestazione dai
visibili effetti, dello spirito celeste.
La possibilità di queste osservazioni e deduzione si fonda
tanto sullo studio di culti betilici, che ci son stati meglio documentati,
tanto da osservazioni archeologiche, che abbiamo potuto far in territorio
pugliese, tanto dalla conoscenza dei meccanismi di ragionamento
archetipici della mente umana, che ne caratterizzano il pensiero
magico-religioso e la sua espressione cultuale e rituale.
Le coppelle si ritrovano tanto sulla faccia maggiore del
Vicinanze I, esposta a oriente, quanto su quella esposta a occidente,
coerentemente ad una propiziazione del contatto del betilo con il cielo.
Tale propiziazione magica par però essere più intensamente ricercata,
nella faccia orientale, dove ritroviamo la raffigurazione dei raggi del
Sole e quella dello stesso menhir.
L’oriente individua la direzione più importante relativamente
al Sole. Ad oriente il Sole nasce ogni giorno, per crescere in potenza ed
energia durante il dì. L’Est individua la direzione della massima
simbologia religiosa relativamente al bene e dunque alla vita, che per
l’uomo è inscindibili dalla potenza del Sole.
Anche nel cristianesimo, come forse in tutte le religioni
pagane, tale direzione conserva la massima importanza nella teologia, nei
riti e nelle stesse chiese che guardano spesso ad oriente.
Per propiziar allora subito il contatto del Sole con il
menhir, appena il lucente astro sorge ad oriente, sì da assicurane tale
contatto durante l’intero suo moto diurno apparente, si è posto il massimo
impegno nella decorazione magica della faccia esposta ad oriente.
Ora, sulla faccia orientale del menhir Vicinanze I,
non solo si rappresenta il Sole attraverso i suoi raggi, ma anche più in
generale il cielo punteggiato di stelle e altri corpi celesti. Nel cielo
rappresentato sulla faccia del menhir si espandono i raggi del Sole, e
mentre alcuni irradiano in alto e permeano l’aria, altri scendono verso il
basso verso la terra, verso il menhir! Qui infatti, più in basso sempre
sulla superficie lapidea, troviamo la rappresentazione della medesima
pietrafitta, nell’antico petroglifo-betilico.
E anche questa rappresentazione, su cui tanto abbiamo
dissertato, ben si lega, come abbiamo visto, ai medesimi fini magici di
tutto l’impianto decorativo.
Sul petroglifo-betilico è rappresentato dunque il cielo, con
le stelle (microcoppelle), e con i raggi del Sole, che si spandono in ogni
direzione nello spazio celeste e scendono persino in basso dove è il
menhir. Una raffigurazione schematica, bidimensionale, ma molto
realistica.
Figura 59: Resa grafica schematica dell’impianto decorativo della
faccia orientale del menhir Vicinanze I, sovrapposta alla foto del
menhir stesso. La rappresentazione della semi-raggiera e della
distribuzione delle coppelle ha qui mero valore illustrativo, per
una migliore definizione delle caratteristiche della semiraggiera o
della distribuzione delle micro-coppelle si rimanda a quanto sopra
riportato.
Siamo
partiti dall’interpretazione effettuata separatamente, di ogni
elemento decorativo, microcoppelle, raggi, segni cruciformi. Per
avanzare delle ipotesi plausibili in merito al loro significato, ci
siamo attenuti a quelli che sono i principi e i presupposti del
culto betilico, dato che li si è supposti decori-magici megalitici,
incisi proprio su un bethilos.
Nella
rilettura generale di tutto l’impianto decorativo della faccia
orientale del menhir Vicinanze I, tutte le interpretazione fatte si
son mostrate profondamente inter-relazionate tra loro e
perfettamente coerenti con la simbologia e il pensiero
magico-religioso betilico.
Ma si potrebbe dire
manca la rappresentazione della terra sotto i piedi del menhir, e
invece questa è presente, è onnipresente in tutta la raffigurazione,
è la roccia su cui tutto questo è rappresentato, è la pietra del
menhir, legata indissolubilmente alla terra da cui è stata estratta
e in cui ancora la sua base è infissa. La Terra, la Madre Terra, la
Dea Mater.
Ecco perché
quando con molta superficialità, si dice che il bethilos è mera
rappresentazione aniconica di un dio, in realtà si sta dicendo solo
una parte della verità. Nel bethilos c’è l’unione di due divinità,
della coppia cosmica Terra-Cielo, unione feconda, che irradia tutt’attorno
la sua vitale energia, permettendo l’infinito ciclo di morte e
rinascita, che assicura la rigenerazione e l’immortalità della vita
stessa, tutto questo sempre nella profonda concettualità inconscia,
archetipica, dell’uomo. |
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Culturalmente,
in epoche e luoghi diversi, possiamo trovare religioni in cui si
esalta del bethilos ora l’aspetto femminile, ora quello maschile, ma
archetipicamente, il bethilos è l’unione dei due opposti, del
maschile e del femminile, del cielo e della terra, della luce
celeste e del buio del mondo infero, ctonio, della Dea Mater e del
Dio del Cielo (e al contempo dio del Sole, massimo astro celeste).
In esso si realizza il matrimonio sacro, l’unione sessuale e la
fusione del maschile e del femminile, la ricomposizione di ciò che è
diviso, che l’uomo sa, o crede, essere punto di partenza per la
creazione di nuova vita. Nel bethilos, e dunque nel menhir, la
dialettica degli opposti, essenziale perchè l’uomo possa vivere e
operare nella realtà, trova la sua sintesi e un universo dicotomico
riscopre la sua intima unità.
Ecco perchè, come
meglio approfondirò presto, sui menhir salentini spesso troviamo, a
volte sulla stessa pietrafitta, tanto simboli del femminile, quanto
del maschile.
Ecco anche perchè,
dall’originario menhir aniconico, poté svilupparsi la coppia
maschio-femmina delle stele antropomorfe calcolitiche, ritrovate
anche in Puglia. In età del rame, infatti, originate dagli arcaici
menhir neolitici, cominciano a comparire stele antropomorfe ora con
fattezza femminili, ora con fattezze maschili, ed i presupposti di
questa diversificazione sessuale della stele, sono presenti nella
natura duale del bethilos.
Presso gli antichi
greci, e non solo, spesso tanto divinità lunari femminili, quanto
divinità maschili, furono venerate separatamente, attraverso
simulacri aniconici, betilici. Scavando però in quei culti e nei
loro rituali, ricostruiti dall’archeologia o narrati da antiche
fonti testuali o figurative, si possono ritrovare quei simboli, a
volte semplici gesti, invocazioni ecc, in cui l’elemento
complementare ricompare, e il bethilos si palesa nuovamente come
sede non di una sola divinità, ma dell’unione complementare e
rigenerativa della coppia divina maschio-femmina.
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Ricapitolando
Tutta la scena ha sempre valore magico-religioso, invocare il
calore e la luce del Sole, e la sua energia vivificante sul menhir, e
propiziare il contatto magico del bethilos col cielo.
Rappresentando raggi e stelle sul menhir già si invocano
questi legami col cielo e col Sole, della pietrafitta, in più la
raffigurazione complessiva mostra i raggi del Sole espandersi nel cielo,
raggiungere il firmamento, penetrare l’aria e scendere in basso sulla
terra dove è raffigurata la stele. Tutta la raffigurazione è
un’invocazione magica al Sole affinché ogni giorno sorga e percorra il
cielo e illumini il sacro bethilos, e affinché il suo spirito trasmigri
nel menhir e qui e da qui unitosi intimamente, sessualmente alla terra,
irradi tutt’attorno, nuova energia che dia vita ai defunti e prosperità,
fertilità e ricchezza alla terra e a tutte le sue creature.
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Prospettive di
indagine aperte sui menhir a pilastro squadrato pugliesi e a sezione
rettangolare |
Lo studio del sito megalitico del Vicinanze I, che merita
ancora ulteriori approfondimenti, apre la strada a tutto un nuovo settore
di indagine, sin ora mai seriamente tentato, sui menhir e più in generale
su tutto il megalitismo pugliese, quello archeoastronomico!
Premettendo che restano per ora uniche, ma siamo ancora
all’inizio dello studio approfondito dei menhir salentini, le peculiarità
del menhir Vicinanze I, per lo meno per quei menhir a pilastro squadrato,
a sezione decisamente rettangolare, e con facce maggiori parallele al
meridiano passante per il punto della loro ubicazione, come per il menhir
qui analizzato, l’esistenza di aspetti archeo-astronomici, accanto agli
indiscussi aspetti cultuali del bethilos, sono palesi. Per posizionarli in
quello speciale modo, lo studio del cielo, del moto apparente e diurno del
sole o delle stelle circumpolari di notte, era essenziale per la loro
corretta orientazione. Lo studioso Cosimo De Giorgi, osservò alcuni menhir
infissi in buche rettangolari scavate nella roccia, ma non orientate con
il lato maggiore parallelo al meridiano, ciò nonostante le pietrefitte, di
dimensioni minori erano stati orientati correttamente con il meridiano,
ponendo opportunamente pietre informi tra buca e menhir, tanto era
importante l’orientazione dei menhir a pilastro squadrato e sezione
rettangolare! Non solo anche per alcune delle tacche appositamente
realizzata, che si ritrovano sugli spigoli dei menhir a pilastro squadrato
salentini si potrebbe tentare un loro studio sempre in termini
archeoastronomici. Forse, e allo stato delle ricerche il “forse” è
doveroso, esse potevano indicar posizioni di astri nel cielo, se si
guardava il menhir da opportune e precise posizioni del sito circostante,
il tutto sempre con scopi magici e calendariali, ma che non possiamo
mancare di definire “scientifici”, poiché volti allo studio del cielo e
dei fenomeni stagionali terrestri.
Le tacche sugli spigoli dei menhir meritano, però, una
trattazione introduttiva al loro studio, che presto esporrò nei miei
scritti.
Dei menhir pugliesi si dovrà studiare anche più attentamente
la loro ubicazione sul territorio, tenendo conto di aspetti ambientali,
geologici, idrici, e morfologici, della rete viaria antica e della
distribuzione degli insediamenti e delle necropoli, nonché di possibili
allineamenti nel posizionamento dei megaliti, dal significato astronomico
o legato al rapporto dell’uomo con il territorio.
Non meno importante sarà estendere gli studi alle tecniche di
cavatura, sgrossatura e rifinitura, dei blocchi lapidei dei diversi
materiali calcarei impiegati per la realizzazione di menhir pugliesi. Il
menhir Vicinanze I, ad esempio, mostra tanto alcune superfici
semplicemente tagliate e sgrossate, sui lati minori in particolare, tanto
alcune ben rifinite, come la parte inferiore delle facce maggiori. Un
approccio di archeologia sperimentale condotto su blocchi del medesimo
materiali, volto ad ottenere tracce di taglio e sgrossatura simili a
quelle osservabili sui menhir, illuminerebbe sulle antiche tecnologie
impiegate.
Interessante è anche lo studio
della tecnica adoperata nello scavo delle buche dei menhir e
nell’incisione dei segni incisi petroglifati sui megaliti, nonché
nell’erezione stessa di queste grandi pietre.
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Considerazioni sul metodo di indagine
perseguito in questo studio.
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L’assenza di scavi archeologici, che guidino nella datazione
precisa dei menhir a p.s. salentini, così come la mancanza di reperti
diagnostici, che permettano un inquadramento cronologico del menhir
Vicinanze I, mi hanno spinto verso questo studio multidisciplinare del
megalite e del suo sito circostante. Studio che ha tenuto conto anche
delle valenze antropologiche, che mossero nei secoli tutti quelli uomini,
che operarono nel sito, modificandolo e trasformandolo. Attraverso questo
metodo, è stato possibile cogliere numerosi interessantissimi dati, la cui
analisi incrociata ha permesso interessanti scoperte e suggerito ulteriori
orizzonti di indagine, in attesa che si possano colmare quelle lacune, che
purtroppo ancora gravano sull’archeologia pugliese, a causa dell’esiguo
numero di scavi archeologici sin ora condotti.
Nell’indagine sui menhir salentini, sono partito
dall’ipotesi, che questi potessero essere espressione di culture
protostoriche o comunque pre-cristiane. Se davvero tali, allora anche i
menhir salentini avrebbero potuto presentare sulle loro superfici,
petroglifi simili a quelli, che si osservano nell’arte rupestre e
megalitica di civiltà mediterranee ed europee pre-cristiane.
Mosso da queste considerazioni ho avviato la mia indagine
approfondita sui menhir salentini a p.s. ed è così che ho scoperto la
presenza su alcuni di questi, di coppelle e microcoppelle, ordinate e
distribuite nei modi più vari, secondo tipologie note nell’arte rupestre e
megalitica, ma anche canalette, bacinelle, fori ciechi o passanti,
circolari, sub-circolari o quadrati, rappresentazioni stilizzate di menhir
che trovano paralleli con l’arte punica, e persino originalissimi
petroglifi a semi-raggiera, e petroglifi “raggio di luce”. I risultati,
sin ora divulgati, riguardano solo pochissimi menhir, da me indagati
attentamente. L’estensione delle indagini ad altri menhir salentini e
pugliesi, permetterà di ritrovare su questi, petroglifi sia delle
tipologie sin qui classificate, sia probabilmente graffiti rientranti in
nuove tipologie.
Sempre sulla base dell’ipotesi di partenza, cioè l’arcaicità
dei menhir pugliesi a p.s., ho esteso le indagini, considerando quelli
aspetti cultuali e archeoastronomici, che universalmente
caratterizzano le culture megalitiche e i culti betilici, e anche in tal
senso, ho ritrovato numerose prove dell’esistenza delle medesime
correlazioni, anche nel megalitismo pugliese e in seno agli stessi menhir
a p. s. oggetto di indagine.
L’ipotesi di una lettura megalitica e pertanto anche
pre-cristiana, delle pietrefitte salentine a p.s., nasceva comunque
spontanea, data la correlazione topografica dolmen-menhir, che si osserva
in tutte le regioni archeologicamente interessate dalla presenza di
strutture dolmeniche, e che vede proprio in Puglia e nelle stesse aree in
cui son collocati i menhir a p.s. salentini, la presenza di numerosissimi
dolmen.
Nel corso di questa esposizione, a volte può apparire, che
con molta facilità si pervenga ad interpretazioni, scartando o liquidando
tutte le altre possibili ipotesi a volte neppure accennate. Sembrerebbe un
atteggiamento poco critico, in realtà proprio la facilità con cui si
procede nelle deduzioni, che potrebbe suscitare perplessità, nasce dalla
trama scientifica, che è sottesa a tutti questi studi. Una rete
assiomatico-deduttiva, guida il procedere di questo mio lavoro, volto allo
studio e alla comprensione profonda del menhir. E le deduzioni derivano
per conseguenza logica da alcuni importanti principi fissati alla base.
Questi sono i principi antropo-psicologici del culto betilico, alcuni dei
quali nel corso dell’esposizione sovrastante sono stati anche
sinteticamente esposti.
Vi è dunque alla base la comprensione profonda di quella che
definisco “religione betilica”, che costituisce un sostrato
universale alla base di ogni religione e di ogni pensiero religioso umano.
Indica per antonomasia la religione in cui si eleva e venera un bethilos,
ma in realtà essa comprende tutte quelle forme religiose in cui è
possibile individuare un oggetto materiale, che fa consciamente o
inconsciamente da tramite tra l’uomo e il divino.
E con il termine “bethilos”, che compare in “religione
betilica”, oltre alla stele monolitica eretta verticalmente, indico più
generalmente un qualsiasi oggetto o struttura concepita unitariamente,
fatto motivo di culto o coinvolto in rituali, confitto o posato in terra
e che sporge da questa elevandosi in aria. Ciò nonostante, in tutto il
lavoro sopra esposto il termine “bethilos” o “betilo” è stato sempre usato
nella sua accezione più comune, quella di stele monolitica.
Un complesso di conoscenze cui si è giunti attraverso un
approccio multidisciplinare, cogliendo indizi molteplici nello studio
dell’antropologia, della psicologia, della storia, della sociologia,
dell’economia, e della stessa biologia. Tutta una serie di dati che
mostravano la loro intima connessione, permettendo l’estrapolazione di
quella struttura universale di pensiero che sintetizzo come “archetipo
del culto betilico”.
Sulla base di questi presupposti continuerò negli scritti
successivi ad approfondire lo studio del megalitismo salentino, e non
mancherò di fornire ulteriori approfondimenti sul culto betilico più in
generale e sulle prospettive di interpretazione antropologica rese
possibili dalla comprensione di questo importante e fondamentale
archetipo.
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Un sassolino è stato gettato nel
tranquillo mare della conoscenza.
Oreste
Caroppo
dicembre 2006 |
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Per ulteriori dati,
precisazioni e note sulle ricerche, consigli bibliografici, ecc. potete
contattare l’autore di questi studi.
orestecaroppo@yahoo.it
agapi_mu@yahoo.it
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ARTICOLO INCOMPLETO IN FASE DI
ALLESTIMENTO GRAFICO |
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Influssi maltesi nei menhir del Salento.
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salentini
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Oreste Caroppo (agapi_mu@libero.it) |
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