Si
è voluto iniziare questo lavoro di documentazione della Casarano
sotterranea per una serie di motivi, il primo per documentare, prima che
sia troppo tardi la reale consistenza di tutto quanto vi è nel
sottosuolo della parte antica del paese, almeno quello che è rimasto,
il secondo per dimostrare ai giovani d'oggi com'era il lavoro dei nostri
avi e gli attrezzi da loro usati nell'espletamento della macinatura
delle olive.
Un
tempo buona parte del sottosuolo della Casarano antica era scavato e
questo sia per la friabilità della roccia, sia per la necessità di
ricreare un ambiente secco e caldo per facilitare il distacco dell'olio
dalla pasta macinata delle olive.
In
questi antri, creati nel sottosuolo, avevano sede i frantoi ipogei,
chiamati nei termini locali "TRAPPITI". Questi
progenitori di quella che con il tempo sarebbe stata la
"rivoluzione industriale" e che da questi trasse fonte e
materiali, fu per molti secoli fonte di grande economia per tutto il
Salento, trainando con sé non solo il sistema di trasformazione del
prodotto, ma anche l'agricoltura ed il commercio, in quanto l'olio
prodotto nel salento veniva richiesto ed esportato in tutta l'Europa.
Ma
andiamo per ordine. per prima cosa chi erano e quanti erano i lavoranti
nel trappito?
Di
solito i trappitari erano quattro più il loro capo chiamato "NACHIRO"
e di solito erano operai stagionali che mentre nel periodo estivo
svolgevano il mestiere di marinai, nella stagione fredda, quando il mare
era impraticabile, si chiudevano in questi antri sino alla fine della
stagione della spremitura.
Da
qui la giustificazione di molti termini marinari che troviamo in questo
contesto. I loro rapporti con l'esterno erano abbastanza limitati in
quanto, già abituati sulle navi a vivere senza socializzare ed avevano
ritmi di lavoro altissimi. Si può ben dire che i loro lavoro venisse
svolto 24 ore su 24 con turni di riposo nell'interno dello stesso
frantoio in modo da essere svegliati in caso di necessità.
Anche
agli stessi contadini che dovevano conferire le olive per la macinatura
era vietato l'ingresso nell'interno del trappito per evitare il
verificarsi di furti sia di olive che di olio.
Il
conferimento delle olive al trappito, per la loro macinatura avveniva
dalla strada, dove attraverso le "SCIAVE", sorta di camini
scavati nella pietra che collegavano la strada al frantoio, le olive
venivano buttate nell'interno
del frantoio stesso in attesa della loro lavorazione.
Al
suo turno la partita conferita veniva immessa nella vasca di macinazione
e ricordiamo che ogni vasca macinava circa sei tomoli di olive
corrispondenti a circa 200 chilogrammi di olive,
misura derivata non dalla capacità della vasca, bersi alla
capacità di un piccolo torchio.
Infatti
dopo la macinatura a schiacciamento, (come potete vedere dall'immagine
sul pannello) la pasta macinata veniva depositata sui fisculi che
impilati venivano messi sul torchio piccolo chiamato "MAMMAREDDHRA"
per subire una prima spremitura dopo di che rinmessi nella vasca di
macinazione per rimpastarsi e, sempre con lo stesso procedimento di
stesura sui fisculi, passare al torchio grande chiamato dai trappitari
"LU CONZU".
Passiamo
un po' a vedere i termini usati dai nostri avi per nominare le varie
parti di questi attrezzi.
Come
detto prima abbiamo la vasca di frantumazione delle olive e nel suo
centro girava la "PETRA TE TRAPPITU" che era un blocco unico
di pietra a forma cilindrica che usata verticalmente sulla pista circolare ricavata nella
vasca di frantumazione serviva allo schiacciamento delle olive.
Poi
abbiamo "LU CONZU" che è il torchio grande ed era composto
dalla madre vite su cui scorreva lu "SANTU TUNATU" che era di
solito un blocco unico di legno e rappresentando la "testa"
della pressione aveva avuto questo nome in onore del Santo protettore di
questa parte del corpo umano. Però il nome di detto attrezzo, si dice
abbia anche un altro significato, infatti, sul gioco dei doppi
significati del termine, pare avesse questo nome in quanto nell'atto
della pressione ed al contatto della madrevite, il pezzo cigolava come
se tuonasse (in vernacolo si usa il termine "scattava") e da
qui il secondo significato del nome.
Sotto
di lui la "CHIANCULA" che era una panchetta di legno posta
sopra i FISCULI ed utilizzata al loro schiacciamento sotto la pressione
della vite del torchio.
A
volte succedeva che i fisculi sotto la pressione spanciassero perciò
si usava la "BARDASCIOLA" che era una leva di legno con
la quale il NACHIRU cercava di raddrizzare la colonna dei FISCULI,
usandola a mo' di leva.
Il
"DERFINU", invece era un blocco pesante di pietra dura, posto
alla base del torchio ed affondato nel terreno, che, nella parte
superiore, era solcato da un canale circolare interrotto da un piccolo
varco nella parte anteriore, varco che serviva a far scorrere quanto
spremuto nell'ANCILU.
"L'Ancilu"
era una sorta di pila in pietra, internamente cilindrica, nella quale
convogliava la spremitura dei torchi, e con al fondo un foro di
comunicazione con una cisterna detta NFIERNU.
Vi
starete chiedendo il perché di tutte queste comunicazioni fra
contenitori. E' presto detto: i nostri avi giocando sul diverso peso
specifico dell'olio e della sansa avevano notato che essendo l'olio più
leggero di quest'ultima veniva in superficie lasciando al fondo la
sansa. Quindi per liberarsene agevolmente, dopo aver raccolto l'olio
facevano scorrere la sansa nell'altra cisterna chiamata
"INFERNO" sia perché deposito di scarto, sia perché
producendo la sansa calore, detta cisterna sembrava affacciarsi
all'inferno.
Con
il tempo detto sistema fu migliorato, infatti (come poi potrete vedere
nell'altro ambiente) molto spesso insieme all'olio veniva raccolta un
po' di morchia così decisero di avere un separatore fra le due
sostanze, separatore che trovarono nell'acqua la quale frapponendosi fra
l'olio e la morchia li separava nettamente senza possibilità di errore.
Fu
così che all'ancilu fu applicato un foro laterale dove veniva immessa
l'acqua che scendendo al fondo della pila, nella sua risalita fungeva da
separatore fra le due sostanze.
E
con che cosa veniva raccolto l'olio dalle pile? Gli attrezzi erano due
prima veniva usata la "CRISCULA" e poi "LU NAPPU"
che era un recipiente di latta convesso per raccogliere il residuo
d'olio galleggiante sulla sentina all'interno dell'ANCILU.
Spiegato
questo essenziale principio di vita frantoiana passiamo a vedere alcune
unità di misura usate al tempo.
Per
prima cosa bisogna dire che dette unità di misura erano diverse per le
olive e per l'olio infatti per le olive abbiamo quale unità di misura
principale "LU STUPPEDDHRU", pari a circa 10 Kg. di olive e lu
"TUMULU" pari a circa 33 Kg. di olive, la vascata, come detto
prima, corrispondeva a sei tumuli, cioè circa 200 kg. di olive.
Passando
all'olio abbiamo: la "SCIUANNA" recipiente di latta, capace di
venti chili di olio, a due anse, avente verso l'alto e da un lato solo
un bavaglino rialzato sempre di latta, che, nell'uso, impediva all'olio
che colasse lungo la parte esterna del recipiente medesimo.
Dopo
abbiamo "LU STARU" (lo staio): contenitore della capacità di
16 Kg. di olio. Sua sottomisura era "LA MINA" (dal greco hmina):
contenitore della capacità di otto chili di olio (la metà di uno
staio). Poi ancora abbiamo "L'OTTU PIGNATEDDHRE", contenitore
della capacità pari a quattro chili di olio (metà della mina), ed
infine "LU PIGNATEDDHRU"
contenitore della capacità di mezzo chilo di olio.
E'
inutile aggiungere che queste erano le misure principali perché poi
abbiamo i loro sottomultipli.
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