Quando si guarda alla vita o alla storia di un paese, capita
che vi si guardi con l’occhio della nostalgia soprattutto. Si va
alla ricerca di tracce del passato, prossimo o remoto che sia, per
ricostruire modi e forme di vita che la nostra vita quotidiana
sembra inesorabilmente aver sepolto. La nostalgia da sola non
basta e non giustifica pienamente una ricerca. Credo che l’uomo
che interroga il passato, sia esso lo studioso munito di adeguati
strumenti per ricostruire la storia lontana o semplicemente
l’appassionato del recupero di tradizioni locali ancora non del
tutto tramontate, vada più in là della nostalgia, aspiri ad
ampliare l’orizzonte della conoscenza.
Forse mai come nei nostri tempi
veloci e anche un po’ troppo nervosi si è andati alla ricerca di
quella che fu, in certi casi di quella che poté essere, la realtà
del passato. Che cosa spinge ad indagare in tempi remoti, a
frugare con curiosità nei resti di civiltà di cui spesso molto
poco ci è rimasto? Una passione di conoscenza che ci riguarda. Non
basta “salvare” le tracce del passato, e quasi museificarle
attraverso una catalogazione di reperti o un rosario di ipotesi e
di congetture più o meno plausibili.
È necessario non ridare vita alle
tracce del passato (nessuna realtà è mai veramente morta, e la
trasmissione culturale è come un grande fiume che scorre con acque
sempre nuove ma con movimenti uguali nei secoli e nel letto che le
acqua si sono scavato); necessario è “sentire” la vita che c’è in
quelle tracce e che viene restituita alla nostra conoscenza e in
questo modo rimessa in circolo, inglobata nella nostra vita, nel
nostro modo di pensare, nel riconoscerci a distanza di secoli con
uomini che, in condizioni diverse, abitarono le nostre contrade,
cercarono rifugi naturali o ne eressero di artificiali sia per
ripararsi dalle intemperie, sia per costituire, in quegli spazi,
una domestica unità, un nucleo di rapporti familiari, un nodo
forte di sentimenti. È per guardare in questa realtà, dunque, che
noi interroghiamo il passato attraverso tutte le possibili tracce
che esso ha lasciato dietro di sé e che, cercate ed esplorate con
attenzione e passione, ci permettono - diciamolo con
un’espressione alla buona – “di sapere qualcosa di più su come
eravamo”.
Non accade che ognuno di noi si
proponga di seguire un percorso che porti alla conoscenza del
passato: tutti possiamo avere delle curiosità e desiderio di
conoscenza, ma non tutti possediamo gli strumenti necessari a
soddisfarli. E allora ci lasciamo, per così dire, prendere per
mano da chi quegli strumenti li ha, li sa adoperare, e mentre
consegna il resoconto delle proprie ricerche si adopera per
trasmetterci l’intensità della sua passione.
Avuto tra le mani il bel libro di
Pino De Nuzzo del quale parliamo questa sera, La casa a corte
bizantina nel centro antico di Casarano, è stato proprio a questo
che ho pensato: ecco un altro utile strumento per conoscere la
storia del nostro territorio e per gettare uno scandaglio nella
vita, soprattutto in quella quotidiana, degli uomini vissuti
secolo fa.
Un’osservazione vorrei, intanto,
appuntare sul titolo. L’argomento, come si può capire chiaramente,
è ritagliato all’interno di una più vasta storia del territorio
casaranese; anzi, è ritagliato dal più ampio quadro delle vicende
storiche di Casarano. L’attenzione punta non, genericamente, su
una tipologia costruttiva, la “casa a corte”, ma su una tipologia
costruttiva vista “in situazione”, in un momento storico preciso e
studiato nelle sue specifiche caratteristiche.
Vorrei osservare, anche, come De
Nuzzo usa l’espressione “centro antico” al posto del più abusato,
ed un poco generico, “centro storico”. In questa ultima
denominazione, infatti, rientra tutto ciò che di storicamente
interessante (strutture urbane, architettura religiosa e civile,
insediamenti popolari, ecc.) si estende in un arco di tempo
abbastanza ampio; con “centro antico”, più preciso e circoscritto,
De Nuzzo porta in primo piano un periodo più ristretto ma che
consente uno studio a distanza ravvicinata e la definizione di una
tipologia di costruzione che nasce da circostanze storiche, da
motivazioni socio-politiche, da un concorrere di fattori diversi.
Ho osservato questo solo per sottolineare, giustamente
apprezzandolo, lo scrupolo di De Nuzzo nel trattare l’argomento
che si era proposto di affrontare e di svolgere.
L’aver messo a fuoco un tratto
significativo non vuol dire aver rinunziato a dare un quadro ampio
ed articolato nel quale quel tratto si inserisce e si spiega. Non
ripercorrerò momento per momento le varie fasi dell’esposizione ma
mi soffermerò solo su alcune osservazioni più generali, quelle che
possono essere osservazioni non di un “tecnico” della materia di
cui parla il libro, ma semplicemente di un lettore curioso ed
interessato.
In svelte pagine De Nuzzo informa
sulle abitazioni sino all’alto Medioevo, e registra un’alternanza
di progressivo/regressivo dovuto a circostanze storiche ben
individuate. Colpisce il fatto, in un sistema che intendeva essere
ferreamente organizzato (l’impero romano sia pure in fase di
decadenza), che certe situazioni suggeriscono libertà d’iniziativa
del “libero contadino”, come si legge a p. 21:
L’insediamento [rurale] viene così creato dal libero contadino e
non dal dominus, in modo spontaneo ed autonomo, nonostante il
forte “dirigismo” tentato soprattutto da Diocleziano …
È un flash soltanto, ma che
illumina una situazione che tende a sfuggire a delle stereotipe
coordinate delle nostre conoscenze.
Dove occorre, De Nuzzo corregge
acquisizioni che si danno per certe. Così a proposito della vita
“in rupe”, cioè della sistemazione di singoli o gruppi in grotte
usate abitualmente come abitazioni. Una persuasione diffusa era
quella secondo la quale l’abitudine di promuovere le grotte allo
status di unità abitative (chiamiamole così) risaliva ai monaci
basiliani fuggiti dalla persecuzione dell’imperatore Leone III l’Isaurico
noto per la sua avversione e per la guerra dichiarata alle
immagini sacre: l’iconoclasta, per dirlo con un termine “tecnico”.
De Nuzzo ricorda, a p. 22:
In realtà, come
dimostrano le scoperte archeologiche e come aveva già fatto notare
qualche studioso, l’importazione del vivere nell’habitat rupestre
non risale alla venuta dei monaci italo-greci; è una tendenza
riscontrabile già molto prima e anche gli esempi agiografici
permettono di retrodatare questo modus vivendi al tardoantico.
Si è ancora, con questi richiami,
in quel quadro generale nel quale si colloca il tratto distintivo
riguardante un periodo - visto attraverso una tipologia abitativa
- della storia di Casarano.
Anche l’indagine specifica su
Casarano prende avvio da una ricognizione ad ampio raggio.
Un procedimento sentito come
necessario per dare, poi, una giusta lettura degli elementi
osservati. Avverte; De Nuzzo, che
Prima di
iniziare ad analizzare la tipologia abitativa di Casarano bisogna
fare un piccolo excursus storico della storia stessa del paese, al
fine di individuare i luoghi per le analisi delle costruzioni da
prendere in considerazione e quindi studiare la tipologia.
(p. 32).
Caratteristico
dell’abitato di Casarano, scrive De Nuzzo, è d’essere stato un «nucleo
urbano in continuo movimento».
Questo carattere
di vitalità sembra derivargli dall’essere, esso, posto
all’incrocio viario di «strade d’una certa rilevanza». E De
Nuzzo rintraccia i percorsi possibili di quelle strade: tratturi
che collegavano luoghi non sempre vicini tra loro e tendevano da
una parte verso Ruffano, da un’altra verso Gallipoli. Su quei
percorsi si ritroveranno, più tardi, i pellegrini che da San Mauro
di Gallipoli, passando per l’altura della Campana e incontrando e
superando il Crocifisso, «lungo l’antica via messapica
arrivavano alla Madonna della Strada di Taurisano».
De Nuzzo apre,
con queste annotazioni, una pagina di grande fascino; distende
davanti ai nostri occhi non semplicemente una carta con i
tracciati delle strade, ma ci aiuta ad immergerci in un paesaggio
reale che, al di sotto dell’aspetto assunto oggi, lascia
intravedere la sua faccia remota e conferma, nell’evocato
intreccio di quelle strade, nel passo degli uomini che le
percorsero, l’azione delle lontane generazioni che le tracciarono
e le utilizzarono.
Vorrei fermare
qui un’osservazione, a questo proposito. Il merito di certe opere
è, oltre quello di fornirci preziose informazioni, di ricostruire
con vivezza un luogo, un tempo, un ambiente la cui suggestione
nasce da un felice incontro del dato storico con la nostra
immaginazione.
Sugli elementi
forniti dalla ricerca, noi possiamo rivivere, immaginosamente, la
vita dei nostri antenati lontani. Il libro di Pino De Nuzzo ha
anche questo merito, questa capacità.
C’è un modo
cordiale e coinvolgente che De Nuzzo usa per, direi quasi,
prendere per mano il lettore e fargli “vedere” con immediatezza
una situazione. Questo avviene quando il discorso abbandona per un
momento il suo carattere di relazione oggettiva e procede ad una
forma di coinvolgimento più diretto del lettore (o, se si vuole,
dell’ascoltatore). Così, ad esempio, a p. 36:
Se voi
iniziate a vedere il territorio sgombro da costruzioni, riuscirete
a vedere come la posizione di una roccaforte in quel punto [la
zona dell’Immacolata e del Calvario] era altamente strategica in
quanto semicoperta dal promontorio dell’attuale piazza San
Domenico, controllava tutto il contesto, lasciando ampio spazio
discendente intorno a sé.
Un altro dei modi
ai quali De Nuzzo ricorre per dare improvvise accensioni di
vivacità al discorso è quello di introdurre delle domande, come in
un questionario, e di fornire delle risposte. Più che
un’impressione di procedimento didattico di natura scolastica,
questa modalità del discorso avvicina ad una forma di
conversazione.
De Nuzzo ricorda
che, sotto il dominio bizantino, migranti “indirizzati”
dall’Anatolia sul nostro territorio, erano visti, dal potere che
ne favoriva l’emigrazione, come possibili difensori del territorio
che andavano ad occupare. E chiede (e si chiede):
Cos’ebbero in dotazione questi coloni al loro arrivo nel Salento?
E risponde, e si
risponde:
Solo
un pezzo di arida terra da coltivare e dove edificare una
costruzione da adibire a dimora per sé e per la propria famiglia.
Segue un’altra
domanda:
È giusto
chiamare case a corte gli insediamenti primitivi esistenti nel
centro storico di Casarano?
Qui la risposta
si fa più articolata e si apre il colloquio con studiosi (De Nuzzo
cita ampiamente Antonio Costantini) che si sono interessati
dell’argomento prima di lui. Una lunga citazione introduce al
nucleo centrale del discorso. Si individua la caratteristica delle
antiche abitazioni di Casarano: esse hanno forma rettangolare con
il lato lungo sulla strada. Due le tipologie fondamentali: con
slargo anteriore l’una; l’altra, con un corridoio laterale. Non
erano preoccupazioni di natura estetica a determinare il
posizionamento degli stabili, ma la necessità di risparmiare
spazi. Le coperture, inizialmente sono con tetti di tegole
sostenuti da uno strato di incannucciato; in seguito si passerà
alla copertura a volta. De Nuzzo si sofferma a chiarire i vari
tipi di volta fornendo utili indicazioni tecniche: utili, voglio
dire, a chi voglia avere un’idea più precisa di tali costruzioni
anche se non ha in proposito cognizioni tecniche specifiche.
Rapidamente
vengon passati in rassegna gli ambienti che potremmo dire
“complementari” dell’abitazione; l’ortale, nel quale «venivano
coltivate tutte le verdure necessarie, per quanto possibile, al
fabbisogno alimentare»; e la stalla, ricavata nello scavo prodotto
dall’estrazione dei conci destinati alla costruzione: una
situazione, questa, inusuale nella casa a corte salentina dove,
solitamente, la stalla veniva costruita allo stesso piano
dell’abitazione.
Distintiva della
costruzione casaranese antica è la verticalità, che la differenzia
dalla normale tipologia in cui prevale l’orizzontalità nella
disposizione dei corpi di fabbrica. Quindi, conclude De Nuzzo,
Il nostro
schema che tipologicamente, all’origine, è orizzontale nella
tipicità della casa a corte, nel nostro caso, a causa della
carenza degli spazi, diviene verticale con uno sviluppo,
inizialmente sotterraneo e poi, [….] esteso al primo piano della
costruzione originaria (p. 59).
Osservazioni
molto interessanti contiene la parte dedicata al recinto. Dapprima
il recinto fu un semplice segnalatore di proprietà. Quando
progressivamente andò modificandosi provocò il determinarsi di uno
spazio chiuso, interrotto solo dal portone d’ingresso.
La socialità
diminuisce, aumenta la volontà di salvaguardare il privato. Se la
semplice linea di confine non impediva la socializzazione, la
tensione verso l’esterno, l’alzarsi dei muri e la chiusura
progressiva indicano la volontà di sottrarre sempre più il proprio
modo di vivere a una eccessiva esposizione socializzante. Questo
processo, annota De Nuzzo, porterà al «distaccamento della
famiglia dei figli da quella dei genitori, passando così dalla
famiglia allargata alla piccola famiglia, ovvero quella odierna».
Il discorso di De
Nuzzo si allarga a toccare, poi, altri aspetti legati alla
tipologia dell’abitazione solo in ragione del suo fungere da
supporto, per così dire, a manifestazioni della vita sociale.
Un aspetto ne è
l’esternazione della spiritualità. Quando una processione passa
per la strada, le famiglie che abitano in quella strada stendono
lungo i muri le coperte più belle e ricche per onorare il santo in
processione ma, in realtà, per dare un segno del loro status,
della loro solidità economica. Da noi questa tradizione era legata
particolarmente ad una processione solenne come quella del Corpus
Domini.
Edicole sacre
vengono collocate sui muri delle case e, in caso di trasferta dei
proprietari, le immagini dei santi, se non dipinti sul muro,
seguono i proprietari nella nuova residenza. Insomma, mentre la
vita personale e familiare dà segni di interiorizzazione, o vuol
sottrarre allo sguardo ed al giudizio altrui il proprio privato,
la religiosità, che dovrebbe essere sentimento intimo, si
esteriorizza e si spettacolarizza.
Quel tanto di
socializzante che ne nasce perderà significato col tempo, e finirà
per esaurirsi. Si esaurirà anche la modalità in cui un tempo si
intrecciavano i rapporti del vicinato e la vita in comune nella
strada. Il teatro naturale che era la strada verrà
progressivamente disertato, e solo d’estate magari è possibile
cogliere la sopravvivenza di qualche traccia.
De Nuzzo, e
questo va ascritto a suo merito, non ha trascurato nulla
nell’intento di fornire un’idea precisa non solo della casa a
corte bizantina nel centro antico di Casarano, come promette il
titolo del suo libro, ma ha poi allargato il discorso a quelli che
sono gli effetti che una modalità dell’abitare produce sulle
relazioni interpersonali e di gruppo e sui più diversi aspetti
della vita sociale. Il discorso, nonostante i necessari
riferimenti “tecnici”, è conversevole; sicché tutti possono
leggere con profitto il libro. Questo, poi, può stimolare qualche
curiosità, sollecitare a saperne di più e quindi a far proseguire
il lettore eventuale su percorsi anche più articolati.
Il corredo
iconografico del libro non è subalterno alla parola; immagini e
parole s’intrecciano e s’illuminano vicendevolmente per concorrere
ad un discorso ricco, chiaro, suggestivo.
Un libro, questo
di De Nuzzo, che può andare in molte mani con la sicurezza di
essere ben accolto.
Esso corrisponde
a quelle che sono le finalità di un C.R.S.E.C.: portare
l’attenzione sulla cultura del territorio, favorire le conoscenze,
stimolare l’interesse. Traguardi, a mio parere, tutti raggiunti da
queste pagine
ricche di richiami, di notizie, di curiosità. Ricche di storia:
della nostra, naturalmente. Di quella storia alla quale anche noi
apparteniamo e che ci appartiene.
F.FASANO
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