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Letti
per voi
tratto da "La
Settimana Letteraria" di Buongiorno.it e
da
. Elenco:
Torna a: "l'angolo
letterario" | |
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Le
menzogne dell'impero e altre tristi verità
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Gore
Vidal
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Fazi Editore, pp. 152, 13 euro |
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Perché la junta petroliera Cheney-Bush
vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi |
Gore Vidal pubblica
una raccolta di undici saggi brevi su vari aspetti inquietanti della
realtà politica americana.
Inedito il primo, da
cui il libro prende il nome; già pubblicati negli ultimi anni su varie
riviste statunitensi gli altri dieci.
L'autore conferma un
sospetto già avanzato nella sua precedente opera "La fine della libertà",
in cui si chiedeva se Bush, così come Roosevelt nella seconda guerra
mondiale a proposito di Pearl Harbor, non fosse stato a conoscenza
dell'attacco di Al Qaeda prima che venisse sferrato. Stando al racconto
dell'autore vari elementi non tornano. Uno per tutti il fatto che per ben
un'ora e venti minuti, l'11 settembre del 2001, i caccia da combattimento
americani non si siano levati in volo e che Bush abbia continuato
tranquillamente la visita in cui era impegnato in un istituto scolastico,
anche dopo essere stato informato dei dirottamenti. La tesi netta ed
esplosiva dell'autore è che gli Stati Uniti avessero già programmato di
attaccare l'Afghanistan prima dell'11 settembre e che nell'attentato al
World Trade Center avessero semplicemente trovato il pretesto di cui
andavano in cerca da tempo. Anzi, secondo Vidal, gli USA avrebbero
addirittura favorito, se non commissionato, l'azione terroristica, in
omaggio ad una strategia imperialistica di controllo delle risorse
petrolifere e metanifere del Mar Caspio.
Le affermazioni dell'autore non sono estemporanee, ma si ricollegano a
tutta una serie di acute considerazioni sulla democrazia americana, la cui
autenticità sarebbe stata minata irreparabilmente dalla condotta di
Roosevelt prima e di Truman poi nella seconda guerra mondiale e al momento
dell'avvio della guerra fredda.
Valide o meno che
siano la sue tesi, l'autore ha l'innegabile merito di rompere il muro di
gomma che sembra essere stato eretto dalla stampa in omaggio ad una non
sempre consapevole ortodossia. Troppo poco si parla degli interessi
economici che sottostanno alle scelte politiche degli stati, troppo si
concede agli slogan politici inculcati nelle masse senza adeguate
spiegazioni.
E allora è inquietante vedere gli Stati Uniti paragonati all'Hitler che
giustificava ogni aggressione presentandosi come la parte lesa, ma fa
anche riflettere su un certo allarmismo diffuso ad arte in alcuni momenti.
Ed è vero che alcuni paesi dispongono di armi di distruzione di massa il
cui potenziale utilizzo spaventa. Tristemente vero è, infine, il fatto che
gli USA da soli spendano nella difesa 22 volte quanto i cosiddetti "stati
canaglia" messi insieme.
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Buskashì
- Gino Strada - Feltrinelli
pp.
178, 12,00 euro |
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"nonostante
tutti abbiano agito in difesa della civiltà o della libertà, della
religione e della patria, del mercato e della democrazia, nonostante tutti
abbiano agito per il 'giusto', non è stato giusto"
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Dopo l'11 settembre
2001, mentre tutti lasciavano più o meno disperatamente l'Afghanistan
prevedendo l'imminente inizio di una guerra cruenta,
Emergency, altrettanto disperatamente, tentava di raggiungere Kabul
per portare soccorso alle tante vittime che inevitabilmente si sarebbero
avute.
Più facile a dirsi
che a farsi, perché in quel contesto neanche gli aerei della Croce Rossa
Internazionale e dell'ONU, che pure entravano vuoti nel paese con l'unico
scopo di prelevare il personale in servizio, volevano la responsabilità di
dare un passaggio in direzione opposta a nessuno. E’ così che Gino Strada
e i suoi amici, unici testimoni occidentali della liberazione di Kabul,
sono entrati nel paese attraversando a dorso di cavallo le montagne che lo
separano dal Pakistan fino ad arrivare in Panchir, la terra degli
oppositori al regime dei talebani. E da lì hanno raggiunto la capitale,
rischiando la vita nella terra di nessuno che separa i due fronti interni
al paese. “Buskashì” (Feltrinelli,
pp. 178, 12,00 euro) è il racconto di questo viaggio e del soggiorno in
Afghanistan, dove i nostri hanno lavorato tra le bombe per portare
soccorso nel momento di maggiore bisogno.
Se in "Pappagalli
verdi" Gino Strada parlava principalmente della sua esperienza sul campo,
con convinzione, ma anche con la schiettezza di chi, facendo scelte
difficili, non nasconde di essere tormentato per questo, qui il racconto
delle vicende vissute si intreccia a giudizi politici netti,
considerazioni che derivano dal contatto con una realtà profondamente
difforme da quella divulgata dai mezzi di comunicazione di massa.
"Sono quindici anni
che vedo atrocità e carneficine compiute da vari signori della guerra, chi
si diceva di "destra" e chi di "sinistra", e non ci ho mai trovato grandi
differenze. Ho visto, ovunque, la stessa schifezza, il macello di esseri
umani". Quello di Gino Strada è un rifiuto radicale della guerra, da
qualunque parte essa venga. Il suo ragionamento è semplice. L'Afghanistan
è un paese situato in una posizione strategica, la cui “amicizia” è
essenziale per il controllo delle risorse energetiche dell'Asia Centrale,
agli USA serviva e se lo sono preso, così come ha già fatto l'Unione
Sovietica negli anni '80. Il terrorismo del World Trade Center è identico
a quello commesso dall'Iraq contro i curdi col beneplacito di Stati Uniti
e Gran Bretagna, a quello di Hiroshima e Nagasaki e del Vietnam e ai morti
causati dall'embargo imposto dall'ONU al regime di Saddam. Ovunque ci sono
stati vittime innocenti e diritti umani calpestati, ovunque morte,
distruzione e guerra che genera odio che genera guerra.
"Buskashi" non è
opera di uno scrittore né di uno studioso di geopolitica, ma è un diario
di viaggio di un chirurgo, ed è scritto con il cuore. E infatti la
narrazione è maggiormente efficace là dove Strada espone le sue
convinzioni di fondo, la sua idea della pace. Tra una pagina e l’altra si
leggono delle rivelazioni inquietanti, come quella contenuta nel racconto
della storia di Farema, divenuta vedova e mamma nello stesso giorno,
uccisa con la sua famiglia a colpi di mitragliatrice dalle forze speciali
inglesi mentre in macchina raggiungeva l'ospedale. I giornali occidentali
hanno detto in proposito che quel giorno per la prima volta la forza
multinazionale aveva subito un attacco cui aveva dovuto rispondere col
fuoco.
In appendice
troviamo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, estremo
argomento dell'autore a sostegno delle sue tesi. L'articolo 2 recita: "A
tutti gli uomini spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate
nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di
razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica
o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di
nascita o di altra condizione". L'articolo 3 invece dice: "ogni individuo
ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria
persona". Da dove vengono allora le innumerevoli vittime civili, gli aiuti
umanitari a senso unico, l'attacco all'Afghanistan, "non i deserti di
roccia e di sabbia né le fertili piane, ma i ragazzi, le donne, i bambini,
i meravigliosi vecchi dell'Afghanistan"?
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C'era una volta l'amore ma ho dovuto
ammazzarlo - Efraim
Medina Reyes - Feltrinelli a cura di
Laura Giacalone
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"La filosofia indaga
l'esistenza ma non ci aiuta a esistere. La religione ci insegna a
disprezzarci. L'arte è un buon alibi ma lontano da casa diventa inutile.
Non c'era niente di meglio da fare che starsene sdraiati a guardare il
soffitto"
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Chi si aspettava
vegliardi centenari e piogge di farfalle leggendarie si sbagliava. Il
realismo magico, negli ultimi romanzi latino-americani, sembra aver fatto
il suo tempo. A prendere il posto degli stereotipi narrativi ad uso e
consumo del lettore occidentale è un genere di scrittura diversa:
sfacciata e irriverente, scomoda, a volte fastidiosa. Tale sembra essere,
perlomeno, la sensazione che accompagna la lettura di
C’era una volta l’amore, ma ho dovuto ammazzarlo, il romanzo del
colombiano Efraim Medina Reyes.
Accantonata la
pesante eredità dei vari Garcìa Marquez e Vargas Llosa, lo scrittore
strizza l’occhio alla narrativa bukowskiana e ci racconta la storia
disincantata e scomposta di un amore perduto. Lo scenario è quello di una
Bogotà caotica e sfacciatamente metropolitana, nella quale agiscono vari
perdigiorno idealisti e incattiviti. La voce dominante è quella di Rep,
sospeso tra fallimenti sentimentali, velleità letterarie e torbide storie
di sesso. I suoi pensieri, sempre politicamente scorretti, sono interrotti
da sceneggiature immaginarie e ipotetici scenari di vita dei suoi miti del
rock.
Ecco quindi che le sue vicende si
intrecciano con la fine disperata di Sid Vicious e la chitarra invisibile
di Kurt Cobain. I suoni di Seattle, evocati, accompagnano pensieri dotati
spesso di una semplicità disarmante. Una scrittura passionale e
arrabbiata, a volte eccessiva. Vietato, però, cadere nelle trappole
maschiliste e anti-letterarie disseminate lungo il racconto! L’impressione
finale è che quella di Medina Reyes sia, più che altro, una provocazione.
Ma il lettore, si sa, ama anche essere contraddetto e, dopo una attimo di
esitazione, non può fare a meno di perdersi nel caos di un inedito
immaginario narrativo.
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Ingannevole è il cuore più di ogni cosa
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J.T.
Leroy
Fazi Editore - traduzione di
Martina Testa, pp. 200, euro 12,50 |
| Di sé e
della propria infanzia J.T. Leroy raccontava nel suo primo romanzo. Il
romanzo si chiamava
Sarah ed era uscito in Italia poco più di un anno fa,
spiazzando e folgorando critica e lettori per crudezza, dolore e incanto.
J.T. Leroy raccontava un'infanzia fatta di marchette e mancati amori. Più di
ogni altro il mancato amore materno. Sarah il nome della madre. Nel suo
secondo romanzo Leroy torna a raccontare di sé e di Sarah. E quella che
potenzialmente potrebbe essere sempre la stessa storia in realtà è tutta
un'altra storia. I protagonisti sono sempre madre e figlio, anche se tutto
quanto intorno è un po' diverso, quasi che a raccontare un pezzo della
propria vita a distanza di anni le cose accadute siano leggermente cambiate.
Quasi che il divenire della memoria riesca a incidere sulla vita passata,
cambiando un po' le carte in tavola, o semplicemente raccontando il non
detto di prima. Quel non detto che riempie gli spazi concessi
all'immaginazione. E mentre si legge la storia di Jeremiah e di Sarah la
sensazione è che, pur essendo stata scritta sempre dallo stesso Leroy, sia
una storia corale. Leggere
"Ingannevole è il cuore più di ogni cosa" è di per sé gran bella cosa.
Inevitabile è leggerlo in funzione di "Sarah" se si è già letto "Sarah".
Inevitabile perché affascina come due libri scritti da uno stesso scrittore
che racconta la stessa storia riescano a guardarsi a distanza senza mai
specchiarsi. Questo pensi
mentre leggi "Ingannevole e il cuore più di ogni cosa", e ti commuovi
all'idea di un bambino che vive una pessima infanzia e poi cresce quanto
basta per farne dei libri, senza mai venire a capo dell'inevitabile domanda:
a chi serve tutto ciò? a lui che scrive? a lui dopo che scrive? a noi che
leggiamo? alla letteratura? Te lo domandi, e subito dopo ti chiedi come
possa un ragazzo cresciuto in mezzo alla strada a fare marchette, tra
puttane e camionisti, avere appreso così bene l'arte dello scrivere. Arte
che sta non soltanto nell'intensità delle cose scritte, ma nel modo in cui
vengono scritte. Te lo chiedi tra te e te appena chiudi il libro, e rimani
in silenzio con una domanda aperta e una storia chiusa.
J.T. Leroy è nato nel 1980 nel West
Virginia. Dall'età di sedici anni ha pubblicato racconti su riviste e su
Internet con lo pseudonimo di Terminator. Ha vissuto gran parte della sua
breve vita tra camionisti e prostitute insieme alla madre, Sarah. Poi è
approdato a San Francisco, dove ha continuato la vita di strada, prendendo
ogni tipo di droga.
J.T. Leroy a Roma J.T. Leroy, giovanissimo autore di "Sarah" e di "Ingannevole è il cuore più
di ogni cosa", famoso per la sua ritrosia a mostrarsi, comparirà in
esclusiva mondiale e per la prima volta in pubblico. L'evento è previsto a
Roma, la sera del 4 giugno alla Basilica di Massenzio, nell'ambito della
prima edizione del
Festival Letterature. |
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Un segno invisibile e mio
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Minimum Fax
Aimee Bender - traduzione di Damiano Abeni e Martina Testa, pp. 257,
euro 13,50 |
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Mona Gray fa vent'anni alla prima pagina del libro, appena dopo il prologo.
E per i suoi vent'anni si compra un'ascia al negozio di ferramenta del
signor Jones. Mona Gray insegna matematica alle elementari. Il signor Jones
era il suo insegnante di matematica delle elementari. La matematica, dunque, c'entra in ogni caso. La matematica è nei "numeri e
materiali" che gli allievi di Mona portano in classe durante le lezioni. La
matematica è nei numeri di cera che il signor Jones s'appende al collo ogni
mattina per dichiarare al mondo il proprio umore. La matematica è nei segni
che Mona interpreta incontrando numeri in ogni dove. La matematica è anche
nell'ascia, che appena Mona la appende al muro della classe diventa un
sette. La matematica è una sorta di antidoto alle cose della vita, quasi che
a contarle perdano d'intensità e dolore, quasi che a dirle a numeri si
accontentino di fare i numeri senza la necessità di un coinvolgimento
emotivo. Ma, si sa, non è così che vanno le cose. E basta soltanto che una
bambina tiri giù dal muro il sette perché il sette torni a fare l'ascia e
qualcuno si faccia male. Basta che il tubicino della flebo smetta di essere
uno zero perché un tumore sia un tumore. Basta perdere di vista la forma
delle cose per ritrovarsi davanti tutta il dolore che ogni tanto arriva e
non si sa che farne, o per ritrovarsi la gioia che altre volte rende più
attoniti del dolore. Mona Gray, ad esempio, è una ventenne assolutamente incapace di portare a
termine le cose, e così va avanti a forza di interruzioni sul più bello
lasciando tutti quanti intorno a lei perplessi e addolorati. Senza alcuna
apparente ragione, appena qualcosa di bello le accade, lei non può proprio
evitare di lasciar perdere e fare dell'altro. Condizione che, a pensarci,
non è poi così raro incontrare nella vita, così come non è raro incontrare
tra gli altri personaggi di questo romanzo. Il romanzo è Un segno
invisibile e mio della trentatreenne americana Aimee Bender - della quale Minimum fax ha già
pubblicato un racconto all'interno della bella antologia
Burned Children of America che della ventenne Mona Gray racconta
miracolose avventure e amori. E li racconta in maniera così accattivante da
lasciarti incollato alle pagine del libro, una dopo l'altra, alla scoperta
dell'imprevedibile che accadrà dopo. Avventure inaspettate e surreali quelle
della graziosa Mona, che hanno in sé gloria e mestizia di tragedie e drammi.
Eppure sono avventure che, comunque vadano le cose della vita, sanno cascare
in piedi. Avventure che hanno la leggerezza del racconto concessa dall'amabile
scrivere della Bender. Leggerezza che non a tutti gli scrittori è data, e che riesce a tenere a
bada anche il lato macabro delle cose e a far sì che mai l'orrore sia
veramente orrore. Quasi che a guardare il tutto dall'alto siano gli occhi
incantati di un bambino.
Aimee
Bender, 33 anni, vive a Los Angeles. I suoi racconti sono stati
pubblicati su prestigiose riviste letterarie come la Paris Review e
Granta; ha esordito nel 1998 con una raccolta di grande successo
negli Stati Uniti, The Girl in the Flammable Skirt. Questo è il suo primo romanzo, che ha ricevuto consensi unanimi dalla
critica americana. |
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Questioni
delicate che ho affrontato dall'analista
di
Matthew Klam Minimum Fax traduzione di Matteo Colombo, pp. 224, euro 13,00 |
| Il primo racconto
si chiama "Gatto Sam" e comincia così: "Quello che ti ricordi di una ex è
perfetto". Da lì inizia una divertente visita guidata attraverso le ex
fidanzate di un uomo che cerca di venire a capo della propria vita amorosa.
Una storia d'amore, dunque. Come storie d'amore sono i racconti a venire,
gli altri sei racconti che fanno parte della raccolta di Matthew Klam:
"Questione delicate che ho affrontato dall'analista". Racconti d'amore e non
amore, in cui i protagonisti procedono in coppia, proprio per non smentire
la natura stessa di ogni relazione sentimentale. Un filo conduttore voluto,
questo, o forse soltanto casuale, ma che, in ogni caso, funziona. Funziona e
fa riflettere su quale sia la differenza tra una riuscita raccolta di
racconti e un semplice insieme di storie in cui il venir meno di una o più
non cambierebbe il risultato finale. "Questioni delicate che ho affrontato dall'analista", oltre ad essere uno
dei racconti pi&ug rave; belli e accattivanti dell'intero libro, è una
raccolta riuscita. E, come in ogni raccolta riuscita, concede al lettore il
beneficio della scelta: leggere i racconti singolarmente e a distanza di
tempo, o leggerli uno dopo l'altro avendo quasi la sensazione che si tratti
di un'unica grande storia, di una sorta di viaggio sentimentale che racconta
il divenire dell'amoroso pensare di un uomo. La seconda
scelta probabilmente la migliore, senza però nulla togliere alla bellezza
del leggerli saltando dall'uno all'altro, cercando nella discontinuità delle
storie - metafora perfetta per dire la discontinuità dell'amore - un
possibile nuovo filo conduttore.
Matthew
Klam
| | La figlia dell'aggiustaossa
- Amy Tan Feltrinelli - traduzione di Laura Noulian, pp. 224,
euro 13,00 |
| E' il quarto romanzo di Amy Tan, scrittrice abile nel
narrare gli scarti generazionali di chi come lei, nata in California da
genitori cinesi, ha vissuto a metà strada tra Oriente e Occidente. "La
figlia dell'aggiustaossa" è la straziante e bella storia di una madre e di
una figlia. LuLing la madre, partita alla volta dell'America subito dopo la
seconda guerra mondiale e lì diventata per la seconda volta moglie e vedova
e per la prima volta madre. Ruth la figlia, nata e divenuta orfana subito
dopo esser nata. Del rapporto tra madre e figlia Amy Tan racconta il
divenire, che è un po' il divenire di ogni rapporto tra una madre e figlia,
ovvero la crescita che, dopo un inevitabile distacco, porta ad un
altrettanto inevitabile riavvicinamento. LuLing e Ruth si ritrovano, a più
di quarant'anni dalla nascita di Ruth, a ricostruire insieme la storia
dell'infanzia della madre di LuLing. Una storia accaduta in Cina e scritta
da Preziosa Zietta, madre di LuLing, perché non vada dimenticata. Alla
storia di Preziosa Zietta s'intreccia quella di LuLing, anch'essa scritta
per non essere dimenticata, e la storia di Ruth, che Amy Tan scrive perché
racchiuda le altre due. Il risultato è un romanzo che sembra un po' una
matrioska rovesciata, in cui la matrioska piccola per qualche inspiegabile
miracolo riesce a contenere la matrioska un po' più grande che a sua volta
ha in sé quella più grande. E il tutto - il romanzo nella sua completezza e ogni
singola microstoria in esso contenuta - spiazza e commuove per la capacità
che ha di fondere oriente e occidente nel modo di sentire e di percepire le
cose della vita. E al tempo stesso ha in sé un qualcosa di universale che è
l'inevitabilità e bellezza dell'affetto di una madre per una figlia e,
soprattutto, di una figlia per una madre. Amy Tan
è nata nel 1952 a Oakland in California da genitori
cinesi, dopo un breve soggiorno in Svizzera si è laureata in linguistica
all'Università di San José e attualmente vive a San Francisco. Il suo primo
romanzo ("Il circolo della fortuna e della felicità", Rizzoli 1989 e
Universale Economica Feltrinelli 2001) ha avuto il merito di far conoscere
al grande pubblico la cosiddetta letteratura multietnica, il filone di
quegli autori (figli di immigrati o immigrati loro stessi) che ha saputo
esprimere i problemi relativi all'integrazione di culture diverse. Con "La moglie del dio dei fuochi" (Interno Giallo, 1992) e "I cento sensi
segreti" (Feltrinelli 1996) Amy Tan ha confermato il suo successo e la sua
eccellenza narrativa. |
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L'ultima morte di Wozzeck
Fernando Lleras de la Fuente
Besa Editrice
traduzione di Maurizio Fantoni Minnella, pp. 133, euro 12,40 |
| "Si trovava a dormire placidamente quando sentì
una sorta di ventosa sulla guancia. Una ventosa calda e umida. Non osò
aprire gli occhi per la paura di vedere un orrendo animaletto che gli
succhiava il cuore, pronto ad inculcargli chissà quale veleno". Iniziano
così le avventure di Leon Fleisher e del suo doppio. Un inizio che rievoca
inevitabilmente le kafkiane avventure di Gregor Samsa, per restare
altrettanto inevitabilmente spiazzati, prima che la pagina sia finita,
dall'apprendere che l'orrendo animaletto in realtà non è un animaletto. A
svegliare in modo 'sì inquietante il povero Leon sono, infatti, i suoi due
bambini e la moglie. E quello che ci si presenta davanti agli occhi dovrebbe essere un allegro quadretto familiare. Dovrebbe, ma non lo è.
Altrettanto repentinamente entra in scena il doppio di Leon, ovvero Wozzeck,
uomo spietato e destinato a un'irrimediabile infelicità, propria quanto
altrui. E insieme a lui - quasi dentro di lui - vengono fuori personaggi
ugualmente tetri, quasi che ad avere una visione pessimistica della vita la
vita diventi oggettivamente pessima. La pessima vita di Wozzeck avanza,
sprezzante delle esigenze del povero Leon. Anzi: facendo di tutto per
annientare il povero Leon, e insieme a lui tutta la sua allegra famigliola.
E l'unica via di fuga da simile incubo che Wozzeck concede a Leon sta nella
domanda: esiste veramente l'amore? A Leon l'arduo compito di dimostrare - a
se stesso prima ancora che a chiunque altro - che la moglie Karen/Tuic lo
ama veramente. "Dovrai spiegarmi che cos'è l'amore", gli domanda spietato
Wozzeck. Per poi dire, più avanti, tra sé e sé: ""Merda! Ho letto tutto sull'amore! I poemi di Shakespeare, le lettere di Elisabeth Browning, i
sonetti di Lope de Vega! Ho letto Salomone! Neruda! Tutto il maledetto
universo! Conosco quello che dicono ma non lo comprendo! Lo vivo senza
sentirlo, lo sento senza viverlo, e senza dubbio, amo! Amo? Cosa vuol dire
amo? Morire o vivere? O nulla?".
Fernando Lleras de la Fuente è nato a
Bogotà nel 1947. Studioso di musica e di economia, pianista e compositore,
ha lavorato per qualche tempo nel servizio diplomatico. È stato professore
di economia all'Università di Bogotà. Il suo impegno nella politica e
nell'economia del paese lo espose a tentativi di sequestro dei suoi figli e
assistette alla morte di molti amici che, come lui, lavoravano per cambiare
la sorti politiche della Colombia. Da alcuni anni ha declinato qualsiasi
incarico diplomatico per potersi dedicare interamente alla scrittura (alla
novella, alla poesia e alla saggistica interdisciplinare). Attualmente vive
in volontario esilio a Caracas dopo aver lasciato la Colombia. Dopo "El
riesgo del domingo" (1980), pubblicato in Italia da Besa con il titolo
"Ombra e penombra" (2001), l'attività artistica di Lleras si è orientata
verso la poesia: "Silencio de segretos pasadizos" (1979), "El corazon
suspenso" (1989), "Tiempo frágil" (1993). "Doce sonetos al amor" (1997)
conobbe una prima edizione in Europa, e precisamente a Vienna. |
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Il sentiero della
speranza
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Dominique Manotti
Marco Tropea Editore - traduzione di Francesco Bruno, pp. 316, euro
12,00 |
| Una ragazzina
tailandese viene trovata morta in un laboratorio del Sentier, quartiere
parigino abitato prevalentemente da turchi clandestini. Prende il via così
l'avvincente e ben scritta storia de "Il sentiero della speranza", che vede
il commissario Daquin alle prese con il primo dei suoi casi. Il libro è il
primo della scrittrice Dominique Manotti ad apparire in Italia. Dopo di
questo sono stati pubblicati in Francia altri due volumi che vedono Daquin
alle prese con altri casi sui quali indagare. Daquin è indubbiamente un
commissario sui generis, affascinante e geniale, ha in corso una storia
d'amore con Soleidad, uno dei capi del comitato di difesa dei turchi in
Francia, e al tempo stesso si lascia affascinare dalle seducenti modelle a
cui le sue indagini lo conducono. Un personaggio al quale ci si affeziona
all'istante, più per attrazione che per tenerezza. Del quale innamorarsi, o
desiderare essere un po' come lui. Intorno a lui gli uomini della sua
squadra, e persone di ogni sorta coinvolte in qualche modo nell'omicidio
della ragazzine. Sempre intorno a lui le strade, le piazze, i luoghi di
Parigi, raccontati quasi fosse la sceneggiatura di un film. Partendo dal 3
marzo 1980, per arrivare al 30 maggio dello stesso anno. La vicenda sulla
quale si trova a indagare Daquin coinvolge gli ambienti dell'haute couture
parigina e quelli della droga internazionale, il mercato dei clandestini e
la pornografia. Per ogni personaggio che entra c'è una porta che resta
socchiusa, lasciando intuire il verosimile mondo di squallore e delinquenza
che sta dall'altra parte. E il tutto è così perfettamente documentato da
rendere credibile ogni singolo dettaglio. Si ha quasi l'impressione che ogni
accadimento del libro sia vero, e, in ogni caso, la certezza che sia
sufficientemente vero da considerarlo un valido reportage su quella che è
stata la Francia di Mitterand e su quelli che sono alcuni aspetti della
criminalità organizzata internazionale. Non a caso è precisa la citazione
presa da Libération del 15 gennaio 1980 con cui si apre il libro. Così come
precisa è la descrizione di quel che è accaduto poi con cui il libro si
chiude: "Attualmente la zona della Mezzaluna d'oro (Afghanistan, Pakistan,
Iran) produce il settanta percento dell'eroina consumata in Europa e il
venti percento di quella destinata al mercato nordamericano. Fa seria
concorrenza al Triangolo d'oro (Birmania, Thailandia)".
Dominique Manotti
(1943) da
sempre militante sindacale nella Confédération Française Démocratique du
Travail, insegna Storia economica del XIX secolo all'Università di Parigi.
Il sentiero della speranza, che ha ricevuto il premio per il
miglior romanzo dall'Associazione francese degli scrittori del giallo
(1995), è il primo della trilogia ambientata nella Parigi di Mitterand che
ha come protagonista il commissario Daquin. |
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Con le donne ho chiuso -
Sonzogno |
| "Quindi stai dicendo
che le donne cadono nella categoria del mistero e che sto solo sprecando
energie cercando di capirle?"
Più che un manuale d’istruzioni per l’uso
dell’altro sesso, il romanzo di John Dearie è un divertente gioco di
specchi. E’ come assumere, per un attimo, la maschile percezione delle cose
e sciogliere, finalmente, l’incomprensione che spesso avvolge l’enigmatico
mondo delle relazioni tra uomini e donne. Nel vano tentativo di comprendere
il personaggio “uomo”, noi donne abbiamo spesso posto fine agli
arrovellamenti cerebrali barricandoci dietro rassegnate etichette
psico-terapeutiche: fobia del legame, tempesta ormonale in perpetua
attività, inguaribile sindrome infantile. Ma ciò che riesce più difficile è
riuscire a vedere noi stesse con gli occhi di un uomo. E sopravvivere! La
divertente storia di Jack - scrittore non pubblicato, tradito e disilluso –
ci permette di accostarci al mondo maschile con qualche consapevolezza in
più. Anziché infrangere gli inquietanti stereotipi relativi al comportamento
maschile, il romanzo di Dearie sembra a volte confermarli con disarmante
sincerità. Divertente,
sconsolata, ironica, intelligente: la scrittura dell’autore sembra essere
essa stessa ciò un uomo, forse, dovrebbe essere. Mettendo a nudo se stesso e
la propria categoria, Dearie svela al contempo le assurde e affascinanti
contorsioni mentali femminili. Inevitabile un perplesso esame di coscienza.
“Sexy le mani?”, si chiede il protagonista esplorando i bizzarri gusti
femminili. La consapevolezza della scarsa importanza attribuita alla
manicure sembra suggellare definitivamente quanto sia strano per un uomo il
mondo della libido femminile. Esilaranti i dialoghi: uomini a colloquio con
se stessi e con amici capitolati al grande passo nuziale. A colloquio con
donne disinibite ed ex agguerrite. Con amici spensierati e 35enni alle prese
con i significati esistenziali di un’incipiente calvizie. E alla fine
nessuna certezza: solo un irrisolto affascinante enigma. |
Adieu Simenon
- Robin Edizioni |
| "Emilia sentì un
brivido. Le parole di Simenon non avevano più un senso per lei. Quell'uomo
emanava una sorta di magnetismo, un alone che la stordiva, e le parole che
non capiva diventavano un suono che la confondeva"
Maurizio Testa,
giornalista romano, dopo “Maigret e il caso Simenon” e “L’uomo che voleva
essere Maigret”, abbandona il genere poliziesco ma non la sua passione per
Simenon, e chiude la trilogia a lui dedicata con la storia di un incontro
che cambia un’esistenza: l’incontro immaginario ma verosimile tra il grande
scrittore belga e una cameriera dell’hotel Excelsior a Venezia. Emilia è una giovane
donna che, all’inizio degli anni ’60, frustrata nelle sue ambizioni di
trovare una nicchia con una professione intellettuale, per vivere lavora
come cameriera nel lussuoso albergo. E’ qui che avviene il fatale incontro
con Simenon, venuto a soggiornarvi con la famiglia. Tra i due nasce una
passione istintiva e travolgente, tanto più immediata poiché l’uno conosce
pochissimo la lingua dell’altra. La comunicazione è tutta fatta di sguardi e
gesti, e dediche che ogni giorno lo scrittore appone sui libri che poi
Emilia di notte divora febbrilmente. Una storia che si consuma e conclude in
poco tempo, ma che dà il coraggio a Emilia di pretendere di più da se stessa
e dalla sua vita, spingendola ad abbandonare il suo lavoro. Inizia un
percorso lungo e dalle svolte inattese, il cui unico filo conduttore sembra
essere il costante pensiero rivolto a Simenon, cui Emilia scrive una sorta
di lettera-diario che a mano a mano gli spedisce, senza però ottenere
risposta. Ritroviamo così la
protagonista dapprima in una comune in Toscana, un collettivo agricolo dove
vive con una piccola comunità che decide e condivide tutto insieme, vive di
scambi, pratica l’autocoscienza. Sono gli anni immediatamente seguenti alla
contestazione del ’68, pervasi dall’illusione della possibilità di un
cambiamento sociale autentico. Emilia si lascia sedurre dalla vita della
comune, ma non perde senso critico e indipendenza, accorgendosi presto di
tutte le contraddizioni insite in un sistema che pretende di essere
totalmente autoreferenziale. E così, quando ancora una volta non si
riconosce nella vita che sta conducendo, Emilia decide che è il momento di
cambiare e, attraverso altre vicissitudini, la ritroviamo a Roma all’inizio
degli anni ’80, donna ormai matura, amante di un parlamentare socialista e
tutta immersa in quella corte dei miracoli che è l’alta società romana del
tempo, fatta di mondanità, politicanti parvenu, procaci vallette con
ambizioni di carriera, nuovi ricchi opportunisti e corrotti. Pur attraverso
esperienze così diverse, il cammino interiore di Emilia risulta
caratterizzato da una continua voglia di miglioramento, e soprattutto dal
pensiero costante, talvolta sfumato, talvolta invece oppressivo, del suo
amante francese, che continua ad accompagnarla spingendola infine a guardare
in faccia il passato e alla decisione di incontrare lo scrittore. Un racconto
verosimile, si diceva, e non solo perché Georges Simenon era famoso per la
sua passione per le donne e in particolare le cameriere degli alberghi in
cui soggiornava. In “Adieu Simenon” tutto è ricostruito con cura e
precisione: dall’ambientazione e l’atmosfera di anni cruciali della nostra
storia recente, alla psicologia dei due personaggi. Colpisce, in
particolare, la finezza con cui la mano dell’autore riesce a tratteggiare un
animo femminile – compito non certo facile - in tutta la sua complessità. Ne
risulta una storia che si presta a diverse letture: la storia di un amore
che libera, o che viceversa ostacola; di una donna incapace di amare, o che
invece è continuamente alla ricerca di quell’amore che le è sembrato di
vivere pienamente solo una volta nella vita, in una camera dell’hotel
Excelsior a Venezia. |
L'Italia in velocipede
- Sellerio |
| "Nel tardo pomeriggio,
dopo un'ampia svolta della strada, si aprì dinanzi a noi la vista di Capraia
che si ergeva alta sull'altra riva del fiume. Una visione lontana che non
lasciava scorgere i dettagli ma solo la massa delle case, le torri e il
campanile che si perdeva sbiadito nell'azzurro biancastro del cielo" Nel 1884 il
ventiquattrenne illustratore americano Joseph Pennell e la sua fidanzata
Elizabeth Robins, scrittrice e critica d’arte di successo, acquistano a
Londra un veicolo a tre ruote, un triciclo a due posti per l’esattezza.
Nell’autunno dello stesso anno decidono di intraprendere con questo un
pellegrinaggio da Firenze a Roma. Nasce così come resoconto di viaggio,
scritto da Elizabeth e illustrato da Joseph, “An Italian Pilgrimage”, edito
quest’anno in versione italiana per i tipi della Sellerio Editore Palermo.
Eccezionale documento
di un viaggio insolito affrontato con un insolito veicolo in un assai poco
noto centro Italia di fine Ottocento, il racconto narra soprattutto di
un’avventura contro il l’ignoto, di due giovani seduti su un triciclo carico
di bagagli ed armati esclusivamente della propria fisicità ed ottimismo. Ma
il bello è che c’è anche da ridere. Perché da Firenze a Empoli, da Siena a
Monte Oliveto, da Perugia a Spoleto, da Civita Castellana a Roma, ovunque
insomma, il passaggio dell’inconsueto mezzo provoca negli indigeni curiosità
e meraviglia ma anche paura ed ilarità. Dalla suora che terrorizzata si fa
il segno della croce coprendosi il volto al venditore di fiori che li addita
come esemplari da baraccone fino al gendarme che a piazza di Spagna li
blocca per guida pericolosa, i nostri due eroi si imbattono in un’umanità
quasi bambina, tenera e ignorante anche lei alla scoperta nel nuovo e del
diverso: “Gente eccitata si era accalcata sull’uscio anche dopo che avevamo
riposto il triciclo e curiosa aveva continuato a fissarci fin quando non si
trovò la porta chiusa in faccia. Ancora insoddisfatta, spiaccicava il volto
sui vetri delle finestre scrutandoci al di sopra di mucchi di pere rosse e
gialle, e di tanto in tanto qualcuno, più audace degli altri, furtivamente
ficcava il capo dentro la sala da pranzo sgambettando via prima di essere
preso”. |
Gli erranti -
Vagabondi, viaggiatori, scrittori
- Stampa Alternativa |
| "Scrivere - in forma
di poesia, saggio, racconto: fra questi non c'è deriva - non è infine azione
diversa dall'errare, da un metamorfico trascorrere. Dove lo scrittore non
spiega 'cosa significa scrivere': perché scrittura è l'erranza che non si
ferma dentro un significato e non finisce" Stefano Lanuzza, già
apprezzato autore di una raffinata ricerca sul personaggio del dandy nella
letteratura (“Vita da dandy”, Stampa alternativa, 1999), ci sorprende con un
nuovo testo che dedica agli scrittori “erranti”. Ovvero a quelli che
individua come autori che hanno fatto della fuga, del viaggio, del
vagabondare sia fisico che del pensiero fonte d’ispirazione del raccontare e
del narrare. “Gli erranti” contano
tra loro tra i più grandi scrittori e poeti della storia e all’interno di
sottogeneri che sono individuati nel testo (il viaggio fantastico, il
viaggio sentimentale, i figli del vento, la scesa agli inferi, la fuga,
l’erranza ecc.) troviamo una miriade di autori che nella loro dimensione
costituiscono le fondamenta stesse della letteratura occidentale e non solo. Il percorso da
seguire, corredato da un ottimo apparato iconografico, porta a visitare
epoche storiche e personaggi con le loro storie di vita e le loro opere, e
fa “perdere” il lettore su di un cammino dove il libro è nello stesso
istante viaggio e labirinto e il suo autore è Arianna che illumina i passi
con la sua fiaccola. Un sentiero che ci conduce da una parte all’altra del
mondo e tramite figure e autori la cui esistenza e il cui senso della vita
sono stati la fuga, la strada, la marginalità, il vagabondaggio: in questa
maniera costruendo man mano una straordinaria bibliografia ragionata e
impagabile, di estrema suggestione. Andando oltre quei
fenomeni conosciuti e idolatrati dei nostri anni (vedi Chatwin), la ricerca
minuziosa di Lanuzza esplora con un linguaggio veloce, allusivo, incantato,
anche figure minori e a volte dimenticate, ma che risaltano per la loro
originalità e per la loro opera spesso strettamente legata alla propria
vita: perché una delle peculiarità comuni di questi autori “erranti” è
proprio il legame indissolubile che ebbero tra la loro opera e la loro
esistenza. Imperdibile. | In tournée
- Feltrinelli |
| “Quando l’editore mi ha
proposto di raccogliere in un solo volume l’ormai introvabile ‘Daga nel
loden’ insieme a ‘Che faccia fare’ e all’ultimo nato, ‘Precise parole’
(degli interventi prefazioni, quello di Franca è “classico”, gli altri due
sono nuovi), ho provato un brivido a metà tra la gratificazione (tanta) e la
scaramanzia (in genere l’opera omnia è una faccenda postuma)”. Questa è
Lella Costa, attrice e dal 1987 anche autrice, in apertura al suo ultimo
libro, in cui sono raccolti tutti i testi degli spettacoli messi in scena
proprio dal 1987 ad oggi.
In tournée (Feltrinelli, pp. 320,
euro 9,00) si apre con i testi già apparsi nella ‘Daga sul loden’, a cui si
aggiungono ‘Magoni’, ‘Stanca di guerra’, ‘Un’altra storia’ e l’inedito
‘Precise parole’. Sono monologhi rivolti a un determinato pubblico – un
pubblico intelligente preteso ed inventato dall’autrice – sui grandi temi
della nostra società: dalle molte manie, piccole o grandi che siano, alle
pene, desideri e delusioni del sesso “debole”, allo scandalo tanto più
grande in quanto costantemente ignorato e volutamente sottovalutato e
minimizzato: quello della guerra. Un volume che riproduce fedelmente i testi
dei molti spettacoli di Lella Costa, volutamente privi di spiegazioni, note
ed appendici, e nonostante ciò coinvolgente ed incisivo come se lo
spettacolo si materializzasse nella nostra mente. E, nonostante la tragicità
di alcuni argomenti, il suo umorismo è sempre lì a farci sorridere nostro
malgrado, e a metterci sotto gli occhi anche aspetti della realtà che non
sempre vorremmo vedere. Con la prefazione di Gino
Strada (che Lella Costa sostiene nella battaglia di Emergency) e due
interventi di Franca Valeri e Gino Vacis. |
Desiderava la bufera
- Feltrinelli
|
| "Sentirai il tuono e
mi rammenterai, penserai: desiderava la bufera"
Desiderava la bufera (Feltrinelli, pp. 224, euro 13,00): titolo senza
dubbio evocativo, come lo sono, certamente, le innumerevoli citazioni tratte
dalla letteratura russa che impreziosiscono la trama. Gli ingredienti
sembrano esserci tutti: identità in crisi, fragili amori rosi dalla
quotidianità, slanci vitalistici, genitori assenti e svagati. Ma non sempre
gli esiti sono all’altezza delle premesse. Protagonista è una ragazza in
crisi quanto basta, presa dalla passione per la danza e dai complessi legati
alla propria corporeità. Ed ecco spuntare il professore universitario,
guarda caso in crisi matrimoniale, con il suo flusso di pensieri
ostentatamente poetici. Le vicende dei due, ovviamente, si incrociano, con
esiti non troppo chiari. Nel mezzo, la storia di una sorella sonnambula e,
allegato, il messaggio subliminale (ma non troppo) al lettore: spesso a
vedere veramente è proprio chi tiene gli occhi chiusi. Dopo un sospiro, il
lettore procede con il suo crescente bagaglio di saggezza e buon senso e si
imbatte in personaggi girovaghi o induriti dalla vita. In mezzo, i consueti
spiragli offerti dalla letteratura russa, mescolati a pensieri di varia
natura. Ma evocare, suggestionare, creare risonanze
emotive, a volte, non basta. La scrittura dell’autrice si avvolge su se
stessa, tratteggia e non definisce, allude e non dice. Le figure delineate
appaiono come monadi isolate fra loro, semplici pretesti per offrire alla
scrittrice l’occasione di pronunciare una frase di sicuro effetto. Le idee
interessanti, fortunatamente, non mancano. Ogni viaggio nell’interiorità dei
personaggi offre notevoli spunti di riflessione, piacevoli soprattutto se
accompagnati da una scrittura leggera e limpida al punto giusto. Dispiace
che la tempesta esistenziale evocata sia spesso un’ombra agitata da parole
troppo cariche di pathos. Anche il lettore desiderava la bufera...
|
Una guerra empia -
La
CIA e l'estremismo islamico -
Elèuthera |
| "Questo libro racconta
le vicende e le conseguenze di una strana storia d'amore finita malissimo:
l'alleanza, nella seconda metà del ventesimo secolo, tra gli Stati Uniti e
alcuni tra i più reazionari e fanatici esponenti dell'Islam" Guerra fredda, invasione dell’Afghanistan,
anni Ottanta. C’è un muro a Berlino al di là del quale è difficile sbirciare
e capire cosa sta succedendo. E c’è un Medio Oriente difficile da decifrare:
il Pakistan che ha bisogno di appoggio sia ad Est contro l’India sia ad
Ovest, l’Iran anti-americano ma anche anti-sovietico e sciita, l’Arabia
Saudita. Ma soprattutto c’è l’Islam, che vanta molti fanatici e che per
natura è contrario al comunismo. E la CIA, che nei mujahedin vede un
esercito pronto a combattere contro la minaccia proveniente dal Nord, e
interessi diversi ma convergenti e segreti di stato e verità inconfessabili
all’opinione pubblica. C’è, infine, John
Cooley, corrispondente dal Medio oriente e dall’Africa del Nord per oltre
quaranta anni per varie testate, che pubblica questo libro con una casa
editrice minore nel lontanissimo luglio 2000, un’età preistorica se
paragonata alla portata degli avvenimenti in corso, dando vita ad un testo
da esame universitario e di scarsa risonanza. Un libro di grande interesse,
ma non facile né leggero, scritto in modo non divulgativo, con nomi e date e
cifre e fatti illustrati con pochi giudizi, tanto che queste 400 pagine
fittissime e dense noi le consigliamo a chi si è già in parte documentato
sull’origine degli avvenimenti attuali e vuole approfondire e capirne di
più. Capire come abbia fatto la CIA a prendere gli agenti dell’ISI – il
servizio segreto pakistano - e i migliori tra i combattenti musulmani e a
portarli negli USA per addestrarli all’uso delle armi e alle tecniche della
guerra e della morte, e poi come si sia svolto l’allestimento di analoghi
campi d’addestramento prima in Pakistan e in un secondo momento direttamente
in territorio afgano, man mano che lo stesso veniva strappato ai Sovietici.
Come sia avvenuta la fornitura e la distribuzione delle armi con il
contributo dell’Egitto, dell’Israele e dell’Arabia, in un circuito diretto
dall’ISI. Quale sia stato il ruolo della Gran Bretagna. In che modo il
meccanismo sia stato massicciamente finanziato dagli Stati Uniti e
dall’Arabia e grazie al traffico illegale della droga e delle armi. Come,
soprattutto, man mano che diveniva chiaro che l’Unione Sovietica non
costituiva più un pericolo nel Medio Oriente, la guerra abbia subìto un
processo di privatizzazione, cioè come al diminuire dei fondi statali siano
sempre più aumentati quelli investiti da magnati privati e soprattutto da
Osama bin Laden. Come poi, dopo il ritiro dell’Unione Sovietica, bin Laden
abbia disposto del destino degli exguerriglieri offrendo loro continuità e
scopo, mentre in patria stavano ad aspettarli precedenti penali per i quali
non erano previsti sconti. Come li abbia muniti di documenti, li abbia
smistati verso le varie basi della sua rete in Sudan, Somalia o altrove e li
abbia continuati ad addestrare. Quali siano stati i contraccolpi di questa
guerra santa nei paesi che l’hanno sostenuta o appoggiata e negli stati in
cui la religione musulmana rappresenta una realtà consistente. E stupisce scoprire la
scarsa lungimiranza dei servizi segreti statunitensi, a non preoccuparsi
delle conseguenze che il finanziamento dell’estremismo islamico avrebbe
portato e a tollerare la produzione di droga e il traffico d’armi, tanto che
– si legge – meno della metà di quelle che inviavano ai guerriglieri veniva
effettivamente utilizzata per combattere l’esercito URSS. Peccato che a “La
guerra empia” manchi il capitolo finale, quello da scrivere dopo l’11
settembre. | Mani
pulite
- La
vera storia - Editori Riuniti |
| Marco Travaglio, Peter
Gomez e Gianni Barbacetto ricostruiscono le vicende dell’indagine
giudiziaria che ha cambiato l’Italia negli ultimi dieci anni. Mani pulite,
oltre 5000 persone inquisite, tra cui moltissimi nomi eccellenti, il crollo
di un intero sistema politico. La storia inizia con
l’arresto di Mario Chiesa, esponente di punta del PSI, colto in flagrante
mentre intasca mazzette per alcuni milioni di lire. E’ l’origine di qualcosa
di nuovo, l’efficienza e l’arguzia del pool di Milano aprono un falla nel
muro di omertà che protegge il sistema del finanziamento illecito ai
partiti. Una falla che diventa una voragine e che si traduce in file di
imprenditori e politici che più o meno spontaneamente raccontano, svelano,
confessano il meccanismo delle tangenti. I pagamenti in nero non sono
l’eccezione, bensì la regola non scritta del sistema vigente, sulla base
della quale si fonda la spartizione degli appalti e che si traduce in
corruzione, concussione, ricatto, inefficienza, conti esteri e società
off-shore. Spicca la figura di un uomo, Antonio Di Pietro, poliziotto di
umili origini fattosi da sé prima che magistrato, per un lungo periodo sulle
prime pagine di tutti i giornali come eroe nazionale, poi possibile capo del
governo, ministro della Repubblica o leader di entrambi gli schieramenti
politici, infine senatore, al governo con Prodi, indagato 54 volte sulla
base di dossier pilotati artificiosamente, costruiti su qualche leggerezza
realmente commessa e su una serie di fatti inesistenti, nell’arena politica
con i Democratici, infine a capo di un proprio movimento dai risultati
modesti. A tutto il libro dà una spiegazione, alle discusse scelte e vicende
dell’ex-simbolo della legalità ritrovata come alla discesa in campo di
Berlusconi, al famoso avviso di garanzia durante il vertice ONU di Napoli,
al ribaltone, al “Non ci sto” di Scalfaro, ai compromessi e alle deficienze
del centrosinistra, alla bicamerale-burla di Massimo D’Alema e Boato, alla
politica – se così vogliamo chiamarla - sulla giustizia della Casa delle
Libertà. Ne risulta il quadro di una battaglia interrotta, troncata,
amputata dall’azione di una cerchia di poteri forti tra sé ostili, ma
compatti nel nascondere i rispettivi illeciti e salvare il salvabile. In
questo contesto – si arguisce dal libro - il nostro attuale capo del governo
avrebbe avuto il merito di assumere il ruolo di miglior interprete e
difensore dei propri interessi e con questi di quelli degli altri partiti
politici e dei maggiori imprenditori italiani. La chiave di lettura delle
vicende politiche degli ultimi anni starebbe dunque tutta nella vincente
lotta di autoconservazione di una generazione di dirigenti che avrebbe
dovuto farsi da parte in blocco. Per spiegarci meglio, il fatto che
Berlusconi sia entrato in politica per difendere i propri interessi
personali non è un mistero per nessuno, ma se dovessimo dire perché ciò sia
stato possibile, perché gliel’hanno permesso, la risposta sarebbe da cercare
nelle indagini sui vertici dei partiti politici dell’opposizione e della
Lega e nei rapporti con Cosa nostra. Come lucidamente e
amaramente dice Francesco Saverio Borrelli nell’intervista rilasciata agli
autori del libro - in appendice - Mani pulite è stata sconfitta, in quanto
“il risultato complessivo dell’inchiesta, per la società italiana, è stato
abbastanza modesto ai fini della ‘purificazione’ della vita pubblica”. Ciò
che resta è una sete di legalità nuova anche se inappagata e la
consapevolezza che “se ci si impegna, se c’è la collaborazione dei
cittadini, è possibile riuscire a smascherare gli intrighi”. Marco Travaglio, Peter
Gomez, Gianni Barbacetto: tutti e tre sono giornalisti e tutti e tre
collaborano con Micromega,
Barbacetto scrive anche su Diario, Gomez su L’Espresso. Marco Travaglio,
oltre a scrivere su La Repubblica e L’Espresso, è il coraggioso ospite dello
show satirico di Daniele Luttazzi che, presentando il suo libro
L’odore dei soldi nel corso di una delle prime puntate, infiammò la
campagna elettorale dell’anno scorso, imponendo all’attenzione pubblica
questioni che il dibattito pre-elettorale aveva fino ad allora solamente
sfiorato. | L'etica hacker
- Ma allora chi
sono gli hacker? -
Feltrinelli |
| Un libro con un titolo
che ai più potrebbe sembrare un ossimoro, sulla base della convinzione che
gli hacker siano soltanto dei criminali che minano la sicurezza di internet
diffondendo virus e penetrando nei sistemi informatici ed informativi. In
realtà una delle prime precisazioni dell’autrice consiste nel distinguere i
buoni dai cattivi, cioè gli hacker dai cracker, e nell’identificare i
criminali informatici con i secondi. Ma allora chi sono gli hacker? La
miglior definizione che si può dare probabilmente è ‘persona appassionata,
entusiasta’. L’utilizzo della
parola hacker risale all’inizio degli anni Sessanta ed ebbe origine ad opera
di un gruppo di programmatori del Mit che prese a chiamarsi in quel modo.
Pekka Himanen contrappone l’etica hacker all’etica protestante descritta da
Max Weber in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” e ne indica
il maggior testimonial in Linus Torvalds, l’artefice del sistema operativo
Linux, autore tra l’altro del prologo del libro. Snocciola, dunque, i sette
valori fondamentali dell’etica hacker. Innanzitutto la passione, che fa sì
che per l’hacker non ci sia separazione tra lavoro e tempo libero. Al
secondo posto la libertà, cioè la facoltà di organizzare in modo elastico i
propri ritmi di lavoro, di gestire il proprio tempo senza essere schiavi di
orari prestabiliti. Quindi, l’apertura e
il riconoscimento dei pari: così come il mondo accademico, la comunità
hacker si fonda infatti sulla condivisione delle conquiste raggiunte dai
suoi singoli membri, il cui livello di autorevolezza dipende dal grado di
approvazione che riescono ad ottenere tra i loro pari. Il sistema operativo
Linux, appunto, è stato inizialmente creato da Linus Torvalds, ma
successivamente è stato ripetutamente migliorato grazie al contributo di
centinaia di hacker che si sono cimentati nell’analisi del codice sorgente.
La validità delle soluzioni proposte ancora adesso viene di volta in volta
giudicata da Torvalds e da un gruppo di hacker-leader, la cui posizione
preminente si fonda sul fatto che le sue decisioni siano accolte dalla
comunità nel suo complesso. A questo proposito Torvalds ha elaborato
addirittura il concetto di copyleft, in opposizione a quello di copyright.
Avanzando ancora nella scala dei valori dell’etica hacker incontriamo la “netica”,
cioè l’etica del network, i cui due principi basilari sono la libertà di
espressione e l’universalità dell’accesso alla rete. Al settimo ed ultimo
posto c’è infine la creatività, che l’autrice definisce come “l’uso
immaginativo delle proprie capacità, il continuo sorprendente superarsi e il
donare al mondo un contributo che abbia un reale valore”. “L’etica hacker” (Feltrinelli,
pp.159, euro 12,91) è un libro che entusiasma per i contenuti e per la
positività di cui si fa portavoce, peccato però che lasci un’impressione di
scarsa aderenza alla realtà. Non si capisce dove, come e perché l’etica
hacker dovrebbe soppiantare l’etica protestante figlia del capitalismo e
della ricerca spasmodica del denaro. Se per una qualche ineluttabilità
prodotta dallo sviluppo tecnologico o grazie a logiche economiche che ne
decretino la superiorità. Forse il modo migliore
di giudicare “L’etica hacker” è considerarlo un manifesto tardivo, che non
anticipa o annuncia una nuova corrente di pensiero né indica una strada
percorribile perché questa si imponga. Ma che comunque svolge l’importante
ruolo di tirare le somme su quanto già c’è.
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