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Notizie dai conflitti nel mondo

 

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Letti per voi  

tratto da "La Settimana Letteraria" di Buongiorno.it      

e da  Pickwick.it   .

Elenco:

Torna a: "l'angolo letterario"

 

 

 Le menzogne dell'impero e altre tristi verità  - Gore Vidal  -   Fazi Editore, pp. 152, 13 euro

Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi

Gore Vidal pubblica una raccolta di undici saggi brevi su vari aspetti inquietanti della realtà politica americana.

Inedito il primo, da cui il libro prende il nome; già pubblicati negli ultimi anni su varie riviste statunitensi gli altri dieci.

L'autore conferma un sospetto già avanzato nella sua precedente opera "La fine della libertà", in cui si chiedeva se Bush, così come Roosevelt nella seconda guerra mondiale a proposito di Pearl Harbor, non fosse stato a conoscenza dell'attacco di Al Qaeda prima che venisse sferrato. Stando al racconto dell'autore vari elementi non tornano. Uno per tutti il fatto che per ben un'ora e venti minuti, l'11 settembre del 2001, i caccia da combattimento americani non si siano levati in volo e che Bush abbia continuato tranquillamente la visita in cui era impegnato in un istituto scolastico, anche dopo essere stato informato dei dirottamenti. La tesi netta ed esplosiva dell'autore è che gli Stati Uniti avessero già programmato di attaccare l'Afghanistan prima dell'11 settembre e che nell'attentato al World Trade Center avessero semplicemente trovato il pretesto di cui andavano in cerca da tempo. Anzi, secondo Vidal, gli USA avrebbero addirittura favorito, se non commissionato, l'azione terroristica, in omaggio ad una strategia imperialistica di controllo delle risorse petrolifere e metanifere del Mar Caspio.
Le affermazioni dell'autore non sono estemporanee, ma si ricollegano a tutta una serie di acute considerazioni sulla democrazia americana, la cui autenticità sarebbe stata minata irreparabilmente dalla condotta di Roosevelt prima e di Truman poi nella seconda guerra mondiale e al momento dell'avvio della guerra fredda.

Valide o meno che siano la sue tesi, l'autore ha l'innegabile merito di rompere il muro di gomma che sembra essere stato eretto dalla stampa in omaggio ad una non sempre consapevole ortodossia. Troppo poco si parla degli interessi economici che sottostanno alle scelte politiche degli stati, troppo si concede agli slogan politici inculcati nelle masse senza adeguate spiegazioni.
E allora è inquietante vedere gli Stati Uniti paragonati all'Hitler che giustificava ogni aggressione presentandosi come la parte lesa, ma fa anche riflettere su un certo allarmismo diffuso ad arte in alcuni momenti. Ed è vero che alcuni paesi dispongono di armi di distruzione di massa il cui potenziale utilizzo spaventa. Tristemente vero è, infine, il fatto che gli USA da soli spendano nella difesa 22 volte quanto i cosiddetti "stati canaglia" messi insieme.

 

 Buskashì  - Gino Strada -   Feltrinelli pp. 178,  12,00 euro

"nonostante tutti abbiano agito in difesa della civiltà o della libertà, della religione e della patria, del mercato e della democrazia, nonostante tutti abbiano agito per il 'giusto', non è stato giusto"

 

Dopo l'11 settembre 2001, mentre tutti lasciavano più o meno disperatamente l'Afghanistan prevedendo l'imminente inizio di una guerra cruenta, Emergency, altrettanto disperatamente, tentava di raggiungere Kabul per portare soccorso alle tante vittime che inevitabilmente si sarebbero avute.

Più facile a dirsi che a farsi, perché in quel contesto neanche gli aerei della Croce Rossa Internazionale e dell'ONU, che pure entravano vuoti nel paese con l'unico scopo di prelevare il personale in servizio, volevano la responsabilità di dare un passaggio in direzione opposta a nessuno. E’ così che Gino Strada e i suoi amici, unici testimoni occidentali della liberazione di Kabul, sono entrati nel paese attraversando a dorso di cavallo le montagne che lo separano dal Pakistan fino ad arrivare in Panchir, la terra degli oppositori al regime dei talebani. E da lì hanno raggiunto la capitale, rischiando la vita nella terra di nessuno che separa i due fronti interni al paese. “Buskashì” (Feltrinelli, pp. 178,  12,00 euro) è il racconto di questo viaggio e del soggiorno in Afghanistan, dove i nostri hanno lavorato tra le bombe per portare soccorso nel momento di maggiore bisogno.

Se in "Pappagalli verdi" Gino Strada parlava principalmente della sua esperienza sul campo, con convinzione, ma anche con la schiettezza di chi, facendo scelte difficili, non nasconde di essere tormentato per questo, qui il racconto delle vicende vissute si intreccia a giudizi politici netti, considerazioni che derivano dal contatto con una realtà profondamente difforme da quella divulgata dai mezzi di comunicazione di massa.

"Sono quindici anni che vedo atrocità e carneficine compiute da vari signori della guerra, chi si diceva di "destra" e chi di "sinistra", e non ci ho mai trovato grandi differenze. Ho visto, ovunque, la stessa schifezza, il macello di esseri umani". Quello di Gino Strada è un rifiuto radicale della guerra, da qualunque parte essa venga. Il suo ragionamento è semplice. L'Afghanistan è un paese situato in una posizione strategica, la cui “amicizia” è essenziale per il controllo delle risorse energetiche dell'Asia Centrale, agli USA serviva e se lo sono preso, così come ha già fatto l'Unione Sovietica negli anni '80. Il terrorismo del World Trade Center è identico a quello commesso dall'Iraq contro i curdi col beneplacito di Stati Uniti e Gran Bretagna, a quello di Hiroshima e Nagasaki e del Vietnam e ai morti causati dall'embargo imposto dall'ONU al regime di Saddam. Ovunque ci sono stati vittime innocenti e diritti umani calpestati, ovunque morte, distruzione e guerra che genera odio che genera guerra.

"Buskashi" non è opera di uno scrittore né di uno studioso di geopolitica, ma è un diario di viaggio di un chirurgo, ed è scritto con il cuore. E infatti la narrazione è maggiormente efficace là dove Strada espone le sue convinzioni di fondo, la sua idea della pace. Tra una pagina e l’altra si leggono delle rivelazioni inquietanti, come quella contenuta nel racconto della storia di Farema, divenuta vedova e mamma nello stesso giorno, uccisa con la sua famiglia a colpi di mitragliatrice dalle forze speciali inglesi mentre in macchina raggiungeva l'ospedale. I giornali occidentali hanno detto in proposito che quel giorno per la prima volta la forza multinazionale aveva subito un attacco cui aveva dovuto rispondere col fuoco.

In appendice troviamo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, estremo argomento dell'autore a sostegno delle sue tesi. L'articolo 2 recita: "A tutti gli uomini spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione". L'articolo 3 invece dice: "ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona". Da dove vengono allora le innumerevoli vittime civili, gli aiuti umanitari a senso unico, l'attacco all'Afghanistan, "non i deserti di roccia e di sabbia né le fertili piane, ma i ragazzi, le donne, i bambini, i meravigliosi vecchi dell'Afghanistan"?

 

C'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo - Efraim Medina Reyes - Feltrinelli a cura di Laura Giacalone

 

"La filosofia indaga l'esistenza ma non ci aiuta a esistere. La religione ci insegna a disprezzarci. L'arte è un buon alibi ma lontano da casa diventa inutile. Non c'era niente di meglio da fare che starsene sdraiati a guardare il soffitto"

 

Chi si aspettava vegliardi centenari e piogge di farfalle leggendarie si sbagliava. Il realismo magico, negli ultimi romanzi latino-americani, sembra aver fatto il suo tempo. A prendere il posto degli stereotipi narrativi ad uso e consumo del lettore occidentale è un genere di scrittura diversa: sfacciata e irriverente, scomoda, a volte fastidiosa. Tale sembra essere, perlomeno, la sensazione che accompagna la lettura di C’era una volta l’amore, ma ho dovuto ammazzarlo, il romanzo del colombiano Efraim Medina Reyes.

Accantonata la pesante eredità dei vari Garcìa Marquez e Vargas Llosa, lo scrittore strizza l’occhio alla narrativa bukowskiana e ci racconta la storia disincantata e scomposta di un amore perduto. Lo scenario è quello di una Bogotà caotica e sfacciatamente metropolitana, nella quale agiscono vari perdigiorno idealisti e incattiviti. La voce dominante è quella di Rep, sospeso tra fallimenti sentimentali, velleità letterarie e torbide storie di sesso. I suoi pensieri, sempre politicamente scorretti, sono interrotti da sceneggiature immaginarie e ipotetici scenari di vita dei suoi miti del rock.

Ecco quindi che le sue vicende si intrecciano con la fine disperata di Sid Vicious e la chitarra invisibile di Kurt Cobain. I suoni di Seattle, evocati, accompagnano pensieri dotati spesso di una semplicità disarmante. Una scrittura passionale e arrabbiata, a volte eccessiva. Vietato, però, cadere nelle trappole maschiliste e anti-letterarie disseminate lungo il racconto! L’impressione finale è che quella di Medina Reyes sia, più che altro, una provocazione. Ma il lettore, si sa, ama anche essere contraddetto e, dopo una attimo di esitazione, non può fare a meno di perdersi nel caos di un inedito immaginario narrativo.

 

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa - J.T. Leroy

Fazi Editore - traduzione di Martina Testa, pp. 200, euro 12,50

 

Di sé e della propria infanzia J.T. Leroy raccontava nel suo primo romanzo. Il romanzo si chiamava Sarah ed era uscito in Italia poco più di un anno fa, spiazzando e folgorando critica e lettori per crudezza, dolore e incanto. J.T. Leroy raccontava un'infanzia fatta di marchette e mancati amori. Più di ogni altro il mancato amore materno. Sarah il nome della madre.

Nel suo secondo romanzo Leroy torna a raccontare di sé e di Sarah. E quella che potenzialmente potrebbe essere sempre la stessa storia in realtà è tutta un'altra storia. I protagonisti sono sempre madre e figlio, anche se tutto quanto intorno è un po' diverso, quasi che a raccontare un pezzo della propria vita a distanza di anni le cose accadute siano leggermente cambiate. Quasi che il divenire della memoria riesca a incidere sulla vita passata, cambiando un po' le carte in tavola, o semplicemente raccontando il non detto di prima. Quel non detto che riempie gli spazi concessi all'immaginazione. E mentre si legge la storia di Jeremiah e di Sarah la sensazione è che, pur essendo stata scritta sempre dallo stesso Leroy, sia una storia corale.

Leggere "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa" è di per sé gran bella cosa. Inevitabile è leggerlo in funzione di "Sarah" se si è già letto "Sarah". Inevitabile perché affascina come due libri scritti da uno stesso scrittore che racconta la stessa storia riescano a guardarsi a distanza senza mai specchiarsi. 

Questo pensi mentre leggi "Ingannevole e il cuore più di ogni cosa", e ti commuovi all'idea di un bambino che vive una pessima infanzia e poi cresce quanto basta per farne dei libri, senza mai venire a capo dell'inevitabile domanda: a chi serve tutto ciò? a lui che scrive? a lui dopo che scrive? a noi che leggiamo? alla letteratura? Te lo domandi, e subito dopo ti chiedi come possa un ragazzo cresciuto in mezzo alla strada a fare marchette, tra puttane e camionisti, avere appreso così bene l'arte dello scrivere. Arte che sta non soltanto nell'intensità delle cose scritte, ma nel modo in cui vengono scritte. Te lo chiedi tra te e te appena chiudi il libro, e rimani in silenzio con una domanda aperta e una storia chiusa.

 

J.T. Leroy è nato nel 1980 nel West Virginia. Dall'età di sedici anni ha pubblicato racconti su riviste e su Internet con lo pseudonimo di Terminator. Ha vissuto gran parte della sua breve vita tra camionisti e prostitute insieme alla madre, Sarah. Poi è approdato a San Francisco, dove ha continuato la vita di strada, prendendo ogni tipo di droga.

J.T. Leroy a Roma
J.T. Leroy, giovanissimo autore di "Sarah" e di "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa", famoso per la sua ritrosia a mostrarsi, comparirà in esclusiva mondiale e per la prima volta in pubblico. L'evento è previsto a Roma, la sera del 4 giugno alla Basilica di Massenzio, nell'ambito della prima edizione del Festival Letterature.


Un segno invisibile e mio - Minimum Fax

Aimee Bender - traduzione di Damiano Abeni e Martina Testa, pp. 257, euro 13,50

 

Mona Gray fa vent'anni alla prima pagina del libro, appena dopo il prologo. E per i suoi vent'anni si compra un'ascia al negozio di ferramenta del signor Jones. Mona Gray insegna matematica alle elementari. Il signor Jones era il suo insegnante di matematica delle elementari.
La matematica, dunque, c'entra in ogni caso. La matematica è nei "numeri e materiali" che gli allievi di Mona portano in classe durante le lezioni. La matematica è nei numeri di cera che il signor Jones s'appende al collo ogni mattina per dichiarare al mondo il proprio umore. La matematica è nei segni che Mona interpreta incontrando numeri in ogni dove. La matematica è anche nell'ascia, che appena Mona la appende al muro della classe diventa un sette. La matematica è una sorta di antidoto alle cose della vita, quasi che a contarle perdano d'intensità e dolore, quasi che a dirle a numeri si accontentino di fare i numeri senza la necessità di un coinvolgimento emotivo. Ma, si sa, non è così che vanno le cose. E basta soltanto che una bambina tiri giù dal muro il sette perché il sette torni a fare l'ascia e qualcuno si faccia male. Basta che il tubicino della flebo smetta di essere uno zero perché un tumore sia un tumore. Basta perdere di vista la forma delle cose per ritrovarsi davanti tutta il dolore che ogni tanto arriva e non si sa che farne, o per ritrovarsi la gioia che altre volte rende più attoniti del dolore.
Mona Gray, ad esempio, è una ventenne assolutamente incapace di portare a termine le cose, e così va avanti a forza di interruzioni sul più bello lasciando tutti quanti intorno a lei perplessi e addolorati. Senza alcuna apparente ragione, appena qualcosa di bello le accade, lei non può proprio evitare di lasciar perdere e fare dell'altro. Condizione che, a pensarci, non è poi così raro incontrare nella vita, così come non è raro incontrare tra gli altri personaggi di questo romanzo. Il romanzo è Un segno invisibile e mio
della trentatreenne americana Aimee Bender - della quale Minimum fax ha già pubblicato un racconto all'interno della bella antologia Burned Children of America che della ventenne Mona Gray racconta miracolose avventure e amori. E li racconta in maniera così accattivante da lasciarti incollato alle pagine del libro, una dopo l'altra, alla scoperta dell'imprevedibile che accadrà dopo. Avventure inaspettate e surreali quelle della graziosa Mona, che hanno in sé gloria e mestizia di tragedie e drammi. Eppure sono avventure che, comunque vadano le cose della vita, sanno cascare in piedi. 
Avventure che hanno la leggerezza del racconto concessa dall'amabile scrivere della Bender.
Leggerezza che non a tutti gli scrittori è data, e che riesce a tenere a bada anche il lato macabro delle cose e a far sì che mai l'orrore sia veramente orrore. Quasi che a guardare il tutto dall'alto siano gli occhi incantati di un bambino.

 

Aimee Bender, 33 anni, vive a Los Angeles. I suoi racconti sono stati pubblicati su prestigiose riviste letterarie come la Paris Review e Granta; ha esordito nel 1998 con una raccolta di grande successo negli Stati Uniti, The Girl in the Flammable Skirt.
Questo è il suo primo romanzo, che ha ricevuto consensi unanimi dalla critica americana.


 Questioni delicate che ho affrontato dall'analista  di Matthew Klam  Minimum Fax
traduzione di Matteo Colombo, pp. 224, euro 13,00

 

Il primo racconto si chiama "Gatto Sam" e comincia così: "Quello che ti ricordi di una ex è perfetto". Da lì inizia una divertente visita guidata attraverso le ex fidanzate di un uomo che cerca di venire a capo della propria vita amorosa. Una storia d'amore, dunque. Come storie d'amore sono i racconti a venire, gli altri sei racconti che fanno parte della raccolta di Matthew Klam: "Questione delicate che ho affrontato dall'analista". Racconti d'amore e non amore, in cui i protagonisti procedono in coppia, proprio per non smentire la natura stessa di ogni relazione sentimentale. Un filo conduttore voluto, questo, o forse soltanto casuale, ma che, in ogni caso, funziona. Funziona e fa riflettere su quale sia la differenza tra una riuscita raccolta di racconti e un semplice insieme di storie in cui il venir meno di una o più non cambierebbe il risultato finale.
"Questioni delicate che ho affrontato dall'analista", oltre ad essere uno dei racconti pi&ug rave; belli e accattivanti dell'intero libro, è una raccolta riuscita. E, come in ogni raccolta riuscita, concede al lettore il beneficio della scelta: leggere i racconti singolarmente e a distanza di tempo, o leggerli uno dopo l'altro avendo quasi la sensazione che si tratti di un'unica grande storia, di una sorta di viaggio sentimentale che racconta il divenire dell'amoroso pensare di un uomo. La seconda scelta probabilmente la migliore, senza però nulla togliere alla bellezza del leggerli saltando dall'uno all'altro, cercando nella discontinuità delle storie - metafora perfetta per dire la discontinuità dell'amore - un possibile nuovo filo conduttore.


Matthew Klam

La figlia dell'aggiustaossa - Amy Tan

Feltrinelli - traduzione di Laura Noulian, pp. 224, euro 13,00

 

E' il quarto romanzo di Amy Tan, scrittrice abile nel narrare gli scarti generazionali di chi come lei, nata in California da genitori cinesi, ha vissuto a metà strada tra Oriente e Occidente. "La figlia dell'aggiustaossa" è la straziante e bella storia di una madre e di una figlia. LuLing la madre, partita alla volta dell'America subito dopo la seconda guerra mondiale e lì diventata per la seconda volta moglie e vedova e per la prima volta madre. Ruth la figlia, nata e divenuta orfana subito dopo esser nata. Del rapporto tra madre e figlia Amy Tan racconta il divenire, che è un po' il divenire di ogni rapporto tra una madre e figlia, ovvero la crescita che, dopo un inevitabile distacco, porta ad un altrettanto inevitabile riavvicinamento. LuLing e Ruth si ritrovano, a più di quarant'anni dalla nascita di Ruth, a ricostruire insieme la storia dell'infanzia della madre di LuLing. Una storia accaduta in Cina e scritta da Preziosa Zietta, madre di LuLing, perché non vada dimenticata. Alla storia di Preziosa Zietta s'intreccia quella di LuLing, anch'essa scritta per non essere dimenticata, e la storia di Ruth, che Amy Tan scrive perché racchiuda le altre due. Il risultato è un romanzo che sembra un po' una matrioska rovesciata, in cui la matrioska piccola per qualche inspiegabile miracolo riesce a contenere la matrioska un po' più grande che a sua volta ha in sé quella più grande.

E il tutto - il romanzo nella sua completezza e ogni singola microstoria in esso contenuta - spiazza e commuove per la capacità che ha di fondere oriente e occidente nel modo di sentire e di percepire le cose della vita. E al tempo stesso ha in sé un qualcosa di universale che è l'inevitabilità e bellezza dell'affetto di una madre per una figlia e, soprattutto, di una figlia per una madre.

 

Amy Tan è nata nel 1952 a Oakland in California da genitori cinesi, dopo un breve soggiorno in Svizzera si è laureata in linguistica all'Università di San José e attualmente vive a San Francisco. Il suo primo romanzo ("Il circolo della fortuna e della felicità", Rizzoli 1989 e Universale Economica Feltrinelli 2001) ha avuto il merito di far conoscere al grande pubblico la cosiddetta letteratura multietnica, il filone di quegli autori (figli di immigrati o immigrati loro stessi) che ha saputo esprimere i problemi relativi all'integrazione di culture diverse.
Con "La moglie del dio dei fuochi" (Interno Giallo, 1992) e "I cento sensi segreti" (Feltrinelli 1996) Amy Tan ha confermato il suo successo e la sua eccellenza narrativa.


L'ultima morte di Wozzeck Fernando Lleras de la Fuente

Besa Editrice traduzione di Maurizio Fantoni Minnella, pp. 133, euro 12,40

 

"Si trovava a dormire placidamente quando sentì una sorta di ventosa sulla guancia. Una ventosa calda e umida. Non osò aprire gli occhi per la paura di vedere un orrendo animaletto che gli succhiava il cuore, pronto ad inculcargli chissà quale veleno". Iniziano così le avventure di Leon Fleisher e del suo doppio. Un inizio che rievoca inevitabilmente le kafkiane avventure di Gregor Samsa, per restare altrettanto inevitabilmente spiazzati, prima che la pagina sia finita, dall'apprendere che l'orrendo animaletto in realtà non è un animaletto. A svegliare in modo 'sì inquietante il povero Leon sono, infatti, i suoi due bambini e la moglie. E quello che ci si presenta davanti agli occhi dovrebbe essere un allegro quadretto familiare. Dovrebbe, ma non lo è. Altrettanto repentinamente entra in scena il doppio di Leon, ovvero Wozzeck, uomo spietato e destinato a un'irrimediabile infelicità, propria quanto altrui. E insieme a lui - quasi dentro di lui - vengono fuori personaggi ugualmente tetri, quasi che ad avere una visione pessimistica della vita la vita diventi oggettivamente pessima. La pessima vita di Wozzeck avanza, sprezzante delle esigenze del povero Leon. Anzi: facendo di tutto per annientare il povero Leon, e insieme a lui tutta la sua allegra famigliola. E l'unica via di fuga da simile incubo che Wozzeck concede a Leon sta nella domanda: esiste veramente l'amore? A Leon l'arduo compito di dimostrare - a se stesso prima ancora che a chiunque altro - che la moglie Karen/Tuic lo ama veramente. "Dovrai spiegarmi che cos'è l'amore", gli domanda spietato Wozzeck. Per poi dire, più avanti, tra sé e sé: ""Merda! Ho letto tutto sull'amore! I poemi di Shakespeare, le lettere di Elisabeth Browning, i sonetti di Lope de Vega! Ho letto Salomone! Neruda! Tutto il maledetto universo! Conosco quello che dicono ma non lo comprendo! Lo vivo senza sentirlo, lo sento senza viverlo, e senza dubbio, amo! Amo? Cosa vuol dire amo? Morire o vivere? O nulla?".

 

Fernando Lleras de la Fuente è nato a Bogotà nel 1947. Studioso di musica e di economia, pianista e compositore, ha lavorato per qualche tempo nel servizio diplomatico. È stato professore di economia all'Università di Bogotà. Il suo impegno nella politica e nell'economia del paese lo espose a tentativi di sequestro dei suoi figli e assistette alla morte di molti amici che, come lui, lavoravano per cambiare la sorti politiche della Colombia. Da alcuni anni ha declinato qualsiasi incarico diplomatico per potersi dedicare interamente alla scrittura (alla novella, alla poesia e alla saggistica interdisciplinare). Attualmente vive in volontario esilio a Caracas dopo aver lasciato la Colombia. Dopo "El riesgo del domingo" (1980), pubblicato in Italia da Besa con il titolo "Ombra e penombra" (2001), l'attività artistica di Lleras si è orientata verso la poesia: "Silencio de segretos pasadizos" (1979), "El corazon suspenso" (1989), "Tiempo frágil" (1993). "Doce sonetos al amor" (1997) conobbe una prima edizione in Europa, e precisamente a Vienna.


Il sentiero della speranza - Dominique Manotti
Marco Tropea Editore - traduzione di Francesco Bruno, pp. 316, euro 12,00

 

Una ragazzina tailandese viene trovata morta in un laboratorio del Sentier, quartiere parigino abitato prevalentemente da turchi clandestini. Prende il via così l'avvincente e ben scritta storia de "Il sentiero della speranza", che vede il commissario Daquin alle prese con il primo dei suoi casi. Il libro è il primo della scrittrice Dominique Manotti ad apparire in Italia. Dopo di questo sono stati pubblicati in Francia altri due volumi che vedono Daquin alle prese con altri casi sui quali indagare. Daquin è indubbiamente un commissario sui generis, affascinante e geniale, ha in corso una storia d'amore con Soleidad, uno dei capi del comitato di difesa dei turchi in Francia, e al tempo stesso si lascia affascinare dalle seducenti modelle a cui le sue indagini lo conducono. Un personaggio al quale ci si affeziona all'istante, più per attrazione che per tenerezza. Del quale innamorarsi, o desiderare essere un po' come lui. Intorno a lui gli uomini della sua squadra, e persone di ogni sorta coinvolte in qualche modo nell'omicidio della ragazzine. Sempre intorno a lui le strade, le piazze, i luoghi di Parigi, raccontati quasi fosse la sceneggiatura di un film. Partendo dal 3 marzo 1980, per arrivare al 30 maggio dello stesso anno. La vicenda sulla quale si trova a indagare Daquin coinvolge gli ambienti dell'haute couture parigina e quelli della droga internazionale, il mercato dei clandestini e la pornografia. Per ogni personaggio che entra c'è una porta che resta socchiusa, lasciando intuire il verosimile mondo di squallore e delinquenza che sta dall'altra parte. E il tutto è così perfettamente documentato da rendere credibile ogni singolo dettaglio. Si ha quasi l'impressione che ogni accadimento del libro sia vero, e, in ogni caso, la certezza che sia sufficientemente vero da considerarlo un valido reportage su quella che è stata la Francia di Mitterand e su quelli che sono alcuni aspetti della criminalità organizzata internazionale. Non a caso è precisa la citazione presa da Libération del 15 gennaio 1980 con cui si apre il libro. Così come precisa è la descrizione di quel che è accaduto poi con cui il libro si chiude: "Attualmente la zona della Mezzaluna d'oro (Afghanistan, Pakistan, Iran) produce il settanta percento dell'eroina consumata in Europa e il venti percento di quella destinata al mercato nordamericano. Fa seria concorrenza al Triangolo d'oro (Birmania, Thailandia)".

Dominique Manotti (1943) da sempre militante sindacale nella Confédération Française Démocratique du Travail, insegna Storia economica del XIX secolo all'Università di Parigi. Il sentiero della speranza, che ha ricevuto il premio per il miglior romanzo dall'Associazione francese degli scrittori del giallo (1995), è il primo della trilogia ambientata nella Parigi di Mitterand che ha come protagonista il commissario Daquin.


Con le donne ho chiuso - Sonzogno

 

"Quindi stai dicendo che le donne cadono nella categoria del mistero e che sto solo sprecando energie cercando di capirle?"


Più che un manuale d’istruzioni per l’uso dell’altro sesso, il romanzo di John Dearie è un divertente gioco di specchi. E’ come assumere, per un attimo, la maschile percezione delle cose e sciogliere, finalmente, l’incomprensione che spesso avvolge l’enigmatico mondo delle relazioni tra uomini e donne. Nel vano tentativo di comprendere il personaggio “uomo”, noi donne abbiamo spesso posto fine agli arrovellamenti cerebrali barricandoci dietro rassegnate etichette psico-terapeutiche: fobia del legame, tempesta ormonale in perpetua attività, inguaribile sindrome infantile. Ma ciò che riesce più difficile è riuscire a vedere noi stesse con gli occhi di un uomo. E sopravvivere! La divertente storia di Jack - scrittore non pubblicato, tradito e disilluso – ci permette di accostarci al mondo maschile con qualche consapevolezza in più. Anziché infrangere gli inquietanti stereotipi relativi al comportamento maschile, il romanzo di Dearie sembra a volte confermarli con disarmante sincerità.

Divertente, sconsolata, ironica, intelligente: la scrittura dell’autore sembra essere essa stessa ciò un uomo, forse, dovrebbe essere. Mettendo a nudo se stesso e la propria categoria, Dearie svela al contempo le assurde e affascinanti contorsioni mentali femminili. Inevitabile un perplesso esame di coscienza. “Sexy le mani?”, si chiede il protagonista esplorando i bizzarri gusti femminili. La consapevolezza della scarsa importanza attribuita alla manicure sembra suggellare definitivamente quanto sia strano per un uomo il mondo della libido femminile. Esilaranti i dialoghi: uomini a colloquio con se stessi e con amici capitolati al grande passo nuziale. A colloquio con donne disinibite ed ex agguerrite. Con amici spensierati e 35enni alle prese con i significati esistenziali di un’incipiente calvizie. E alla fine nessuna certezza: solo un irrisolto affascinante enigma.

Adieu Simenon - Robin Edizioni

 

"Emilia sentì un brivido. Le parole di Simenon non avevano più un senso per lei. Quell'uomo emanava una sorta di magnetismo, un alone che la stordiva, e le parole che non capiva diventavano un suono che la confondeva"


Maurizio Testa, giornalista romano, dopo “Maigret e il caso Simenon” e “L’uomo che voleva essere Maigret”, abbandona il genere poliziesco ma non la sua passione per Simenon, e chiude la trilogia a lui dedicata con la storia di un incontro che cambia un’esistenza: l’incontro immaginario ma verosimile tra il grande scrittore belga e una cameriera dell’hotel Excelsior a Venezia.

Emilia è una giovane donna che, all’inizio degli anni ’60, frustrata nelle sue ambizioni di trovare una nicchia con una professione intellettuale, per vivere lavora come cameriera nel lussuoso albergo. E’ qui che avviene il fatale incontro con Simenon, venuto a soggiornarvi con la famiglia. Tra i due nasce una passione istintiva e travolgente, tanto più immediata poiché l’uno conosce pochissimo la lingua dell’altra. La comunicazione è tutta fatta di sguardi e gesti, e dediche che ogni giorno lo scrittore appone sui libri che poi Emilia di notte divora febbrilmente. Una storia che si consuma e conclude in poco tempo, ma che dà il coraggio a Emilia di pretendere di più da se stessa e dalla sua vita, spingendola ad abbandonare il suo lavoro. Inizia un percorso lungo e dalle svolte inattese, il cui unico filo conduttore sembra essere il costante pensiero rivolto a Simenon, cui Emilia scrive una sorta di lettera-diario che a mano a mano gli spedisce, senza però ottenere risposta.

Ritroviamo così la protagonista dapprima in una comune in Toscana, un collettivo agricolo dove vive con una piccola comunità che decide e condivide tutto insieme, vive di scambi, pratica l’autocoscienza. Sono gli anni immediatamente seguenti alla contestazione del ’68, pervasi dall’illusione della possibilità di un cambiamento sociale autentico. Emilia si lascia sedurre dalla vita della comune, ma non perde senso critico e indipendenza, accorgendosi presto di tutte le contraddizioni insite in un sistema che pretende di essere totalmente autoreferenziale. E così, quando ancora una volta non si riconosce nella vita che sta conducendo, Emilia decide che è il momento di cambiare e, attraverso altre vicissitudini, la ritroviamo a Roma all’inizio degli anni ’80, donna ormai matura, amante di un parlamentare socialista e tutta immersa in quella corte dei miracoli che è l’alta società romana del tempo, fatta di mondanità, politicanti parvenu, procaci vallette con ambizioni di carriera, nuovi ricchi opportunisti e corrotti. Pur attraverso esperienze così diverse, il cammino interiore di Emilia risulta caratterizzato da una continua voglia di miglioramento, e soprattutto dal pensiero costante, talvolta sfumato, talvolta invece oppressivo, del suo amante francese, che continua ad accompagnarla spingendola infine a guardare in faccia il passato e alla decisione di incontrare lo scrittore.

Un racconto verosimile, si diceva, e non solo perché Georges Simenon era famoso per la sua passione per le donne e in particolare le cameriere degli alberghi in cui soggiornava. In “Adieu Simenon” tutto è ricostruito con cura e precisione: dall’ambientazione e l’atmosfera di anni cruciali della nostra storia recente, alla psicologia dei due personaggi. Colpisce, in particolare, la finezza con cui la mano dell’autore riesce a tratteggiare un animo femminile – compito non certo facile - in tutta la sua complessità. Ne risulta una storia che si presta a diverse letture: la storia di un amore che libera, o che viceversa ostacola; di una donna incapace di amare, o che invece è continuamente alla ricerca di quell’amore che le è sembrato di vivere pienamente solo una volta nella vita, in una camera dell’hotel Excelsior a Venezia.

 

L'Italia in velocipede - Sellerio

 

"Nel tardo pomeriggio, dopo un'ampia svolta della strada, si aprì dinanzi a noi la vista di Capraia che si ergeva alta sull'altra riva del fiume. Una visione lontana che non lasciava scorgere i dettagli ma solo la massa delle case, le torri e il campanile che si perdeva sbiadito nell'azzurro biancastro del cielo"

Nel 1884 il ventiquattrenne illustratore americano Joseph Pennell e la sua fidanzata Elizabeth Robins, scrittrice e critica d’arte di successo, acquistano a Londra un veicolo a tre ruote, un triciclo a due posti per l’esattezza. Nell’autunno dello stesso anno decidono di intraprendere con questo un pellegrinaggio da Firenze a Roma. Nasce così come resoconto di viaggio, scritto da Elizabeth e illustrato da Joseph, “An Italian Pilgrimage”, edito quest’anno in versione italiana per i tipi della Sellerio Editore Palermo.

Eccezionale documento di un viaggio insolito affrontato con un insolito veicolo in un assai poco noto centro Italia di fine Ottocento, il racconto narra soprattutto di un’avventura contro il l’ignoto, di due giovani seduti su un triciclo carico di bagagli ed armati esclusivamente della propria fisicità ed ottimismo. Ma il bello è che c’è anche da ridere. Perché da Firenze a Empoli, da Siena a Monte Oliveto, da Perugia a Spoleto, da Civita Castellana a Roma, ovunque insomma, il passaggio dell’inconsueto mezzo provoca negli indigeni curiosità e meraviglia ma anche paura ed ilarità. Dalla suora che terrorizzata si fa il segno della croce coprendosi il volto al venditore di fiori che li addita come esemplari da baraccone fino al gendarme che a piazza di Spagna li blocca per guida pericolosa, i nostri due eroi si imbattono in un’umanità quasi bambina, tenera e ignorante anche lei alla scoperta nel nuovo e del diverso: “Gente eccitata si era accalcata sull’uscio anche dopo che avevamo riposto il triciclo e curiosa aveva continuato a fissarci fin quando non si trovò la porta chiusa in faccia. Ancora insoddisfatta, spiaccicava il volto sui vetri delle finestre scrutandoci al di sopra di mucchi di pere rosse e gialle, e di tanto in tanto qualcuno, più audace degli altri, furtivamente ficcava il capo dentro la sala da pranzo sgambettando via prima di essere preso”.

Gli erranti - Vagabondi, viaggiatori, scrittori - Stampa Alternativa

 

"Scrivere - in forma di poesia, saggio, racconto: fra questi non c'è deriva - non è infine azione diversa dall'errare, da un metamorfico trascorrere. Dove lo scrittore non spiega 'cosa significa scrivere': perché scrittura è l'erranza che non si ferma dentro un significato e non finisce"

Stefano Lanuzza, già apprezzato autore di una raffinata ricerca sul personaggio del dandy nella letteratura (“Vita da dandy”, Stampa alternativa, 1999), ci sorprende con un nuovo testo che dedica agli scrittori “erranti”. Ovvero a quelli che individua come autori che hanno fatto della fuga, del viaggio, del vagabondare sia fisico che del pensiero fonte d’ispirazione del raccontare e del narrare.

“Gli erranti” contano tra loro tra i più grandi scrittori e poeti della storia e all’interno di sottogeneri che sono individuati nel testo (il viaggio fantastico, il viaggio sentimentale, i figli del vento, la scesa agli inferi, la fuga, l’erranza ecc.) troviamo una miriade di autori che nella loro dimensione costituiscono le fondamenta stesse della letteratura occidentale e non solo.

Il percorso da seguire, corredato da un ottimo apparato iconografico, porta a visitare epoche storiche e personaggi con le loro storie di vita e le loro opere, e fa “perdere” il lettore su di un cammino dove il libro è nello stesso istante viaggio e labirinto e il suo autore è Arianna che illumina i passi con la sua fiaccola. Un sentiero che ci conduce da una parte all’altra del mondo e tramite figure e autori la cui esistenza e il cui senso della vita sono stati la fuga, la strada, la marginalità, il vagabondaggio: in questa maniera costruendo man mano una straordinaria bibliografia ragionata e impagabile, di estrema suggestione.

Andando oltre quei fenomeni conosciuti e idolatrati dei nostri anni (vedi Chatwin), la ricerca minuziosa di Lanuzza esplora con un linguaggio veloce, allusivo, incantato, anche figure minori e a volte dimenticate, ma che risaltano per la loro originalità e per la loro opera spesso strettamente legata alla propria vita: perché una delle peculiarità comuni di questi autori “erranti” è proprio il legame indissolubile che ebbero tra la loro opera e la loro esistenza.

Imperdibile.

 

In tournée - Feltrinelli

“Quando l’editore mi ha proposto di raccogliere in un solo volume l’ormai introvabile ‘Daga nel loden’ insieme a ‘Che faccia fare’ e all’ultimo nato, ‘Precise parole’ (degli interventi prefazioni, quello di Franca è “classico”, gli altri due sono nuovi), ho provato un brivido a metà tra la gratificazione (tanta) e la scaramanzia (in genere l’opera omnia è una faccenda postuma)”. Questa è Lella Costa, attrice e dal 1987 anche autrice, in apertura al suo ultimo libro, in cui sono raccolti tutti i testi degli spettacoli messi in scena  proprio dal 1987 ad oggi.

In tournée (Feltrinelli, pp. 320, euro 9,00) si apre con i testi già apparsi nella ‘Daga sul loden’, a cui si aggiungono ‘Magoni’, ‘Stanca di guerra’, ‘Un’altra storia’ e l’inedito ‘Precise parole’. Sono monologhi rivolti a un determinato pubblico – un pubblico intelligente preteso ed inventato dall’autrice – sui grandi temi della nostra società: dalle molte manie, piccole o grandi che siano, alle pene, desideri e delusioni del sesso “debole”, allo scandalo tanto più grande in quanto costantemente ignorato e volutamente sottovalutato e minimizzato: quello della guerra. Un volume che riproduce fedelmente i testi dei molti spettacoli di Lella Costa, volutamente privi di spiegazioni, note ed appendici, e nonostante ciò coinvolgente ed incisivo come se lo spettacolo si materializzasse nella nostra mente. E, nonostante la tragicità di alcuni argomenti, il suo umorismo è sempre lì a farci sorridere nostro malgrado, e a metterci sotto gli occhi anche aspetti della realtà che non sempre vorremmo vedere.

Con la prefazione di Gino Strada (che Lella Costa sostiene nella battaglia di Emergency) e due interventi di Franca Valeri e Gino Vacis.

 

Desiderava la bufera - Feltrinelli

 

"Sentirai il tuono e mi rammenterai, penserai: desiderava la bufera"

Desiderava la bufera (Feltrinelli, pp. 224, euro 13,00): titolo senza dubbio evocativo, come lo sono, certamente, le innumerevoli citazioni tratte dalla letteratura russa che impreziosiscono la trama. Gli ingredienti sembrano esserci tutti: identità in crisi, fragili amori rosi dalla quotidianità, slanci vitalistici, genitori assenti e svagati. Ma non sempre gli esiti sono all’altezza delle premesse. Protagonista è una ragazza in crisi quanto basta, presa dalla passione per la danza e dai complessi legati alla propria corporeità. Ed ecco spuntare il professore universitario, guarda caso in crisi matrimoniale, con il suo flusso di pensieri ostentatamente poetici. Le vicende dei due, ovviamente, si incrociano, con esiti non troppo chiari. Nel mezzo, la storia di una sorella sonnambula e, allegato, il messaggio subliminale (ma non troppo) al lettore: spesso a vedere veramente è proprio chi tiene gli occhi chiusi. Dopo un sospiro, il lettore procede con il suo crescente bagaglio di saggezza e buon senso e si imbatte in personaggi girovaghi o induriti dalla vita. In mezzo, i consueti spiragli offerti dalla letteratura russa, mescolati a pensieri di varia natura.

Ma evocare, suggestionare, creare risonanze emotive, a volte, non basta. La scrittura dell’autrice si avvolge su se stessa, tratteggia e non definisce, allude e non dice. Le figure delineate appaiono come monadi isolate fra loro, semplici pretesti per offrire alla scrittrice l’occasione di pronunciare una frase di sicuro effetto. Le idee interessanti, fortunatamente, non mancano. Ogni viaggio nell’interiorità dei personaggi offre notevoli spunti di riflessione, piacevoli soprattutto se accompagnati da una scrittura leggera e limpida al punto giusto. Dispiace che la tempesta esistenziale evocata sia spesso un’ombra agitata da parole troppo cariche di pathos. Anche il lettore desiderava la bufera...

 

Una guerra empia - La CIA e l'estremismo islamico - Elèuthera

 

"Questo libro racconta le vicende e le conseguenze di una strana storia d'amore finita malissimo: l'alleanza, nella seconda metà del ventesimo secolo, tra gli Stati Uniti e alcuni tra i più reazionari e fanatici esponenti dell'Islam"

Guerra fredda, invasione dell’Afghanistan, anni Ottanta. C’è un muro a Berlino al di là del quale è difficile sbirciare e capire cosa sta succedendo. E c’è un Medio Oriente difficile da decifrare: il Pakistan che ha bisogno di appoggio sia ad Est contro l’India sia ad Ovest, l’Iran anti-americano ma anche anti-sovietico e sciita, l’Arabia Saudita. Ma soprattutto c’è l’Islam, che vanta molti fanatici e che per natura è contrario al comunismo. E la CIA, che nei mujahedin vede un esercito pronto a combattere contro la minaccia proveniente dal Nord, e interessi diversi ma convergenti e segreti di stato e verità inconfessabili all’opinione pubblica.

C’è, infine, John Cooley, corrispondente dal Medio oriente e dall’Africa del Nord per oltre quaranta anni per varie testate, che pubblica questo libro con una casa editrice minore nel lontanissimo luglio 2000, un’età preistorica se paragonata alla portata degli avvenimenti in corso, dando vita ad un testo da esame universitario e di scarsa risonanza. Un libro di grande interesse, ma non facile né leggero, scritto in modo non divulgativo, con nomi e date e cifre e fatti illustrati con pochi giudizi, tanto che queste 400 pagine fittissime e dense noi le consigliamo a chi si è già in parte documentato sull’origine degli avvenimenti attuali e vuole approfondire e capirne di più. Capire come abbia fatto la CIA a prendere gli agenti dell’ISI – il servizio segreto pakistano - e i migliori tra i combattenti musulmani e a portarli negli USA per addestrarli all’uso delle armi e alle tecniche della guerra e della morte, e poi come si sia svolto l’allestimento di analoghi campi d’addestramento prima in Pakistan e in un secondo momento direttamente in territorio afgano, man mano che lo stesso veniva strappato ai Sovietici. Come sia avvenuta la fornitura e la distribuzione delle armi con il contributo dell’Egitto, dell’Israele e dell’Arabia, in un circuito diretto dall’ISI. Quale sia stato il ruolo della Gran Bretagna. In che modo il meccanismo sia stato massicciamente finanziato dagli Stati Uniti e dall’Arabia e grazie al traffico illegale della droga e delle armi. Come, soprattutto, man mano che diveniva chiaro che l’Unione Sovietica non costituiva più un pericolo nel Medio Oriente, la guerra abbia subìto un processo di privatizzazione, cioè come al diminuire dei fondi statali siano sempre più aumentati quelli investiti da magnati privati e soprattutto da Osama bin Laden. Come poi, dopo il ritiro dell’Unione Sovietica, bin Laden abbia disposto del destino degli exguerriglieri offrendo loro continuità e scopo, mentre in patria stavano ad aspettarli precedenti penali per i quali non erano previsti sconti. Come li abbia muniti di documenti, li abbia smistati verso le varie basi della sua rete in Sudan, Somalia o altrove e li abbia continuati ad addestrare. Quali siano stati i contraccolpi di questa guerra santa nei paesi che l’hanno sostenuta o appoggiata e negli stati in cui la religione musulmana rappresenta una realtà consistente.

E stupisce scoprire la scarsa lungimiranza dei servizi segreti statunitensi, a non preoccuparsi delle conseguenze che il finanziamento dell’estremismo islamico avrebbe portato e a tollerare la produzione di droga e il traffico d’armi, tanto che – si legge – meno della metà di quelle che inviavano ai guerriglieri veniva effettivamente utilizzata per combattere l’esercito URSS.

Peccato che a “La guerra empia” manchi il capitolo finale, quello da scrivere dopo l’11 settembre.

 

 Mani pulite - La vera storia - Editori Riuniti

 

Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto ricostruiscono le vicende dell’indagine giudiziaria che ha cambiato l’Italia negli ultimi dieci anni. Mani pulite, oltre 5000 persone inquisite, tra cui moltissimi nomi eccellenti, il crollo di un intero sistema politico.

La storia inizia con l’arresto di Mario Chiesa, esponente di punta del PSI, colto in flagrante mentre intasca mazzette per alcuni milioni di lire. E’ l’origine di qualcosa di nuovo, l’efficienza e l’arguzia del pool di Milano aprono un falla nel muro di omertà che protegge il sistema del finanziamento illecito ai partiti. Una falla che diventa una voragine e che si traduce in file di imprenditori e politici che più o meno spontaneamente raccontano, svelano, confessano il meccanismo delle tangenti. I pagamenti in nero non sono l’eccezione, bensì la regola non scritta del sistema vigente, sulla base della quale si fonda la spartizione degli appalti e che si traduce in corruzione, concussione, ricatto, inefficienza, conti esteri e società off-shore. Spicca la figura di un uomo, Antonio Di Pietro, poliziotto di umili origini fattosi da sé prima che magistrato, per un lungo periodo sulle prime pagine di tutti i giornali come eroe nazionale, poi possibile capo del governo, ministro della Repubblica o leader di entrambi gli schieramenti politici, infine senatore, al governo con Prodi, indagato 54 volte sulla base di dossier pilotati artificiosamente, costruiti su qualche leggerezza realmente commessa e su una serie di fatti inesistenti, nell’arena politica con i Democratici, infine a capo di un proprio movimento dai risultati modesti. A tutto il libro dà una spiegazione, alle discusse scelte e vicende dell’ex-simbolo della legalità ritrovata come alla discesa in campo di Berlusconi, al famoso avviso di garanzia durante il vertice ONU di Napoli, al ribaltone, al “Non ci sto” di Scalfaro, ai compromessi e alle deficienze del centrosinistra, alla bicamerale-burla di Massimo D’Alema e Boato, alla politica – se così vogliamo chiamarla - sulla giustizia della Casa delle Libertà. Ne risulta il quadro di una battaglia interrotta, troncata, amputata dall’azione di una cerchia di poteri forti tra sé ostili, ma compatti nel nascondere i rispettivi illeciti e salvare il salvabile. In questo contesto – si arguisce dal libro - il nostro attuale capo del governo avrebbe avuto il merito di assumere il ruolo di miglior interprete e difensore dei propri interessi e con questi di quelli degli altri partiti politici e dei maggiori imprenditori italiani. La chiave di lettura delle vicende politiche degli ultimi anni starebbe dunque tutta nella vincente lotta di autoconservazione di una generazione di dirigenti che avrebbe dovuto farsi da parte in blocco. Per spiegarci meglio, il fatto che Berlusconi sia entrato in politica per difendere i propri interessi personali non è un mistero per nessuno, ma se dovessimo dire perché ciò sia stato possibile, perché gliel’hanno permesso, la risposta sarebbe da cercare nelle indagini sui vertici dei partiti politici dell’opposizione e della Lega e nei rapporti con Cosa nostra.

Come lucidamente e amaramente dice Francesco Saverio Borrelli nell’intervista rilasciata agli autori del libro - in appendice - Mani pulite è stata sconfitta, in quanto “il risultato complessivo dell’inchiesta, per la società italiana, è stato abbastanza modesto ai fini della ‘purificazione’ della vita pubblica”. Ciò che resta è una sete di legalità nuova anche se inappagata e la consapevolezza che “se ci si impegna, se c’è la collaborazione dei cittadini, è possibile riuscire a smascherare gli intrighi”.

Marco Travaglio, Peter Gomez, Gianni Barbacetto: tutti e tre sono giornalisti e tutti e tre collaborano con Micromega, Barbacetto scrive anche su Diario, Gomez su L’Espresso. Marco Travaglio, oltre a scrivere su La Repubblica e L’Espresso, è il coraggioso ospite dello show satirico di Daniele Luttazzi che, presentando il suo libro L’odore dei soldi nel corso di una delle prime puntate, infiammò la campagna elettorale dell’anno scorso, imponendo all’attenzione pubblica questioni che il dibattito pre-elettorale aveva fino ad allora solamente sfiorato.

 

L'etica hacker - Ma allora chi sono gli hacker? - Feltrinelli

 

 

Un libro con un titolo che ai più potrebbe sembrare un ossimoro, sulla base della convinzione che gli hacker siano soltanto dei criminali che minano la sicurezza di internet diffondendo virus e penetrando nei sistemi informatici ed informativi. In realtà una delle prime precisazioni dell’autrice consiste nel distinguere i buoni dai cattivi, cioè gli hacker dai cracker, e nell’identificare i criminali informatici con i secondi. Ma allora chi sono gli hacker? La miglior definizione che si può dare probabilmente è ‘persona appassionata, entusiasta’.

L’utilizzo della parola hacker risale all’inizio degli anni Sessanta ed ebbe origine ad opera di un gruppo di programmatori del Mit che prese a chiamarsi in quel modo. Pekka Himanen contrappone l’etica hacker all’etica protestante descritta da Max Weber in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” e ne indica il maggior testimonial in Linus Torvalds, l’artefice del sistema operativo Linux, autore tra l’altro del prologo del libro. Snocciola, dunque, i sette valori fondamentali dell’etica hacker. Innanzitutto la passione, che fa sì che per l’hacker non ci sia separazione tra lavoro e tempo libero. Al secondo posto la libertà, cioè la facoltà di organizzare in modo elastico i propri ritmi di lavoro, di gestire il proprio tempo senza essere schiavi di orari prestabiliti.

Quindi, l’apertura e il riconoscimento dei pari: così come il mondo accademico, la comunità hacker si fonda infatti sulla condivisione delle conquiste raggiunte dai suoi singoli membri, il cui livello di autorevolezza dipende dal grado di approvazione che riescono ad ottenere tra i loro pari. Il sistema operativo Linux, appunto, è stato inizialmente creato da Linus Torvalds, ma successivamente è stato ripetutamente migliorato grazie al contributo di centinaia di hacker che si sono cimentati nell’analisi del codice sorgente. La validità delle soluzioni proposte ancora adesso viene di volta in volta giudicata da Torvalds e da un gruppo di hacker-leader, la cui posizione preminente si fonda sul fatto che le sue decisioni siano accolte dalla comunità nel suo complesso. A questo proposito Torvalds ha elaborato addirittura il concetto di copyleft, in opposizione a quello di copyright. Avanzando ancora nella scala dei valori dell’etica hacker incontriamo la “netica”, cioè l’etica del network, i cui due principi basilari sono la libertà di espressione e l’universalità dell’accesso alla rete. Al settimo ed ultimo posto c’è infine la creatività, che l’autrice definisce come “l’uso immaginativo delle proprie capacità, il continuo sorprendente superarsi e il donare al mondo un contributo che abbia un reale valore”.

“L’etica hacker” (Feltrinelli, pp.159, euro 12,91) è un libro che entusiasma per i contenuti e per la positività di cui si fa portavoce, peccato però che lasci un’impressione di scarsa aderenza alla realtà. Non si capisce dove, come e perché l’etica hacker dovrebbe soppiantare l’etica protestante figlia del capitalismo e della ricerca spasmodica del denaro. Se per una qualche ineluttabilità prodotta dallo sviluppo tecnologico o grazie a logiche economiche che ne decretino la superiorità.

Forse il modo migliore di giudicare “L’etica hacker” è considerarlo un manifesto tardivo, che non anticipa o annuncia una nuova corrente di pensiero né indica una strada percorribile perché questa si imponga. Ma che comunque svolge l’importante ruolo di tirare le somme su quanto già c’è.

Il libro online

 

 

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Ultimo aggiornamento:

 12 gennaio 2003