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I giovani ricercatori:
Stefano Cortese
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La storia di
due beni
culturali a Melissano | |
La statua della Madonna Immacolata | ... Neppure di
questa statua (la Madonna Immacolata) si conosce, per carenza di
notizie, la data di costruzione. Il vescovo di Nardò, Mons. Giuseppe Ricciardi, mentre elenca, nella relazione sulla visita pastorale compiuta
il 12 novembre 1901, tutti gli arredi sacri e i libri e i documenti
custoditi nell’antica chiesa, non accenna minimamente alle statue allora
esistenti, comprese quella dell’Immacolata. Si sa, tuttavia, esser fatta
di legno duro, e precisamente di pero o, come dicono i vecchi, te “pirazzu”.
E’ allogata nel nicchiane vetrato addossato nel secondo pilastro. La sua
sede, ad onor della storia, non è stata sempre quella. Seguiamone le
vicende. Era fissata, al di sopra dell’altare maggiore, per ornamento e a
copertura della nicchia a muro, un’antica pala di tela raffigurante la
Madonna Immacolata. Nel 1922 la tela rimossa e sistemata là dove si trova
oggi, cioè sulla facciata interna dell’ingresso centrale. Nella nicchia a
muro fu trasferita la splendida statua lignea, ritenuta troppo pesante per
esser portata in processione. Fu acquistata allora una statua nuova, più
leggera, statua che il direttivo della Confraternita collocò nel nicchiane
vetrato rimasto vuoto. Le due statue restarono al loro posto per otto anni
consecutivi. Nel 1930 i nuovi dirigenti non condivisero la decisione dei
loro predecessori, cosicché trasferirono la statua di cartapesta nella
nicchia murale e rimisero quella lignea nel nicchiane vetrato. Da allora
la splendida immagine è sempre li e, nonostante il suo gravame, viene
portata, l’8 dicembre di ogni anno, in processione per le vie del paese. E
qui passiamo, per letizia dei vecchi, dalla storia alla tradizione. La
statua, bella qual era ed è, secondo il dire dei vecchi, scomparsi e
viventi, era molto ammirata da alcuni fanatici casaranesi, i quali
decisero di impossessarsene nottetempo e di condurla a Casarano. La via
era (e ciò è vero) quella detta dei Parati, allora stretta e ciottolosa,
oggi ampliata ed asfaltata. Caricata la statua su un carro tirato da due
buoi, s’incamminarono per quella via solitaria, ma arrivati al partifeudo,
cioè alla tenuta Parati, i buoi si fermarono. Vani furono tutti i
tentativi per farli avanzare. Esasperati, i casaranesi desistettero dal
sacrilego piano, cioè abbandonarono i buoi, che lentamente si diressero
alla volta di Melissano. In ricordo del “prodigio”, che richiama un po’
quello della mula… di S. Antonio, eressero sul luogo un’icona, che, detta
Madonna dei Parati o della Pila, esiste ancora, nonostante l’usura del
tempo e le sevizie delle intemperie. Tratto da : Q. Scozzi,
“Note melissanesi”, grafo 7 editrice, 1989, Taviano. L'Associazione
della Confraternita dell’Immacolata possedeva l'oliveto riportato nel
primo Statuto, al quale nel 1940 si aggiunse un vigneto che Giuseppe
Corvaglia fu Giosuè donò alla Confraternita legandolo alla celebrazione
di messe, panegirico e settenario in onore dell'Addolorata.
Ma, data la tenuità delle rendite dei due fondi, le modeste entrate
della Confraternita consistevano, soprattutto, nel ricavato delle questue
e delle quote di iscrizione dei confratelli alle offerte dei quali si
ricorreva per il culto dell'Immacolata protagonista, secondo la
tradizione orale, di avvenimenti straordinari legati alla
bellezza della statua.(1) Gran parte della storia dell'Associazione
ruota, infatti, intorno a questa immagine che ha suscitato sentimenti di
profonda devozione e di costante impegno per la cura della chiesa Lei
dedicata. |
Edicola Madonna della
Pila
| | Essa
ricorda un evento caro nella memoria dei Melissanesi. Gli abitanti di
Casarano si erano tanto invaghiti della Madonna di Melissano al punto di
portarla via di nascosto; arrivati però a metà via la statua diventò
pesante e i casaranesi non riuscirono più a trasferirla. Nel ricordo di
tale evento si è costruita una chiesetta che ricordasse l'accaduto. Giova
notare che recentemente è stata recuperata la pietra dove era raffigurata
la Madonna, la quale era stata trafugata da alcuni anni, e giace nella
casa di un privato in attesa che la generosità e l'interesse dei
Melissanesi consentano un restauro. Fin verso la fine della
guerra, sul finire dell'estate, si teneva la festa della Madonna della
Pila, con bande, giochi e baracche... Vi era, in questa contrada, un gruppo di maestose querce che si ergevano
imponenti e solitarie sulla campagna e venivano chiamati "scij".
Dei soldati polacchi,
avendo bisogno di legna, decisero di abbatterle, nonostante che il
proprietario delle querce, a cui teneva molto, offrì loro in alternativa
molti alberi di ulivo più delle querce. I soldati, per dispregio,
abbatterono le querce. Da quando furono
abbattute, la festa non si fece più. Tutt'ora esiste una
stilizzata immagine della Madonna con Bambino dipinta sul fondo di una
pila (2). |
note: (1) - Il primo
episodio fa riferimento al 1923, anno in cui la statua dell'Immacolata fu
posta nella nicchia dell'altare maggiore, preferendo acquistare
un'altra immagine meno pesante da utilizzare per le processioni. Si
racconta, quindi, che l'Immacolata apparve in sogno al Priore
comunicandogli di avere subito danni alla sua statua a causa della nuova
collocazione alla stessa non gradita. La mattina seguente fu constatata
la veridicità del sogno e quindi la vecchia statua ritornò ad essere
portata in processione e la nuova fu definitivamente collocata nella
nicchia dell'altare, dove attualmente si trova. Il secondo
avvenimento (nel quale non è difficile intravedere un certo
pregiudizio nei confronti dell'allora Capoluogo (Casarano)) riguarda il
tentato furto della medesima statua ad opera di casaranesi i quali,
volendo onorare a tutti i costi un'immagine così bella nella
propria parrocchia, penetrarono nottetempo nella chiesa e la rubarono.
Ma non riuscirono nel loro intento perché, giunti al partifeudo
dei due paesi, la statua divenne così pesante da rendere impossibile il
proseguimento del viaggio. La stessa, infatti, poteva essere
trasportata solo nella direzione di Melissano, per cui i casaranesi
furono costretti a riportare l'immagine nella chiesa della Confraternita.
(2)
(rubata una prima volta; L’immagine della Pila deve il suo nome al
recipiente dove i buoi si dissetarono) |
2° comunicazione sull'argomento "Madonna della
Pila" | |
Stefano Cortese
|
nota aggiuntiva della redazione: Il tentato furto
della statua dell'Immacolata nei confronti della comunità melissanese non
è il solo che i casaranesi compiono nei confronti di comunità vicine,
infatti, dalla tradizione orale, si raccoglie un altro fatto, questa volta
a scapito della comunità di Matino dove vi era un Crocefisso che a detta
di popolo compiva miracoli in una delle tante epidemie di peste.
I cittadini di
Casarano chiesero in prestito il Crocefisso in modo da alleviare il male
che si era sparso nella loro città e dalla comunità matinese ottennero il
permesso alla "trasferta" della statua. Fin qui tutto
normale, sino a quando, passato un bel po' di tempo, i cittadini di Matino
iniziarono a reclamare la restituzione della statua. Con vari sotterfugi i
casaranesi riuscirono a non restituire il maltolto. Ma in che modo questo
avvenne? Semplice, resero irriconoscibile la statua lignea, rivestendola
di cartapesta! Solo dopo molti anni è stato scoperto il mistero ed ora il
Crocefisso, liberato dall'involucro improprio è stato restaurato è
recuperato nella sua originaria figura e materiale. | 2° comunicazione sull'argomento
"Madonna della Pila" |
L’icona della Madonna della Pila o dei Parati
(toponimo con cui è conosciuta la contrada) è stata per generazioni
oggetto di culto per numerose persone sia di Casarano che di Melissano.
Deve il suo nome alla particolarità del disegno, dipinta proprio in una
caratteristica “Pila”.
Dopo un trafugamento negli anni 70 e un subitaneo
ritrovamento, nel 1999 fu nuovamente rubata. Fu rinvenuta in circostanze
accidentali nel 2000 e da allora dopo il clamore della notizia, non se ne
fece nulla. Rammaricato per la situazione e la sempre più evidente
incuria, ho iniziato ad interessarmi dell’icona soltanto nell’ottobre
2002: nel giro di pochi giorni feci comparire un articolo su “La
gazzetta del Mezzogiorno”, uno sul “Il nuovo Quotidiano”, un
servizio sull’ex emittente locale Topvideo (ora L’ATV, grazie alla
collaborazione di Paolo Manco e Lara Napoli) ed infine affiggere un
manifesto nella chiesa parrocchiale di Melissano, ove si spiegava meglio
la situazione e l’intenzione di ripristinare il culto.
Molte persone anziane ricorderanno sicuramente la
Madonna della Pila, anzi ne rammenteranno il ricordo con nostalgia, in
quanto ivi si svolgeva sul finire dell’estate una festa che accomunava
Melissanesi e Casaranesi con bancarelle e illuminazioni.
Raccolta una modesta somma (circa E. 200), dalle
offerte dei melissanesi, abbiamo ugualmente portata la Madonna presso lo
studio di Valerio Giorgino per il restauro, ora già completato.
Il restauro aveva evidenziato una ipotesi che da
tempo avevo già prospettato nel manifesto: l’origine antica
dell’icona. Infatti sotto allo strato ottocentesco si è rinvenuto uno
strato di intonaco che potrebbe risalire al periodo bizantino; non è una
teoria campata in aria perché il soggetto riprodotto è quello della
Vergine Eleousa (=della Misericordia) e l’usanza di dipingere nella pila
è di origine bizantina, proprio come la Vergine della Pila di Marittima:
anche qui infatti abbiamo due strati di affresco e il soggetto riprodotto
sembra identico.
Non manca anche qui la leggenda volta tutta a
favore dei Melissanesi e che mostra una sorta di pregiudizio contro
l’allora capoluogo della frazione di Melissano, cioè Casarano. Nota è
la leggenda - postulata sicuramente in epoca posteriore alla realizzazione
della nostra Madonna della Pila - che collega il culto preso in
considerazione con la stupenda statua della Madonna Immacolata, conservata
nella chiesa dell’Immacolata in una nicchia di vetro nella ex frazione.
Tale statua, molto bella, era assai ammirata da
alcuni fanatici di Casarano che la rubarono di notte per trasferirla nel
loro paese, grazie all’ausilio di un carro trainato da due buoi. I buoi
intrapresero per volontà dei padroni la via dei Parati, ma una volta
giunti all’omonima tenuta (località nota anche col nome di “Scij”),
in prossimità del partifeudo tra Casarano e Melissano, questi si
fermarono perché < sempre secondo la leggenda >, la statua diventò
pesante; questi casaranesi scapparono e così i buoi, secondo una versione
aggiuntiva, si assetarono nella nostra “pila”, dove comparve la figura
della Vergine col Bambino.
Ci si affida così alla generosità delle persone
devote e non, sicuramente pronte a dimostrare la loro sensibilità, pronte
a ripristinare un vetusto culto che ha appassionato e coinvolto numerose
generazioni che ci hanno preceduto e che permetterà ancora alla nostra
“pila” di sopravvivere, incrementando sempre più la devozione verso
un culto che ha un sapore misterioso ma affascinante.
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La
scomparsa abbazia della Madonna
del Civo. |
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Discorso introduttivo |
In pochi, a Melissano, sanno che
un tempo nella parte confinante con Taviano esisteva una
vera e propria abbazia, fondata nondimeno che dai monaci
Basiliani, che nel corso dell’VIII e dell’IX secolo si
erano trasferiti in massa per sfuggire alle persecuzioni
iconoclaste, in un periodo di grande splendore per il
Salento: l’era Bizantina.
Sono molto esigui i riferimenti
che ci restano su tale monastero, un tempo tanto importante
da disporre di un feudo proprio, che nella ridefinizione dei
confini andò suddiviso tra Taviano, Racale e Melissano. (1)
Fino a qualche decennio fa vi era un
cumulo di pietre a testimoniare la gloriosità di questo
edificio: eppure quegli avanzi, meta del celebre
pellegrinaggio di Civo (il 25 marzo di ogni anno) era
oggetto di tante devozioni. Nonostante il consiglio del De
Giorgi, che presago raccomandava la maggiore cura ai
posteri, nessuno ha saputo alzare il dito a fermare lo
scempio che stava compiendosi e così sono state spazzate le
vestigia di una traccia importante della nostra storia e con
essa i suoi ricordi e numerose tradizioni.
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La
storia
|
L’abbazia sorgeva a due Km di
distanza da Taviano, sulla sinistra della strada che da
Casarano e Melissano porta al paese dei fiori.
Originariamente forse sorgeva su un
punto strategico essendo ubicata sulla via Traiana, strada
fatta costruire da Traiano a spese proprie, che
presentava il prolungamento della via Appia e che
attraversava tutta la penisola Salentina in prossimità
della costa da Brindisi a Taranto.
Non si sa con certezza la data della
fondazione dell’abbazia. Si potrebbe collocare
generalmente la fondazione tra i secoli XI e XII, ma si
ritiene che risalga sicuramente prima dell’ottobre 1120.
Infatti nel Chronicon Neritinum (probabilmente questo però
è un falso storico, redatto da Pietro Polidori e
GianBattista Tafuri nel XVIII secolo per dare lustro alla
città di Nardò, vedi ETIMOLOGIA e LA STORIA, infra op.)
dell’abate Stefano si evince: “In eodem anno morio
Giliberto Senescalco de signori Goffridu et foe sepelito a
la ecclesia de lo monastero de Sancta Maria de Cibo”.
Ci sarebbe da fare un’ampia
riflessione su questo episodio. “Nella Chiesa di questo
complesso monastico, intitolata alla Vergine Annunziata
dell’Angelo, fu seppellito nell’ottobre del 1120
Gilberto Siniscalco, figlio del normanno Goffredo, conte di
Nardò, nel 1120”(2)
Ulteriori chiarimenti si possono fare
grazie al parroco attuale di Melissano, don Giuliano
Santantonio, che nel suo volume su Racale scrive: “Il loro
arrivo (dei Normanni) portò come conseguenza il
rafforzamento del rito latino, ma non la sua introduzione;
esso doveva già essere presente nel paese, e questa
circostanza dovette avere non poco peso nella scelta del
sito, operata dal conte Goffredo. I primi Normanni, non
seguirono una politica di scontro frontale con i Basiliani,
ma si limitarono ad occupare gli spazi lasciati liberi da
essi, restringendone sempre più il campo d'azione. In linea
con questa tendenza Goffredo chiese nel 1090 al Papa Urbano
II che la diocesi di Nardò, fino ad allora retta dai
Basiliani, venisse affidata ad un abate benedettino, mentre
il suo Connestabile Giliberto offrì una prova di deferenza
nei confronti dei Basiliani scegliendo la chiesa di Santa
Maria del Cio come ultima dimora per il suo corpo”.(3)
A confermare ulteriormente la
tradizione c’è Gianbernardino Tafuri, che nel 1719
trascrive il seguente epitaffio:
HIC JACET GILIBERTUS MILES
CONESTABULUS
CONDAM DOMINI
GOFFRIDI INCLYTI COMITIS. QUI OBIIT
ANNO DOMINICAE
INCARNATIONI
MCXXI MENSE OCTOBRI
INDIC. XIV
CUIUS ANIMAE
REQUIESCAT IN PACE
(“ Qui
giace il Connestabile Gilberto, del fu inclito conte
Goffredo. Morì nel mese di ottobre dell’anno del Signore
1120, indizione XIV. La cui anima riposi in pace”. Secondo il sistema di datazione
bizantina l’anno iniziava il 10 settembre e il 31 dicembre
1121 del calendario bizantino corrisponde, secondo il
computo moderno, non all’anno 1121 bensì al 1120).(4)
C.D. Poso identifica il conte Goffredo
con Goffredo II, conte di Lecce, morto prima del 1120(5), ma
probabilmente non errano SERIO-SANTANTONIO (6) ad
indicarlo con Goffredo, conte di Conversano e di Nardò,
morto tra il 1104 e il 1107 e che nel 1104 aveva fatto
costruire a Racale il monastero di Santa Maria la Nova.
Occorre ricordare che L’Arditi e chi
dipende da lui indica il miles Giliberto Senescalco
figlio di Goffredo il Normanno, conte di Nardò e lo si
dichiara morto nel 1125 (e non nel 1120); si è caduti in
tale equivoco perché si è fatto dipendere il complemento
di specificazione (condam domini Goffridi incliti comitis)
dal nome proprio del miles (Gilibertus) e non dal suo
attributo (connestabulus) e di conseguenza non
si è tradotto “Qui giace Giliberto, Connestabile del fu
inclito conte Goffredo”.
Tafuri ci tramanda altre tre epigrafi,
tutte riferenti però a successivi restauri.
-Sulla soglia della porta maggiore
della chiesa:
TEMPLUM HOC
JACOBUS DE BAUCIO
EPISCOPUS LEUCADENSIS REHEDIFICAVIT MDVII
( Giacomo Del Balzo, vescovo di
Leuca, riedificò questo tempio.1507).
-Sulla
grande soglia della porta dell'atrio dell'abbazia:
JOANNES JACOBUS DE BAUCIO
EPISCOPUS LEUCADENSIS
HOC OPUS FIERI FECIT
ANNO MCCCCXXXVII
( Giangiacomo Del Balzo, vescovo di
Leuca, realizzò quest’opera nell’anno 1437).
-Sopra
la soglia della finestra dell'antico cenobio abbaziale:
PETRUS ABBAS S. MARIAE DE CIBO
FIERI
FECIT
ANNO
DOMINI MCCCLI
( Pietro, abate di S. Maria de Civo,
realizzò nell’anno del Signore 1351).
Queste
lapidi al tempo della visita di Cosimo De Giorgi a Taviano
(1886), non esistevano più. Esistevano soltanto dei
graffiti che lo storico di Lizzanello aveva ricopiato:
1543-
Porcia Ptolomea (baronessa di Racale) Contessa de Potenza fo
qua a li 16 febbraio.
1564-
fu ditta Signora col Signor Conte… e magnaro.
1597-
A di 13 aprile 1597 fu qui D. Pompeo De Benedettis ( era un sacerdote di Racale).
Oltre
a questi graffiti De Giorgi ci ha riferito che esisteva una
pietra proveniente da Civo. In effetti, il compianto Pompeo
Lupo, nella sua opera “Stoppie” scrive: “Lo stesso De
Giorgi però riferiva che, inquadrata alla base del
campanile della parrocchiale di Taviano, si trovava una
pietra proveniente da Santa Maria de Civo (e che aveva
costituito la soglia della porta di casa di un contadino),
con incisa questa iscrizione: Renaldus Lupus vir devotus/
Dive Nunciate/ condidit hanc cappellam 1514" (7). Quest’ultima pietra, che ci
dice della costruzione di una cappella dedicata
all’Annunziata per devozione di un uomo pio, tale Rinaldo
Lupo, evidentemente annessa alla basilica, ci spiegherebbe
la particolare devozione dei Tavianesi per la Vergine
Annunziata, devozione che, fino ad alcuni decenni fa, si
esprimeva ogni anno con un pellegrinaggio alla Madonna
del Civo.
Conclusa
questa lunga parentesi sui reperti lapidari, continuiamo la
storia.
Nell’aprile
1325 si recò il sub-collettore Bartolomeo per riscuotere la
colletta di 6 tareni. L’episodio che avvenne una
cinquantina d’anni seguente alla visita, è molto più
importante. Infatti Mario De Marco non convalida la tesi di
don Giuliano Santantonio nel suo volume su Taviano.
Lo
scrittore di Cavallino ci riferisce che l’abbazia ha
sempre fatto parte della diocesi di Nardò, al cui Vicario
l’abate prestava obbedienza e che la latinizzazione della
diocesi di Nardò “sopravvenne dopo l’episcopato di
Ciriaco, da come si deduce da una lettera di Gregorio XI,
datata 29 aprile 1374, riguardante la nomina di un nuovo
egumeno di S. Mauro (abbazia di cui S. M. de Civo faceva
parte). Il vescovo di Gallipoli menzionato in questa lettera
è Domenico, nome di chiara origine romana. Da Domenico in
poi tutti i vescovi di Gallipoli saranno latini" (8). Questo è un avvenimento molto
importante per le vicende dell’abbazia, che alla fine del
XIV secolo sicuramente passò sotto l’obbedienza romana
La
querelle sembra essere risolta da Pizzurro. Quest’ultimo,
invece riprende la tesi di Santantonio, ma ciò può essere
inteso come una affermazione di sovranità dei Normanni
nell’ambito della sfera religiosa bizantina, perfettamente
in linea con la loro politica di rekatolisierung (9) (rilatinizzazione), che vide tra
i suoi artefici anche Goffredo, il conte di Nardò
(probabilmente il Goffredo cui si allude all’epigrafe),
che proprio nella vicina Racale aveva fondato il monastero
di Santa Maria la Nova e che nel 1090 aveva affidato la
diocesi di Nardò ad un abate benedettino, in luogo dei
Basiliani che l’avevano retta sino ad allora. In questa
prima fase il rito latino venne semplicemente da affiancarsi
a quello greco, ma inevitabilmente veniva ad innescare quel
processo di erosione della grecità che nella nostra zona
persisterà ancora a lungo.
Nel
1412 la diocesi neretina era retta da vescovi, ai quali era
riservato anche lo ius eligendi (l’assegnazione al
vescovo del diritto di nomina degli abati).
Questo
dato trova conferma anche nella Relatio de statu veteri
et recenti Neretinae Ecclesiae, che annovera l’abbazia
di Santa Maria de Civo tra le quattordici abbatiae
inferiores dipendenti dal monastero urbano di Nardò.(10)
Il
monastero, come ci dimostrano le lapidi, fu ricostruito nel
1507 da Giangiacomo del Balzo, vescovo di Leuca.
Nonostante
nel XVII secolo possedeva un reddito di 150 ducati annui, il
tempio appare già in rovina. La chiesa viene descritta ad
una sola navata con il tetto a tegole e adorno di tre
altari, uno dei quali dotato di un beneficio ecclesiastico,
di patronato dei De Franchis, signori di Taviano.
Molto
probabilmente il patrimonio bibliotecario, di grande valore,
in quel secolo “esulo” verso Grottaferrata, un paese sui
colli Albani. In effetti nella Relatio de statu
veteri et recenti Neretinae ecclesiae si trova conferma:
vengono segnalati come possedimenti un paio di “vestimenti
fornutis” in lino, due calici in peltro, due candelieri in
bronzo, una campana collocata sul campanile ed un’altra
più piccola, la “Campanella piczula”. Consistente era
il patrimonio libraio, che annoverava dieci libri liturgici
greci, il cui numero era superiore a quello presente nelle
chiese matrici dei paesi vicini. L’abbazia di S. M. del
Civo possedeva un Missale in greco, un altro Missale
di Crisostomo e Basilio ed una “prosmena”, un’Epistula
“in carta cornigna”, un Evangelium
“catamerium in carta cornigna”, una parte di vecchio
Vangelo, un Triodo in carta pergamena, un altro Triodo
che era stato dato in prestito a don Antonio Vitali da
Scorrano, una vecchia Prophecia in cattivo stato, un Emineo
mutilo all’inizio e alla fine, un altro Emineo che
era stato dato in prestito al defunto arciprete di Cursi ed
un altro “peczo” di libro in pergamena contenente la
“legenda” dei Santi.
Più
che l’entità numerica, è però interessante sottolineare
il particolare che due libri liturgici
erano stati dati in prestito (uno all’arciprete di Cursi e
l’altro ad un sacerdote di Scorrano) dal quale si evince
che ancora alla metà del XV secolo l’abbazia Santa Maria
de Cibo fosse considerata un punto di riferimento ad un
centro di diffusione e di cultura religiosa greca in
quest’angolo del Salento.
Il
suo nome è poi compreso in due elenchi di abbazie
dipendenti da S. Maria di Nardò, contenuti in un fascicolo
della visita del vescovo Cesare Bovio che porta la data
dell’ottobre 1577, e ricorre in una bolla vescovile del 16
aprile 1635, che si riferisce alla nomina di Vincenzo Carafa,
chierico napoletano, quale rettore della chiesa abbaziale di
S. Maria de Civo, sita già allora nel territorio di
Melissano.
Dalla
visita del 1714 del vescovo Antonio Sanfelice si rileva che
l’altare maggiore possedeva una tela raffigurante la
Vergine Titolare e gli altri due altari erano
rispettivamente dedicati a S. Ignazio di Loyola ed alla
Madonna delle Grazie.
L’antica
chiesa probabilmente subì notevoli danni il 20 febbraio del
1743, che causò tanti crolli nel Salento.
Tra i documenti del "Fondo”
Ambrosio (1884) si trova:
"A sud-est dell'abitato (Taviano)
ed alla distanza di circa due Km rimangono nel territorio
pochi ruderi dell'antico e nobile monastero sotto il titolo
di S.M.di Civo, opera senza dubbio dei Basiliani e nella cui
chiesa fu seppellito Gilberto Di Goffredo Normanno conte di
Nardò nel 1125 come si ricava dalla cronaca neretina di
Abbate Stefano ricordata dal Tafuri, Oggi non si trovano che
le tracce di un'antica necropoli, e non è infrequente il
caso di smuovere colla vanga od aratro sarcofagi o vasi
mortuari" (11).
Dopo il 1848 i ruderi hanno
testimoniato per oltre un secolo la memoria di un antico e
illustre insediamento, che sono sopravvissuti all’incuria
dell’uomo, ma non hanno avuto scampo dalla brama di
conquista delle cose materiali. |
L’etimologia |
Il nome Santa
Maria de Cibo (o del Cio) deve essere considerato
il titolo originario (la titolatura originaria)
dell’abbazia, in quanto è il solo a comparire nei
documenti dei primi secoli (XIV-XVIII). La variante Civo deriva
dalla prima per betacismo (passaggio dalla b alla v),
secondo un fenomeno tipico salentino, e la si incontra per
la prima volta nella Relatio del 1412 (12):
essendo però questa un falso settecentesco redatto ad opera
di Pietro Polidori, si deve collocare al settecento la sua
prima attestazione. Da Civo si è poi generata per
apocope Cio (e Ciu in dialetto), che è
l’attuale ed unico nome conosciuto dagli abitanti del
luogo.
Per una prima ipotesi si potrebbe fare
derivare il nome Civo dal latino Cibus, che in
seguito sarebbe diventato civus (esiste tuttora il termine
civare usato per indicare l’azione con cui viene posta
l’esca all’amo), ma questa ipotesi non da garanzie.
Per una seconda ipotesi si potrebbe far
derivare il nome Civo dal greco Cion(neve) o Kion(colonna).
Siccome i monaci erano Bizantini (quindi parlavano il greco)
e non sono poche le chiese dedicate alla Madonna della Neve
si sarebbe tentati a rendere più accreditata questa
ipotesi; ma non risulta da nessuna parte che l’attributo
alla Madonna venerata fosse la neve e anche se fosse il nome
Cion in italiano sarebbe diventato Chio e non Cio (13).
L’ipotesi più accreditata invece
sarebbe la considerazione di Serio-Santantonio, cioè che il
vocabolo Civo derivi dal nostro dialetto. Infatti
esiste un suono onomatopeico con il quale i bambini
richiamano gli uccelli, Ciu. Così Madonna del Cio
diventerebbe Madonna dell’Uccellino, testimoniata anche da
Cosimo De Giorgi che nei suoi “Bozzetti di Viaggio”, che
conferma: “Il dipinto…rappresenta la vergine assisa su
un sontuoso trono baldacchino col Bambino che con la destra
benedice e nella sinistra ha un uccellino bianco”. (14)
Così l’affresco che era situato
sul muro a destra dell’ingresso suscitava una grande
tenerezza tanto da indicare il luogo con il nome che i
bambini danno ad un uccellino:Cio.
Tale spiegazione, per quanto dotta, non
è tuttavia condivisibile perché basata non sulla forma
originaria del nome (Cibo), bensì su quella che è
il risultato finale delle trasformazioni linguistiche
verificatesi nel corso dei secoli (Ciu). Né a
sostegno dell’etimologia può esser addotto il dipinto, di
cui si ignorano autore e data che,
comunque, doveva esser successiva al 1507, anno in cui venne
ricostruita la chiesa ad opera di Giacomo del Balzo.
Il significato
del titolo originario della chiesa era di per sé evidente e
non richiedeva alcuna esegesi etimologica: si tratta
di un nome augurale, come lo è quello di altre coeve
abbazie basiliane, ad esempio quella di Sant’Angelo de
Salute (Galatone): in questo caso ci si augurava la
buona salute, così come nel nostro l’abbondanza di cibo,
coerentemente all’opera di dissodamento delle terre e di
valorizzazione agraria intrapresa dai monaci Basiliani.
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Ricordi
(P. Lupo)
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Il pellegrinaggio dei nostri
paesani all'Annunziata di Civo, di cui ho fatto cenno prima,
avveniva il 25 di marzo di ogni anno, nel pomeriggio, ed
erano soprattutto le mamme quelle che, tirandosi dietro i
figlioletti, si recavano alla "Madonna te Ciu". Il
luogo non era molto lontano dal paese (da Taviano distava un
paio di chilometri circa) ed era quasi al centro del
territorio posto tra Taviano, Racale e Melissano, con una
leggera sporgenza verso quest'ultimo. Lungo la stretta via
di campagna, respirando l'aria frizzantina della recente
primavera, si recitava il S. Rosario, con un certo
disappunto di noi ragazzi, ai quali veniva imposto almeno il
silenzio.
Giunti al sito, una breve sosta
dinanzi al dipinto dell'Annunciazione che raffigurava su di
un muro sbrecciato. Poi la gente si sparpagliava nei prati,
si accomunava e familiarizzava anche con i forestieri che,
pellegrini anch'essi, provenivano dalla vicina Melissano.
Io ricordo quei muri diroccati,
ricordo vaghe pitture sbiadite e scrostate, ricordo delle
buche nel terreno circostante e c'era chi le descriveva come
resti di un sepolcreto e chi invece parlava di grotte nelle
quali i monaci si isolavano a lungo per digiunare e pregare.
E, ragazzino quel che ero, ricordo soprattutto la festa
indescrivibile che facevamo con tanti altri compagni di
viaggio, quando giungevamo "all'Acquari". Era
questo un ampio pantano che si trovava in un campo lungo la
strada, nel quale vivevano e si moltiplicavano a centinaia,
forse a migliaia, le rane che in dissodante coro gracidavano
in continuazione e si mostravano alla superficie dell'acqua
limacciosa e verdastra e saltellavano nell'erba tenera del
prato. Erano bellissime e per noi erano un grande
divertimento.
Si tornava poi a casa alquanto
stanchi, stringendo però in un fazzoletto annodato un pugno
di nocciole acquistate "per devozione" all'unica
bancarella e, quel che era consueto in quella circostanza e
appariva singolare (chissà perchè), due o tre "maranci"(arancie)
dal sapore acre di... acido fenico(15).
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Note: |
(1) - C.G. CENTONZE- A. DE LORENZIS-
N. CAPUTO, Visite pastorali in diocesi di Nardò
(1452-1501), Galatina, 1988: “Nell’inventario dei beni
dell’abbazia di Santa Maria de Cibo si dice che gli eredi
di don Nicola possedevano <<clausiorum unum vinearum
allo feudo della dicta chiesa>>
(2) - M. DE MARCO, op.
cit.; vedi anche LA STORIA infra op.; L’ARDITI afferma,
senza citare l’eventuale fonte, che “il monastero fu
probabilmente opera della nota pietà e munificenza di
Goffrido il Normanno, conte di Nardò”. Secondo B. VETERE
però ci riferisce che l’ipotesi soprascritta sia
confutabile. Il conte di Nardò si distinse per la sua opera
di rilatinizzazione; quando questi fondò un monastero, come
ad esempio avvenne nella vicina Racale, Goffredo vi insediò
monaci Benedettini. In questo modo confuta anche la tesi di
SANTANTONIO.
(3) - SERIO- SANTANTONIO,
Racale- note di tradizione e cultura, Galatina, 1983
(4) - L’indizione bizantina (o
greca), che era in uso nell’Impero Romano d’Oriente, in
occidente venne usata nelle cancellerie regie sino ai primi
decenni del IX secolo e in quella pontificia sino al 1087,
ma in alcune zone d’Italia, soprattutto quella
meridionale, perdurò per tutto il medioevo.
(5) - D. POSO, Il
Salento Normanno. Territorio- istituzione- società,
Galatina, 1988
(6) - SERIO- SANTANTONIO, op. cit.
Va tenuto
presente che il Chronicon Nerithinum non è attendibile
perché, come hanno ben dimostrato gli studi filologici, è”
una falsificazione di tempo assai posteriore al secolo XIV”.
(7) -
P. LUPO, Stoppie- Ricordi Tavianesi, Taviano 1997
(8) -
M. DE MARCO, op. cit.
(9) - M. PASTORE, Pergamene dei
secoli XVI-XVIII nell’archivio di stato di Lecce, in
“Note di civiltà medievale”, Bari, 1980.
(10) - Relatio ACVN, C/149. Relatio
è il primo documento in cui l’abbazia appare con la
denominazione de Civo anziché con de Cibo, che continua a
comparire nella restante documentazione almeno sino a tutto
il XVI sec: questo potrebbe essere un tassello importante (e
che nessuno lo ha considerato) da aggiungere all’ipotesi
di coloro che ritengono la Relatio un falso settecentesco.
(11) - M. DE
MARCO, op. cit.
(12)
- Per maggiori informazioni sul Relatio vedi A. PIZZURRO,
Terra Alisti, Lecce, 1999, pp.51-53
(13)
- M. DE MARCO, Taviano. Dalle origini ai nostri giorni,
Lecce, 1991 e SERIO –SANTANTONIO, Racale-note di
tradizione e di cultura, Galatina, 1983.
(14) - C. DE GIORGI, Provincia
di Lecce- Bozzetti di viaggio, Galatina, 1975
(15) - P. LUPO, op. cit.
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Bibliografia |
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Scozzi: "Melissano- società, economia e territorio
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Vetere: “Città e monastero. I segni urbani di Nardò”,
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Ecclesiae et diocesis” dell’abate De Epifanis (1412), Galatina,
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Pastore: “Pergamene dei sec. XVI-XVIII nell’archivio
di stato di Lecce” in “Note di civiltà
medievale”, Bari, 1980
A.Jacob:
“Gallipoli bizantina” in “Paesi e
figure del vecchio Salento” Galatina, 1989
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Stefano
Cortese |
Nota
della redazione: |
Su
richiesta dell'amico Stefano, intervengo per spiegare
l'etimologia del termine a cui fa riferimento il Nome di
"Madonna del Cibo o Civo".
Nella
parte dedicata all'etimologia vi sono due punti che possono
farne il significato e e questi sono:
a -
".. si potrebbe fare derivare il nome Civo dal
latino Cibus, che in seguito sarebbe diventato civus (esiste
tuttora il termine civare usato per indicare l’azione con
cui viene posta l’esca all’amo)..."
b -
"... Cosimo De Giorgi che nei suoi “Bozzetti di
Viaggio”, che conferma: “Il dipinto…rappresenta la
vergine assisa su un sontuoso trono baldacchino col Bambino
che con la destra benedice e nella sinistra ha un uccellino
bianco ...”
Oltre questo si ha notizia di
un'altro affresco dove le figure rimangono identiche solo
che il Bambino in questo caso non ha la mano destra in
posizione benedicente, bensì con quella mano porge da
mangiare all'uccellino che ha, posato, sulla mano sinistra.
Il simbolismo ecclesiastico è
imperante in questa vicenda, infatti se noi analizziamo
quanto riferitoci dal De Giorgi e l'ulteriore affresco,
circa la rappresentazione iconografica della Madonna del
Civo abbiamo quali figure: la Madonna, il bambino ed il
passero.
Viste singolarmente nei loro
simbolismi abbiamo: la Madonna quale simbolo della Madre,
della protettrice e dell'insegnante (nei confronti del
Bambino); il Bambino quale simbolo del gioco, dell'infanzia,
dell'apprendimento e contemporaneamente della semplicità e
della santità; l'uccellino (che di solito è un passero, in
questo caso bianco, a rappresentarne il candore) quale
rappresentazione dell'anima.
Quindi a questo punto e con queste
chiavi diviene facile giungere alla soluzione dell'etimo del
nome "CIVO". La Madonna del Civo significa la
Madonna che insegna al Bambino come nutrire (civare)
la sua anima candida.
Pino De Nuzzo
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L'assalto
al patrimonio culturale |
Con
la finanziaria 2002 e poi la legge Tremonti del giugno 2002
che sancisce l'istituzione della "Patrimonio dello
stato spa" da parte del governo, si è aperto in Italia
un dibattito che riguarda in particolare i beni che
rivestono un valore storico e culturale.
Salvatore
Settis, archeologo della scuola Normale Superiore di Pisa e
uno dei pochi archeologi italiani noti al grande pubblico,
ha tempestivamente pubblicato un volume, preoccupato da tale
situazione, con il significativo titolo "Italia SpA.
L'assalto al patrimonio culturale". La situazione
voluta dal governo è stata dettata da motivi sempre più
preoccupanti che riguarda soprattutto l'incuria dei beni in
cui versano: per lo stato infatti solo la privatizzazione
dei beni consentirebbe di salvare il maggior numero di
monumenti possibili.
Secondo
le opinioni personali, il Settis evidenzia il fatto che il
nostro patrimonio culturale sia il fulcro della nostra
identità nazionale e della nostra memoria storica. E'
diffuso nelle città, campagne, coste, monti: è un
patrimonio che lo incontri inconsapevolmente. Il capillare
intreccio di bellezze naturali e monumentali è il tessuto
connettivo del nostro paese, un caso unico al mondo per
contiguità e continuità. Per il Settis, noi ci sentiamo
parte di questo contesto e di quella "secolare cultura
di conservazione" messa a punto dagli italiani per
generazioni e generazioni nelle istituzioni e nella
coscienza civile.
Gli
italiani in materia di patrimonio culturale non hanno da
imparare piuttosto da insegnare, perchè l'ampliamento del
concetto stesso di patrimonio artistico è un prodotto della
cultura italiana. E' anche questa consapevolezza che ci fa
sorridere delle sciocchezze che periodicamente riecheggiano
a proposito di quale percentuale di beni culturali sarebbe
custodita nel nostro Paese, e che ci dovrebbe far essere
gelosi custodi dal modello "Italia".
Un
sottotitolo del volume del Settis recita la formula
"Innovare, non copiare" e per spiegare ciò si rifà
alla copia del modello delle Università italiane che
copiarono pari pari quelle tedesche; fra le critiche più
dure ci fu quella di Villani nel 1872: "Non bisogna
guardare alla luna; non bisogna ragionare come se fossimo
diversi da quel che siamo; non bisogna ogni notte sognare la
Germania come una volta si sognava la Francia. Bisogna
innanzitutto studiare l'Italia. Noi siamo entrati in
un'officina, abbiamo preso una ruota che comunicava il suo
meccanismo a cento altre, l'abbiamo isolata dal resto e
restiamo sorpresi perchè non pone in moto più nulla. Un
meccanismo, trasferito da un paese all'altro, non porta
necessariamente dappertutto i medesimi risultati".
Sostituendo gli Stati Uniti alla Germania, questa
riflessioni oggi è di grandissima attualità.
Il
riferimento al modello americano, o meglio alla sua
mitologia, sembra ineluttabile. E' un riferimento che ha
ottime ragioni: infatti, i musei americani spesso funzionano
molto bene, hanno molti visitatori, un attivo programma di
mostre e di nuove acquisizioni, ottimi servizi per le scuole
e le visite, una gestione dinamica, imprenditoriale. Ma non
sarà questo il toccasana, come ha rivelato il Villani.
A
differenza di quelli statunitensi, i nostri musei sono
incardinati nel territorio, formano un tutto unico con le
città e le campagne che lo circondano: fra il villaggio
abitato e il museo, fra la chiesa e il paesaggio, fra la
città, fra la campagna, la villa non c'è soluzione di
continuità, ma un'unica tessitura concresciuta nel corso
dei secoli. Perciò il "modello Italia" di tutela
prevede che il patrimonio culturale sia tutto di interesse
pubblico, anche se solo in parte di proprietà pubblica;
mentre nulla di simile prevedono le leggi americane. Perciò
la normativa italiana impone allo stato la tutela
dell'intero patrimonio culturale della Nazione, quella
americana no: se un museo americano dovesse vendere un
quadro di Tiziano non toglierebbe nulla alla storia,
poniamo, della California, in quanto le collezioni dei musei
non hanno alcun nesso storico col territorio che li
accoglie; se lo facesse l'Accademia di Venezia, mutilerebbe
la storia di quella città e dell'Italia.
Come
Saturno che divora i suoi figli, il dipinto raffigurato
nella copertina del libro del Settis, lo stato prospetta di
mettere in vendita il nostro patrimonio culturale, tra
vecchie caserme e caselli ferroviari, in una lunga lista di
gioielli di famiglia. Attraverso la Patrimonio S. p. A.,
creata per la valorizzazione, la gestione e la alienazione
del patrimonio dello Stato, può partire l'assalto a un
patrimonio, costituito per la massima parte da beni
culturali.
(Notizie tratte ed adattate da :
-Daniele Manacorda, Beni culturali: dalla tutela
alla svendita? in Archeo N° 1 gennaio 2003;
-Francesco D'Andria, Formazione universitaria per i
beni archeologici nel Salento. Nella prospettiva europea,
marzo 2003
-Salvatore Settis, Italia spa. L'assalto al
patrimonio culturale, Einaudi, 2002)
Stefano
Cortese
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dello stesso autore si segnalano i
siti internet:
www.geocities.com/adesold/Felline
su Felline
www.melissano.too.it
su Melissano
www.geocities.com/adesold
sulla cripta ipogea del Crocefisso ad Ugento
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